La sfida della medicina territoriale (3 e 4). di Maria Grazia Cogliati Dezza

La sfida … 3) Quando nel 2004-2005 abbiamo sperimentato il passaggio dal progetto Habitat, salute e sviluppo della comunità al progetto Microaree, che richiedeva un investimento sanitario più significativo in alcuni microterritori individuati, con la finalità di guadagnare obiettivi di salute ben definiti, si è evidenziato in maniera macroscopica quanto messo già in luce dal lavoro di integrazione tra i diversi servizi distrettuali. Se l’unità di misura, il focus, non è più il servizio competente ma la persona che sta male nella sua casa, è questo insieme:, persona/casa, che diventa l’oggetto dell’attenzione nel lavoro. Ci accorgemmo, così, che spesso in uno stesso condominio dove erano presenti abitanti con problemi sanitari, chiusi ognuno nella propria casa, intervenivano operatori di differenti servizi distrettuali o del Centro di salute mentale La Maddalena o della Unità Operativa 2 del Dipartimento delle Dipendenze (attivi, come il Distretto 2, nello stesso territorio), senza che gli uni sapessero degli altri. Non potevamo non capovolgere la situazione producendo collaborazioni e scambi nel luogo. Nacque l’operatore sentinella o di prossimità, uno tra i diversi che intervenivano nel condominio; oltre a seguire il “proprio” utente, l’operatore di prossimità doveva prestare attenzione agli altri abitanti del condominio attivando, se necessario, l’operatore o il servizio di riferimento.

Se l’insieme diventa la persona, la casa e il condominio e magari il vicinato e il rione, balza agli occhi la ripetitività di elementi che condizionano pesantemente il percorso di salute: isolamento, reddito, lavoro, scolarità, i cosiddetti determinanti non sanitari di salute. Questa ripetitività induce a interrogarsi e a cercare direttamente o indirettamente possibili cambiamenti. Induce anche a inventare e attivare forme di aiuto e di scambio tra persone che hanno bisogni diversi e ciascuno con la sua diversità compensa ciò che manca all’altro.

Ricordo due signore abitanti, ciascuna nella sua casa, nello stesso condominio di Campo San Giacomo, seguite dal servizio anziani del distretto e dal servizio sociale del comune. Una era sorda, l’altra era cieca. Quando arrivavano i pasti del comune e il campanello suonava, la signora sorda non apriva perché non sentiva, la cieca faceva fatica ad arrivare per tempo ad aprire la porta del suo appartamento. Per questi inconvenienti, spesso entrambe saltavano il pasto. Le infermiere decisero di mettere insieme, nello stesso appartamento, durante alcune ore della giornata, le due signore. Quando suonava il campanello per l’arrivo del pasto, la signora cieca avvisava l’altra, sorda, che andava ad aprire la porta. Entrambe hanno iniziato a mangiare tutti i giorni e in compagnia l’una dell’altra. Sembrerà una banale barzelletta. Non lo è. È un esempio, tra i tanti, della necessità e possibilità che gli operatori sanitari hanno di costruire comunità, cambiare l’ assetto sociale e, incidendo sui determinanti, produrre salute.

Da questo sguardo allargato centrato sulla vita delle persone anziane e sulle case di riposo, in specie per autosufficienti, una ventina circa nell’area territoriale del Distretto 2 e “affidate” al distretto, sono nati i progetti una città per vicino e il negozio di vicinato.

L’accento è stato posto sulle condizioni di isolamento e distanza dai luoghi della città. Lo spunto: aver trovato persone seguite dai servizi del distretto che, ospiti da molti anni in casa di riposo, in grado di muoversi autonomamente o con ausilii, non avevano piu visto il mare. È da tener conto che la più parte delle case di riposo a Trieste sono ubicate nel centro città, in vicinanza del mare. Era inconcepibile! Anche per chi, come me, aveva lavorato in manicomio o in carcere con i tossicodipendenti. Colpiva, quasi con maggior violenza, perché riguardava tutti, indiscriminatamente, non solo i matti o i tossici, posto che vecchi, in genere, si diventa tutti! Certo, si potrebbe commentare, l’anziano può essere isolato anche nella propria casa. Giusto! Ma lì è circondato se non dai suoi affetti, almeno dai ricordi della propria vita, dalle proprie cose. E la libertà, almeno come diritto, seppur non esercitato, non è negata! Qui passa la grande differenza!

