Non autosufficienza: includere per superare le fragilità. di Rossana Dettori

Tra le ragioni dello sciopero generale del 16 dicembre c’è il mancato varo della legge sulla non autosufficienza. Per Rossana Dettori la sfera dei diritti negati riguarda quasi la totalità di 3,5 milioni di donne e uomini non autosufficienti

Rossana Dettori, segretaria confederale della Cgil, sostiene che la legge di bilancio affermi una sorta di redistribuzione al contrario. Chi è in una condizione di vantaggio la conserva, a chi si trova in una condizione di debolezza non vengono forniti strumenti e messe in campo politiche per la fuoriuscita da quella debolezza. Per questo il 16 dicembre, insieme alla Uil, si sciopera per rivendicare vengano rimessi al centro delle politiche i diritti dei più “bisognosi”: diritti contrattuali, diritti salariali, diritti di cittadinanza e diritti civili. Le abbiamo chiesto di illustrarci perché è così importate l’approvazione della legge sulla non autosufficienza.

Una legge di bilancio che non guarda ai più fragili, che non riduce le diseguaglianze, anzi. Tra i più fragili, tra quelli che anche a causa della pandemia hanno subito di più ci sono i disabili, i non autosufficienti. Da anni i sindacati chiedono una legge quadro sulla non autosufficienza, ma siamo arrivati a fine 2021 e nonostante gli impegni del governo e della maggioranza la legge non si vede.
No, della legge ancora non vi è traccia. Proprio questa è una delle ragioni che hanno spinto Cgil e Uil a convocare lo sciopero generale contro la manovra. C’è una questione che proprio non si riesce a far mettere all’ordine del giorno della politica e dei governi. La riduzione delle diseguaglianze, quelle economiche e quelle sociali che poi inevitabilmente hanno conseguenze sui redditi delle persone. Nel nostro Paese vi sono oltre 3,5 milioni di uomini e donne non autosufficienti, la maggioranza sono anziani ma un 20% di loro sono bimbi e bimbe, giovani e adulti. Sono cittadini a tutti gli effetti, ma con bisogni particolari. Eppure le politiche pubbliche sembra non li consideri. Ma il loro numero è destinato a crescere, visto che l’Italia è uno dei Paesi con l’aspettativa di vita più alta, e questo è positivo, e con il tasso di natalità tra i più bassi del mondo, e questo è negativo. Durante i quasi due anni di pandemia i diritti di questa componente della società sono stati ulteriormente minati, si sono ridotti i già pochi servizi a loro disposizione, le prestazioni sanitarie si sono rarefatte. Una legge quadro per la non autosufficienza è indispensabile per affrontare da un punto di vista multidimensionale la condizione di chi non è in grado di essere autonomo, dai bisogni abitativi, alla presa in carico sociale, fino a quella sanitaria. Consentendo la permanenza nella propria abitazione a chi si trova in questa condizione, non scaricando esclusivamente sulle famiglie l’accudimento. Già quando fu presentato il Pnrr denunciammo che uno dei problemi più rilevanti di quel testo era proprio il rimandare nel tempo l’approvazione della legge sulla non autosufficienza. Non solo ancora c’è un nulla di fatto, ma anche il poco che c’è in legge di bilancio a favore dei disabili è assolutamente insufficiente.

Fondamentale, da questo punto di vista è l’integrazione tra servizio sanitario e servizi sociali. A che punto siamo?

La persona non autosufficiente è, appunto, una persona con bisogni di salute particolari e particolari bisogni sociali. Se non si integrano il servizio sanitario e i servizi sociali le risposte a questi bisogni rimarranno parziali e frammentate: alcuni esigibili, altri, proprio per la condizione di estrema fragilità, nemmeno esigibili. Nelle Missioni 5 e 6 del Piano nazionale di ripresa e resilienza vi è una indicazione a questa integrazione, ma come? In quali forme? In quali tempi? Con quali figure professionali? Con quali risorse per assumerle? Tutto ciò non è dato sapere. E soprattutto al momento non se parla. Ma il tempo è abbondantemente scaduto.

Ovviamente serve definire i Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, unico strumento per garantire stessi diritti a tutti i cittadini e le cittadine a prescindere da in quale regione risiedono. Anche questa una richiesta “antica”. Si hanno notizie?
Su questo fronte qualche notizia positiva è arrivata proprio con la manovra, lì sono stati definiti i Lep. Ma se viene indicato quali sono i livelli essenziali di assistenza però non vengono stanziate le risorse per attuarli, si sta dando per scontato che non vengano attuati. Insomma non solo non è stata presentata una legge quadro, ma quelle poche innovazioni previste non hanno in dotazione i soldi necessari a farle vivere. La sola presa in carico di un disabile prevede un assistente sociale, personale per l’assistenza domiciliare, eccetera. In questo modo si continuerà con l’esigibilità dei diritti a macchia di leopardo, in alcune regioni qualche servizio verrà erogato e alcuni Lep  rispettati, in altre no. Questo peraltro è quanto già accade con i livelli essenziali di assistenza in sanità. È arrivato il momento di percorrere strade diverse. Bisogna cambiare logica, occorre costruire politiche che consentano ai non autosufficienti di rimanere nelle proprie case, politiche di sostegni economici, gli anziani soprattutto (sono l’80% del non autosufficienti) spesso sono soli e con pensioni bassissime. Servono politiche abitative che magari permettano il vivere insieme a soggetti diversi, penso a nonni e nipoti, riconoscendoli come famiglie e favorendo individuazione di abitazioni idonee.

