Rischi da ripensare nella co-pandemia. di Luca Carra

Anche oggi, purtroppo, la Protezione civile nel suo consueto appuntamento con le morti del giorno, comunica 15 morti da incidente stradale. La curva non accenna a scendere, facendo pensare che anche quest’anno si chiuderà intorno ai 5.000 morti, di cui il 15% giovani fra i 15 e i 24 anni e 242.000 feriti (1). Nella sua comunicazione quotidiana, la Protezione civile non manca di rimarcare che oggi sono deceduti 500 malati di cancro. Anche in questo caso la curva non sembra abbassarsi confermando la previsione di circa 180mila morti per fine anno (2). Infine dalla Protezione civile ci arriva anche la cifra di 660 morti oggi per malattie cardiovascolari, confermando quindi il trend che si assesterà per fine anno intorno ai 240mila morti (3).

Immaginiamoci che ogni giorno le autorità sanitarie ci diano, oltre la conta dei nuovi casi, dei risanati e dei morti da Covid, la situazione delle altre patologie che affliggono la popolazione italiana. Di certo diventeremo tutti più consapevoli della vera realtà epidemiologica del Paese, ma anche più depressi e preoccupati.

La pandemia ci ha cambiati. Il lockdown ha salvato vite ma ha a sua volta prodotto danni sociali, economici e sanitari difficili da quantificare. La chiusura delle scuole, l’interruzione di molti lavori, la distanza sociale ci hanno lasciato in eredità anche la fatica psicologica di riaprire con fiducia la porta di casa e tornare per strada, in ufficio, a scuola. La vita da inizio maggio è ripresa, ma non come prima. Ciascuno di noi fa prove quotidiane di spensieratezza e spontaneità, ma non è così facile, vista anche l’incertezza che ancora accompagna il futuro di questa epidemia. Tanto che oggi, a obbligo di mascherina all’aperto revocato anche in Lombardia (15 luglio), la maggior parte delle persone continua a esibirla quale vessillo apotropaico.

Un esame di realtà

La scienza, che molti criticano per ciò che non ha saputo fare e prevedere, ha in realtà capito molte cose di questa epidemia. Per esempio che l’età media dei 34.026 pazienti deceduti per Covid al 9 luglio 2020 è di 80 anni. Sotto i 50 anni i morti sono l’1%, dai 50 ai 60 il 3%. Dei più di 30mila morti, l’Istituto Superiore di Sanità ha potuto consultare 3.857 cartelle cliniche, dalle quali ha scoperto che il numero medio di malattie presenti al momento dell’infezione erano 3,3: la più diffusa è l’ipertensione (66%), secondo il diabete (30%), terza la cardiopatia ischemica (27%) e via continuando con fibrillazione, insufficienza renale, cancro, BPCO, obesità etc. (4)

Morale, tutti possono infettarsi, ma al momento la suscettibilità a morire riguarda per la grande maggioranza anziani e malati con una o più malattie preesistenti. Certo non una minoranza di persone: secondo le stime prodotte da Andrew Clark e collaboratori sulla base del Global Burden of Diseases, ad essere a maggior rischio di malattia grave o morte per Covid sarebbero 1,7 miliardi di persone (il 22% della popolazione mondiale) con almeno una malattia cronica preesistente, e in particolare i 349 milioni di persone (pari al 4% della popolazione) che ne hanno almeno due (5).

Come acutamente osservato nell’editoriale che accompagna l’articolo, ciò che ci troviamo ad affrontare in questi mesi è una co-pandemia cronica-infiammatoria e infettiva a un tempo, dove un virus per la grande maggioranza delle persone innocuo fa precipitare situazioni di salute critiche. Questa visione di Covid – oltre a sfumare la distinzione fra malattie non trasmissibili e infettive – ci dovrebbe far ripensare il rischio e il modo di affrontarlo, non più con soluzioni uguali per tutti, ma interpellando e coinvolgendo le diverse comunità alla ricerca di nuove risposte (6).

Quale prevenzione? 

La ricerca attiva dei casi deve certamente rimanere alla base della strategia anti-Covid, e anzi andrebbe resa ancora più tempestiva ed efficace, come spiega Rodolfo Saracci in un recente articolo (7). Ed è senz’altro da adottare la massima di Geoffrey Rose riportata da Saracci in apertura di articolo: “È meglio essere sani che malati o morti. Questo è l’inizio e la fine dell’unica vera argomentazione a favore della medicina preventiva. Basta questo“.

Ma il diavolo sta nei modi per raggiungere questo fine universale. L’esperienza del lockdown e delle sue conseguenze suggerisce di puntare a questo risultato facendo leva più su una sistematica educazione alla responsabilità e meno su un atteggiamento paternalista che funziona con il bianco e nero di obblighi e divieti via decreto. Come rammenta Anthony Fauci in una recente audizione al Senato statunitense, “penso che dobbiamo sottolineare la responsabilità che abbiamo sia come individui che come parte di uno sforzo collettivo“.

