Tecnologia e welfare sociosanitario. di Stefano Cecconi

Nell’emergenza che abbiamo vissuto il potenziale enorme delle tecnologie digitali non è stato pienamente utilizzato. Ora occorre svilupparlo per migliorare il servizio e quindi il diritto alla salute.

Le misure restrittive imposte dall’emergenza Covid-19, quelle sul “distanziamento” prima di tutto, hanno imposto al centro del dibattito pubblico l’utilizzo delle tecnologie digitali, in tutti gli ambiti. Si tratta, come segnala Le Fevre in un recente saggio pubblicato su La Rivista delle Politiche Sociali, “di tecnologie emergenti che determinano perturbazioni agli attuali modelli operativi dei governi e consentono soluzioni innovative, sia per le politiche pubbliche che per la fornitura di beni e servizi, nonché per il contesto socio-economico in generale”. E che possono creare disuguaglianze sociali o contrastarle, a seconda di come vengono utilizzate.

Nell’emergenza che abbiamo vissuto, e stiamo vivendo, il potenziale enorme delle nuove tecnologie digitali in ambito sanitario e sociale non risulta sia stato pienamente utilizzato. Si sono rivelati ritardi e acuite differenze territoriali nell’innovazione digitale del servizio sanitario nazionale e dei servizi del welfare. Non tanto nel campo dell’assistenza ospedaliera o della farmaceutica, dove da tempo, e per diverse ragioni, l’innovazione tecnologica ha fatto irruzione. In questi campi, semmai, si pone un problema enorme di appropriatezza nella selezione delle nuove tecnologie (che va governata dall’Health Technology Assessment) e bisogna colmare i divari fra territori. Si è manifestato invece un ritardo dell’innovazione nel campo dell’assistenza territoriale e dei “servizi a distanza“, che possono rendere più facile e veloce il rapporto tra il cittadino, il servizio sanitario e i servizi del welfare in generale.

Sono proprio i settori delle cure e dell’assistenza rivolti alle persone più fragili: con malattie croniche, anziane, con sofferenza mentale, disabili, che possono trarre enormi benefici dallo sviluppo della sanità digitale, in specie nel territorio. Quell’assistenza territoriale (domiciliare in primis) che è stata un punto debole nell’emergenza, pur con notevoli differenze tra territori più o meno organizzati. Si sono sovraccaricati così gli stessi ospedali, con tutte le conseguenze che abbiamo vissuto. La debolezza della rete dei servizi territoriali è stata aggravata dalla carenza di innovazione nei “servizi a distanza”, dalla telemedicina ai servizi online (informazioni, prescrizioni, refertazione, prenotazioni, aiuto sociale o psicologico, ecc). Così ha esposto a rischi, almeno in parte evitabili, i lavoratori, dai medici di medicina generale agli operatori dell’assistenza domiciliare, e i cittadini da assistere.

Durante l’emergenza Covid-19 sono state approvate alcune misure specifiche o indicazioni operative per l’assistenza remota, decise dalle autorità competenti (ministero della Salute e Regioni). Ma sono mancate indicazioni univoche per l’adozione di servizi in telemedicina coerenti tra loro su tutto il territorio nazionale, adattabili alle realtà locali, e in grado di comunicare tra loro. Mentre le iniziative nelle regioni non risultano siano state monitorate (o almeno rese pubbliche), anche per segnalare le buone pratiche. Per questo insistiamo con governo e Regioni perché si perfezioni e si acceleri il programma di transizione digitale della sanità italiana e del sistema socio-assistenziale; e perché si vada oltre il terreno più esplorato, quello dell’assistenza ospedaliera, con una visione che preveda un welfare di comunità e sia orientato alla persona.

Qualche segnale arriva dal decreto decreto rilancio e dal decreto liquidità; quest’ultimo, ad esempio, prevede per i medici di medicina generale l’uso di “piattaforme digitali” per il contatto con pazienti fragili e cronici gravi e la dotazione di piccoli dispositivi medici (pulsiossimetri) per il controllo a distanza in videoconsulto. Ma è evidente che occorre ben altro. È indispensabile organizzare una regia nazionale forte e rendere interoperabili i diversi sistemi regionali, che oggi non possono comunicare tra loro. Così come bisogna superare la frammentazione e il gap nella realizzazione dei progetti a livello regionale e territoriale. Si pensi al Fascicolo sanitario elettronico Fse che, adottato nel 2015, è oggi diffuso solo in 12 regioni. E la cui struttura va ripensata per diventare Fascicolo socio sanitario. Oppure al Patto per la sanità digitale, sottoscritto da governo e Regioni nel 2014, ma lungi dall’essere attuato.

Oltre che in campo nazionale, anche con le singole Regioni e a livello territoriale è importante una pressione del sindacato per accelerare i processi di innovazione per l’assistenza socio-sanitaria nel territorio. Sappiamo che, in un futuro non lontano, esisteranno “ospedali 4.0”: strutture ad alta integrazione tecnologica, abitati da migliaia di dispositivi in rete, ad alta intensità, che, in quanto hub si relazionano agli spoke, gli ospedali territoriali, e poi con i servizi di distretto (vedi Forum Pa “ospedale 4.0 e logistica sanitaria”). Il rischio maggiore è che l’innovazione si fermi all’ospedale e alle altre specializzazioni. Quando invece lo sviluppo di tecnologie e modelli organizzativi per i servizi a distanza sono fondamentali anche per attuare una sanità territoriale di iniziativa – tipica del chronic care model – rivolta a persone diabetiche, cardiopatiche, anziani non autosufficienti. E anche, in questa emergenza, potrebbero consentire un monitoraggio attivo dei soggetti più fragili e di fornire servizi di aiuto sociale e psicologico.

È evidente che simili innovazioni hanno un impatto enorme su chi lavora nei servizi. Occorre dispiegare una forte contrattazione sindacale per assicurare diritti, formazione e partecipazione dei lavoratori. Ma serve la contrattazione sociale per fare in modo che le innovazioni si sviluppino anche nella rete dei servizi territoriali. Ecco le ragioni che ci hanno spinto ad organizzare un seminario – il prossimo 7 luglio – per capire quale impatto le nuove tecnologie abbiano sui diritti dei cittadini utenti e delle persone che lavorano nei servizi socio-sanitari, e per individuare linee per la contrattazione sociale e del lavoro.

Stefano Cecconi è responsabile Sanità della Cgil nazionale e direttore della Rivista delle politiche sociali

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