Così decidemmo di lavorare per rompere l’isolamento organizzando l’uscita dalle case di riposo e la partecipazione ad eventi cittadini, nei luoghi più belli della città: la sfilata di moda al caffè San Marco, dove le modelle erano gli stessi ospiti delle case di riposo, il pranzo sul Delfino Verde nel golfo di Trieste, il caffè in piazza Unità con l’affaccio sul mare, seduti elegantemente nei bar, e molto altro ancora fino all’allestimento di uno spettacolo teatrale di grande impatto emotivo di noi si impadronisce una bella nostalgia, ove gli attori erano sempre gli ospiti delle case di riposo. Così, ancora, reclutammo pubblici esercizi, negozi, bar, cinema del territorio, disponibili a vendere i loro prodotti a costi contenuti agli anziani del progetto. Un incontro vantaggioso per tutti, per i primi per l’utile economico e l’esperienza acquisita, per gli altri per la leggerezza e la libertà assaporata. Eventi di impatto simbolico ed emotivo, seguiti con interesse anche dalla stampa locale.

Ma una città per vicino non voleva soltanto compiere un’azione di giustizia sociale! Voleva evidenziare un vulnus forte, lanciare una provocazione alla città, alle amministrazioni, alla politica. Avrebbe potuto essere raccolta. Se si esclude la Provincia di Trieste, che ha fatto proprio il progetto portandolo avanti con continuità, nient’altro è accaduto.

Si parla da anni, da una giunta regionale all’altra, della riclassificazione delle case di riposo, piano di lavoro che, se applicato, dovrebbe migliorare gli standard assistenziali, riconfermando però un modello gestionale di tipo ospedaliero, senza proporre alternative di nessun tipo. E le alternative sono possibili. Tra le varie, le coabitazioni di pochi anziani in case di civile abitazione, come quelle realizzate dal Distretto 2 e dal Distretto 3, oggi promosse dalla regione nelle linee guida ai piani di zona.

Si potrebbe ancora eccepire che un’azione di provocazione politica come una città per vicino non sta dentro le competenze di un operatore sanitario! Sarebbe un grave errore pensare che la libertà, la rottura di ogni forma di isolamento e di contenzione, non sostanzino alla grande la qualità della salute e la fruizione del diritto.

La sfida 4)

Spesso negli anni, e forse ancora oggi qualcuno lo pensa, l’ospedale ha definito la medicina territoriale come una forma di sotto-medicina e il lavoro del distretto quasi una sorta di assistenza sociale. Noi pensiamo, invece, di fare davvero la medicina di territorio, e intanto cominciamo a pensare alla medicina di comunità.

La cura, medica e assistenziale, indicata da linee guida internazionali, è la stessa in ospedale e nel territorio, per quelle patologie, specie in quelle di lunga durata, che possono essere curate nei due differenti ambienti. Certo dipende dalla gravità della patologia. Ma in ospedale, giustamente, si guarda la malattia; va raggiunto il massimo risultato nel più breve tempo possibile per restituire la persona alla sua vita. Nel territorio, si guarda il malato, e guardare la malattia sarebbe dannoso e poco efficace. Quello che conta a domicilio, calcolando le infinite variabili che circondano e condizionano il decorso della malattia, non è solo la curama è il prendersi cura. Garantire un accompagnamento della malattia che permette al malato di accedere alla cura.

