Politiche sociali e istituzioni del benessere. Che cosa insegna la parabola del social investment. di Angelo Salento

Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 3/2020 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link: https://www.ediesseonline.it/prodotto/rps-n-3-2020/ .

Dalla parabola delle politiche sociali degli ultimi vent’anni si può desumere un insegnamento importante: ai crescenti squilibri delle società occidentali contemporanee non è possibile rimediare senza interventi di regolazione che contrastino «alla fonte» la produzione di disuguaglianze. La continua crescita delle disuguaglianze (sia dei redditi che dei patrimoni), l’inversione dei processi di mobilità sociale, l’aggravamento dei divari mostrano che approcci fondati sulla centralità delle politiche cosiddette «attive», nonostante possano marginalmente arginare le peggiori derive di una competizione basata sulla riduzione dei livelli salariali e della qualità del lavoro, non riescono a incidere nelle dinamiche di produzione delle disuguaglianze e delle povertà, né ad assicurare stabilità alle economie nazionali.

Qui si insisterà in particolare su due questioni, fra loro connesse.

La prima riguarda le dinamiche dell’accumulazione nel capitalismo contemporaneo. I regimi di welfare orientati al sostegno della competitività prendono in conto la pressione competitiva del capitalismo contemporaneo, ma trascurano alcuni suoi connotati strutturali, sostenuti da trasformazioni istituzionali: l’orientamento degli attori economici all’accumulazione finanziaria, la tendenza a interpretare l’azione economica in chiave breveperiodistica, l’esasperata ricerca della massimizzazione del rendimento del capitale, la tendenza a esternalizzarne i costi verso i lavoratori, i consumatori e gli attori più deboli delle catene del valore. Se non si contrastano queste tendenze, il compito delle politiche sociali sarà sempre meno agevole.

Gli approcci orientati al sostegno della competitività assumono che il mercato del lavoro sia uno spazio sempre più impegnativo, nel quale tuttavia è possibile prosperare, a condizione di disporre di sufficienti risorse. Presumono inoltre che la perdita di posti di lavoro a media e bassa qualificazione sia compensata dall’aumento di opportunità occupazionali per il personale più qualificato, e che in questo quadro i lavoratori manifestino una capacità di «convivere» più o meno serenamente con l’instabilità occupazionale, sviluppando spazi esistenziali e relazionali intorno all’inesausta costruzione di opportunità di lavoro. Il declino dei livelli retributivi, tuttavia, è un processo in atto dalla seconda metà degli anni Ottanta, connesso alla progressiva perdita di potere contrattuale dei lavoratori, e la precarizzazione dei rapporti di lavoro è una tendenza che si è radicata, parallelamente, nella cultura politica neoriformista in tutto l’Occidente, parallelamente alle istanze di incremento di redditività espresse dalle imprese. Il capitalismo contemporaneo segue, di preferenza, strategie di accumulazione finanziaria. Non solo aumenta costantemente il volume delle transazioni finanziarie rispetto alle attività produttive, ma le stesse grandi imprese non finanziarie perseguono in maniera sempre più intensa strategie di accumulazione finanziaria: generare utili finanziari, privilegiare investimenti finanziari rispetto a investimenti tecnico-produttivi, e soprattutto orientarsi a una concezione gestionale fondata sul principio di massimizzazione del valore per gli azionisti.

In questo quadro, un innalzamento dei livelli di istruzione e formazione può evitare gli aspetti deteriori della competizione per la sopravvivenza nel capitalismo globale, ma non è adatto a contrastare strutturalmente queste tendenze.

La seconda questione riguarda la concezione del benessere. Le politiche sociali contemporanee tendono ad adottare una visione del benessere fondata sulla disponibilità di lavoro e reddito. In realtà, un guadagno di benessere individuale e collettivo si può ottenere anche rendendo più agevole l’accesso a beni e servizi fondamentali di qualità. È una questione del tutto connessa alla precedente, perché la crescente inaccessibilità di beni e servizi essenziali è legata alla penetrazione di dinamiche di accumulazione estrattive e breveperiodiste nei settori economici che li producono e li distribuiscono. Questa tendenza si riscontra chiaramente nelle attività tradizionalmente operate da attori economici privati; ma si osserva anche nell’ambito di attività privatizzate, benché tuttora controllate dalla mano pubblica. Rientra nel primo tipo il caso dell’edilizia residenziale, settore nel quale è soprattutto l’andamento della rendita dei suoli a generare l’aumento dei costi di acquisto e di locazione. Ma esempi di ristrutturazione orientata alla massimizzazione della redditività si riscontrano anche in grandi imprese di servizio pubblico sottoposte a processi di liberalizzazione/privatizzazione, come le ferrovie. Qualsiasi aumento dei costi di accesso ai beni e ai servizi fondamentali incide in misura proporzionalmente maggiore sui redditi più bassi, operando come una tassazione regressiva, che peraltro sfugge alle metriche della disuguaglianza. E la rarefazione di beni e servizi indispensabili per la vita quotidiana è una delle principali cause della fragilità economico-sociale dei contesti marginali.

È quindi nei settori dell’economia fondamentale (Foundational Economy Collective, 2018) che si dovrebbero primariamente sviluppare una regolazione e un quadro di investimenti in grado di modificare le logiche dell’azione economica e di renderle compatibili con le esigenze di riproduzione sociale (oltre che di sostenibilità ambientale).

In conclusione, difficilmente le politiche sociali possono, di per sé sole, conseguire a lungo termine obiettivi di perequazione, senza un’architettura istituzionale che renda lo spazio economico meno incline alla produzione di disuguaglianze. Progettare e costruire un’architettura siffatta è un obiettivo che potrebbe divenire praticabile, se dall’emergenza sanitaria emergesse una sensibilità rinnovata e ampie alleanze politiche per il benessere condiviso.

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Fonte: RPS La Rivista delle Politiche Sociali free text

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