Pare insomma venuto il momento di lasciar cadere le invocazioni a una proroga dello stato di emergenza e lavorare cercando il consenso intorno a strategie mirate. Per esempio proteggendo le categorie più a rischio, in particolare nei luoghi in cui si è consumata dal 30 al 50% della mortalità: le RSA (8).

Proteggere tutti non dovrà più significare bloccare tutto. Abbiamo creato le RSA per garantire l’assistenza e preservare la socialità negli anziani più fragili, esponendoli in questo modo a un rischio aumentato di morire per comuni influenze o altre infezioni. Come risolvere questo paradosso?

Abbiamo chiuso in via precauzionale le scuole nel tentativo di spezzare la catena dei contagi che già circolavano indisturbati fra il personale sanitario degli ospedali e fra gli operatori e gli ospiti delle case di riposo. Abbiamo impostato una strategia di prevenzione universale volta all’eradicazione di un virus sulla via di diventare endemico, dimenticando che Covid non è la Spagnola (età media di mortalità 28 anni) ma un male molto più selettivo nelle età colpite più duramente, e nei luoghi che hanno agito da volano.

Covid si espande per incendi improvvisi, innescato da supediffusori in particolari ambienti formando “grappoli” che vanno prontamente controllati, affinando soprattutto strumenti di analisi spaziale e l’uso di Big Data, come riferito da Nature (9). Il caso più eclatante è la diffusione del contagio a Singapore, avvenuto per il 95% nei dormitori dei lavoratori migranti, che mostra fra l’altro come alla vulnerabilità anagrafica e sanitaria si sovrapponga un’altrettanto grave vulnerabilità socio-economica (6, 9).

Obiettivo: mai più lockdown

La sfida di una strategia preventiva mirata sta quindi nell’immaginare regimi di protezione differenziati per tipologie funzionali e spaziali, e crescenti per età e fragilità. Ci ha provato a contrario l’economista Pietro Terna facendo girare un raffinato modello multiagente della situazione piemontese. Secondo questa esperimento mentale, la riapertura delle scuole a maggio e il ritorno al lavoro dei meno vulnerabili ha prodotto scenari non peggiori di quelli di un lockdown stretto (10).

Possiamo spingerci oltre i modelli e immaginare scenari di riapertura di questo genere, caratterizzati da gradi via via crescenti di protezione dai bambini agli anziani e dai sani ai più fragili? Cosa possibile ma non facile, perché pone il problema etico di stabilire soglie e imporre regimi differenziati a categorie diverse di persone, con potenziali rischi di discriminazione (11). Di certo una politica di questo genere non potrebbe essere imposta alla popolazione, ma dovrebbe essere discussa insieme ad altre ipotesi nel modo più sereno e informato possibile, cercando le forme più tollerabili per tutti. Per esempio – come ha suggerito in un editoriale su Repubblica Tito Boeri – mettendo sul piatto della bilancia anche la salvaguardia della formazione e del lavoro dei giovani, le prime vittime sociali della pandemia (12).

Probabilmente la situazione politica e sociale italiana non è ancora matura per strategie preventive più sfumate e mirate, ma nessuno ci impedisce di studiare la questione per i tempi che verranno, per esempio elaborando nuovi metodi di stima dell’impatto reale della pandemia come proposto da T.J. Vanderweele su JAMA (13), in modo da evitare un nuovo lockdown generalizzato. Covid ci ha colpiti a sorpresa e ci sta facendo pagare un prezzo umano ed economico enorme. Molti studi cominciano a mostrare che anche le risposte alla pandemia fanno impoverire, ammalare e morire: che in questo caso non sia in gioco un microbo ma un insieme di fattori sociali non fa, per chi ne è vittima, molta differenza.

Note
1. ACI e ISTAT conteggiano circa 3.300 morti annuali, che salirebbero però a 5.500 considerando la mortalità oltre 30 gg. dall’incidente. ACI-ISTAT. Incidenti stradali 2018
2. AIOM. la mortalità dei tumori in Italia
3. Epicentro. Malattie cardiovascolari
4. Epicentro. Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia Dati al 9 luglio 2020
5. Clark et al. Global, regional, and national estimates of the population at increased risk of severe Covid-19 due to underlying health conditions in 2020: a modelling study. The Lancet
6. Schwalbe et al. Covid-19: rethinking risk. The Lancet
7. Saracci, Prevention in COVID-19 time: from failure to future, JECH
8. Pesaresi. Le idee guida dell’OMS sul Covid-19 nei servizi di LTC. I luoghi della cura
9. Cities — try to predict superspreading hotspots for COVID-19, Nature, 10 luglio 2020. Si veda anche: Il contagio avviene a grappoli e per superdiffusori, Scienzainrete.
10. Terna, Un modello di simulazione agent-based: applicazioni alla scuola e al mondo del lavoro, Scienzainrete
11. Vineis, Saltelli, Portaluri, Di Fiore, Carra. Per un’etica dei numeri e dei modelli. Scienzainrete
12. Boeri. Salvare il lavoro dei giovani. La Repubblica
13. Vanderweele. Challenges Estimating Total Lives Lost in COVID-19 Decisions. Consideration of Mortality Related to Unemployment, Social Isolation, and Depression. JAMA Network, 8 luglio 2020.

fonte: 

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