Così come sarebbe indispensabile armonizzare e semplificare le modalità di valutazione della disabilità e della non autosufficienza. Perché non si riesce a fare?
Proprio per affrontare e risolvere anche questo problema è indispensabile una legge. Oggi la valutazione e la certificazione della disabilità e della non autosufficienza avviene in maniera farraginosa e disomogenea tra regioni. In alcuni la commissione medica che valuta il singolo caso è dell’Inps, in altre è delle Asl che poi trasmettono le certificazioni all’Inps. Anche i criteri di valutazione non sono uniformi su tutto il territorio nazionale. Insomma anche questo “caos” è frutto della riforma del Titolo V della Costituzione, che ha scambiato l’autonomia con la confusione, mettendo in primo piano gli interessi delle istituzioni e della burocrazia rispetto ai bisogni e ai diritti dei cittadini e delle cittadine.

Come dei bambini, anche dei disabili si fanno carico le famiglie e soprattutto le donne attraverso lavoro di cura gratuito.
Cura è un termine che ha diversi significati. C’è la cura delle e dalle malattiespetta ai professionisti della sanità. Ma il termine cura, nella accezione in cui la intendo, ha un significato molto più ampio: significa prendersi cura di quella singola persona, dei suoi bisogni, delle sue fragilità, della sua socialità e, perché no, dei suoi desideri e dei suoi affetti. Ecco, anche questa dovrebbe essere un’attività almeno in parte a carico della collettività. Invece è lasciata quasi interamente sulle spalle delle famiglie, cioè al lavoro informale e non retribuito, ma assolutamente indispensabile, delle donne. Sono loro che si prendono cura dei bimbi, dei malati, degli anziani, dei non autosufficienti. Un Paese civile dovrebbe costruire una rete di servizi che si prendano cura di chi è più fragile, da quelli per l’infanzia a quelli per gli anziani passando per le diverse sfumature ed esigenze. E questo non solo darebbe risposte adeguate ai diritti di quelle persone, ma costruirebbe lavoro e libererebbe, almeno in parte, tempo di quelle donne. Tempo per sé e tempo, magari, per il lavoro.

Le persone non autosufficienti sono in prevalenza anziani ma ci sono anche bambini e giovani adulti. Oltre all’assistenza e alla presa incarico per loro cos’altro dovrebbe prevedere la legge quadro?
Questa è una questione molto delicata di cui non vi è traccia nei provvedimenti del governo. Vale soprattutto per i bimbi le bimbe disabili, per i giovani e gli adulti, ma anche per gli anziani. Le persone non autosufficienti, di qualunque età, non sono “scarti”, per utilizzare una locuzione cara a Papa Francesco, ma sono appunto persone titolari di diritti. Non vanno solo accuditi o curati, vanno accolti il più possibile all’interno i diversi ambiti della società, dalla scuola al lavoro, dalle città agli spazi culturali e di intrattenimento. Vanno messe in campo politiche inclusive sia per quanto riguarda il lavoro, fondamentale per chiunque tantopiù per chi è in condizione di fragilità: è strumento non solo per la realizzazione di autonomia economica almeno parziale, ma è strumento di costruzione di identità e di socialità. Politiche inclusive sono anche quelle che consentano la fruizione della città a tutti e tutte, a chi è in carrozzina, a chi non vede, a chi ha disabilità cognitive e mentali. Nella legge di bilancio non c’è nulla di tutto questo.

In legge di bilancio c’è uno stanziamento per implementare un po’ il Fondo per la non autosufficienza. Cosa non convince?
Non ci convince perché è assolutamente insufficiente. E perché, non essendo il Fondo all’interno di una legge quadro anche quelle poche risorse saranno usate in maniera frammentata, disomogenea, e non organica, rischiano così di approfondire il solco delle diseguaglianze invece che ridurlo.

Infine, come definiresti un Paese, l’Italia, che sembra non vedere 3,5 milioni di cittadini e cittadine e non ne garantisce i diritti?
Per definire un Paese, un governo che attua politiche che non mettono in sicurezza la parte più fragile, ma anche quella più povera, che ha più necessità e più bisogni, non trovo altra affermazione che questa: un Paese quasi eversivo rispetto ai diritti. Quasi eversivo perché non è sufficiente, così come è stato fatto nella manovra, definire i Lep senza stanziare le coperture economiche necessarie. È un Paese che ha bisogno di cambiare profondamente la cultura rispetto ai bisogni e ai diritti dei cittadini. È un Paese che deve garantire la piena applicazione della Costituzione che detta di garantire a tutti, al di là del credo religioso, della condizione fisica, del genere e dell’orientamento sessuale, del censo, pari diritti. Purtroppo siamo molto lontani dalla Carta, la manovra non ha affatto al centro – come sarebbe indispensabile – la riduzione delle diseguaglianze e la reale parità di tutti i cittadini e le cittadine rispetto all’esigibilità dei diritti di cittadinanza. Anzi la legge di bilancio sembra affermare una sorta di redistribuzione al contrario. Chi è in una condizione di vantaggio la conserva, a chi si trova in una condizione di debolezza non vengono forniti strumenti e messe in campo politiche per l’uscita da quella debolezza. Per questo il 16 dicembre, insieme alla Uil, scioperiamo per rivendicare vengano rimessi al centro delle politiche i diritti dei più “bisognosi”: diritti contrattuali, diritti salariali, diritti di cittadinanza e diritti civili. E la sfera dei diritti negati riguarda quasi la totalità dei 3,5 milioni di donne e uomini non autosufficienti.

fonte: Collettiva intervista di Roberta Lisi

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