Tra il curante e il curato c’è spesso una distanza abissale, un vuoto inerziale. Nelle case ove entriamo, troviamo spesso pile di farmaci prescritti, acquistati, non consumati; prescrizioni di esami diagnostici mai effettuati; una persona affetta da diabete che assume la terapia prescritta con acqua colma di cucchiai di zucchero; persone con importanti lesioni da decubito che abitano in case dove l’igiene è un lontano ricordo.

E il curante che cura e non si prende cura non sa e non si informa su quanto consegue alle sue indicazioni. Se queste indicazioni discendono dalle linee guida internazionali ha fatto quanto doveva. La responsabilità del rifiuto delle prescrizioni sta nel soggetto che non vuole curarsi. Sappiamo che molto spesso non è cosi. Quando si parla di libertà di scelta ci si deve interrogare su quanto si dedica all’ascolto e alla negoziazione e se questa libertà è suffragata da una sufficiente consapevolezza.

Rendere consapevoli, informare, stimolare stili di vita corretti, negoziare con il soggetto, rispettare le sue modalità, non abbandonare. Prendersi cura, direttamente e indirettamente, del malato, dove necessario, è l’unico modo possibile per fare salute in un territorio. È la medicina che si fa realtà.

Al Distretto 2, per esempio, sono attribuiti 67 Medici di medicina generale (Mmg), i quali però, nel rispetto del principio di garantire il criterio della libera scelta di ogni cittadino, seguono pazienti residenti in tutto il territorio cittadino e di fatto si interfacciano ognuno con i servizi dei 4 distretti. Un’organizzazione questa che definirei superata, non più rispondente allo sviluppo del territorio, alla necessità di collaborazioni continuative e consolidate sempre con gli stessi operatori, di un unico distretto, alla conoscenza approfondita delle particolarità di un microterritorio e dei cittadini che lo abitano. Sarebbe interessante se i Mmg, organizzati in gruppi, adottassero con ogni gruppo un rione o una piccola parte di città. Come il parroco di una parrocchia, dovrebbe esistere il gruppo di medici di medicina generale di quartiere, riferimento per il territorio prescelto. Invece accade che i 400 abitanti della Microarea di Vaticano sono seguiti da 60 Mmg! È difficile, in queste condizioni, per il medico utilizzare a pieno le potenzialità dei servizi distrettuali che potrebbero invece costituire una formidabile cassetta degli attrezzi.

Nel 2005, a partire da questa criticità, e per superare le separatezze presenti tra Mmg, specialisti, medici di distretto, infermieri e servizi distrettuali, abbiamo sperimentato il Gcp, gruppo delle cure primarie. Venti Mmg del Distretto hanno svolto attività ambulatoriale e domiciliare nella sede distrettuale a stretto contatto con infermieri, medici di distretto, specialisti, ecc. Invitati a produrre elenchi di propri pazienti affetti da patologie di lunga durata e distinti per patologia, cosa non troppo facile, si è proceduto ad effettuare valutazioni congiunte coinvolgendo gli operatori di distretto competenti e definendo un programma di azioni di più attori finalizzato a garantire continuità della cura, prevenzione delle criticità, riduzione dei ricoveri impropri, del consumo eccessivo di farmaci. Si è costruito così un micro sistema funzionante, integrato. Si sono consolidati o approfonditi rapporti di collaborazione, si sono scambiate conoscenze e cultura, con guadagno di salute dei cittadini in carico e risultati di efficacia e risparmio per il sistema sanitario. Certo il gruppo era incentivato. Con una spesa maggiore oggi si incentivano programmi meno significativi della medicina generale. La riforma del sistema sanitario, proposta dal ministro Balduzzi (Legge 8 novembre 2012, n. 189), se ha il pregio di aggregare i Mmg, prescinde completamente dall’integrazione di questi con i servizi distrettuali e dal governo distrettuale. Sembra, nella legge, che il Distretto non esista più.

fonte: FSM La terra è blu

Maria Grazia Cogliati Dezza, psichiatra, già responsabile del Distretto 2 e coordinatrice socio sanitaria dell’Azienda sanitaria triestina
Print Friendly, PDF & Email