Ecco perché il reddito di cittadinanza serve contro la povertà. di Chiara Saraceno

I dati smentiscono che sia un disincentivo al lavoro: sottrae al ricatto dello sfruttamento. Il dibattito sul Reddito di cittadinanza (Rdc) è caratterizzato, oltre che da un eccessivo grado di politicizzazione, da una diffusa mancanza di conoscenza di come funziona e di che cosa succede veramente ai beneficiari di una misura che non solo è analoga ad altre che esistono da tempo in Europa, ma, come ha da ultimo documentato anche l’Istat, negli anni della pandemia è stata essenziale per evitare la caduta in povertà assoluta di oltre un milione di persone. E che continuerà ad essere essenziale nella situazione di grave incertezza sul piano economico.

Contrariamente a quanto sembra ritenere qualcuno, infatti, la povertà non aumenta perché il Rdc incoraggia a uscire dal mercato del lavoro per vivere nell’ozio, ma perché la situazione economica e del mercato del lavoro, unita a bassi tassi di occupazione femminile, specie tra le madri a bassa istruzione e che vivono nel Mezzogiorno, ha allargato l’area della vulnerabilità.

Il Rdc copre solo una parte, circa la metà, della vasta area di poveri assoluti individuata dall’Istat. Per questo sarebbe opportuno migliorare le regole di accesso. Per compensare i costi di questo allargamento si potrebbe abbassare di un poco l’importo massimo che può prendere attualmente un adulto che vive da solo, 500 euro: comparativamente un importo tra i più generosi in Europa (mentre quello che può prendere una mamma sola con figli minorenni è comparativamente tra i meno generosi). Come è noto, nessuna di queste due proposte, come delle altre del Comitato, è stata presa in considerazione, trovando resistenza anche tra i M5S.

Mentre le diseguaglianze tra poveri create dai requisiti di accesso non scaldano gli animi, tutta l’attenzione e il dibattito politico sono concentrati sul rapporto tra percepimento del Rdc e occupazione.

È opportuno fare un po’ di chiarezza. Il Rdc non si rivolge solo a chi è teoricamente occupabile. Si rivolge a chi si trova in condizioni di povertà così come definite dai requisiti economici. La parte di politica attiva del lavoro, sotto forma di patto per il lavoro, che integra il sostegno economico riguarda solo chi viene valutato come in linea di principio occupabile. Si tratta grosso modo della metà di tutti i percettori. Ma anche tra chi è definito occupabile la situazione non è facile, al netto di uno scarso attivismo del Centri per l’impiego (Cpi) e di una domanda di lavoro (regolare e con una remunerazione decente) spesso carente.

Secondo gli ultimi dati Anpal (riferiti al 30 settembre 2021), tra chi era tenuto al patto per il lavoro, circa 878 mila (meno della metà) era definibile come “vicino al mercato del lavoro”. La stragrande maggioranza – 724.494 – aveva avuto una qualche esperienza lavorativa in costanza di recezione del Rdc. Di questi, 546.598 avevano trovato lavoro dopo aver ottenuto il Rdc, anche se non sempre come esito del patto per il lavoro sottoscritto e della presa in carico da parte di un Centro per l’impiego; 178.000, invece, avevano già un’occupazione al momento dell’entrata nel beneficio, a testimonianza del fatto che non sempre avere un lavoro è sufficiente a uscire dalla povertà.

Ciò in parte era dovuto alle basse qualifiche, in parte alla grande prevalenza di contratti a termine, spesso brevissimi: quasi il 69 per cento non superava i 3 mesi e più di un terzo durava meno di 1 mese. Il Rapporto annuale Inps di quest’anno, confermando questi dati, ha aggiunto ulteriori elementi a smentita della vulgata corrente sui beneficiari nullafacenti che rifiutano occupazioni regolari decentemente pagate. Segnala che nel 40 per cento circa dei nuclei beneficiari che hanno ricevuto il Rdc per almeno 11 mesi vi è almeno un lavoratore “certificato”, con una posizione aperta presso l’Inps. In secondo luogo, lavora oltre il 30 per cento dei beneficiari stabili tra i 18 e 49 anni, a fronte del 18 per cento tra i cinquantenni, sfatando l’idea che la pigrizia alligni particolarmente tra i giovani. Si tratta. per lo più di occupazioni di lavoro dipendente, con contratti spesso a termine e/o a tempo parziale e un imponibile retributivo medio annuo di 6 mila euro.

Avere un salario minimo legale sarebbe certo utile, ma non sufficiente a garantire loro un reddito tale da non aver più bisogno di ricevere il Rdc, se l’occupazione è a tempo parziale e/o precaria. Infine, la percentuale di lavoratori è molto più alta tra gli extracomunitari rispetto agli italiani e tra gli uomini rispetto alle donne.

Questi dati suggeriscono che la fruizione del Rdc di per sé non disincentiva dal tenere, cercare e accettare una occupazione, anche molto temporanea, anche se può consentire di rifiutare condizioni lavorative fortemente sfruttatorie. Ciò non è sorprendente se si considera che l’importo medio di cui beneficia una famiglia (non una persona sola) è di 570 euro al mese circa, certo non competitivo con un salario modesto, ma decente.

In questo contesto, la norma che prevede che venga detratto dal Rdc l’80 per cento del reddito che si ottiene da un’occupazione regolare, e che il 100 per cento venga conteggiato successivamente nel calcolo dell’Isee, costituisce un effettivo scoraggiamento dall’accettare una occupazione regolare che non offra un reddito sufficientemente più elevato del Rdc e per un periodo lungo. Trasformare, per chi è occupato o trova una occupazione, il Rdc in una forma di integrazione “premiale” di un reddito da lavoro insufficiente, riducendo sostanziosamente l’aliquota marginale implicita attualmente in vigore, è una delle proposte del Comitato scientifico.

Dopo averla ignorata, sembrava che il governo ci avesse ripensato e progettasse di consentire ai beneficiari di trattenere una quota maggiore di reddito da lavoro, ma solo a chi viene occupato in lavori stagionali. Come se l’obiettivo fosse quello di aiutare le imprese turistiche e non di incoraggiare chi si dà da fare senza introdurre iniqui criteri categoriali. In ogni caso sembra che anche questo progetto sia sparito dal tavolo. Vi è entrata, invece, un’arma di ricatto regalata ai datori di lavoro, che in base ad una norma introdotta surrettiziamente nel decreto aiuti poi trasformato in legge, potranno denunciare direttamente ai Cpi i beneficiari che non accettano un’offerta di lavoro “congrua”, senza per altro essere obbligati a documentare l’effettiva congruità.

Anche questa norma è figlia della narrazione negativa sui beneficiari del RdC. In realtà non esistono numeri affidabili su chi rifiuterebbe un’occupazione “congrua” per due diversi motivi. Il primo è che gran parte della domanda di lavoro non passa dai centri per l’Impiego che sarebbero responsabili di effettuare i controlli.

Il secondo motivo è che, anche nei rari casi in cui i datori di lavoro si rivolgono ai Cpi, questi possono solo segnalare ai beneficiari le offerte di lavoro. Ma è solo il primo passo di un processo che poi avviene al di fuori della intermediazione dei Cpi e su cui questi non hanno alcun controllo né documentazione. Dare ai datori di lavoro il diritto e la responsabilità di denunciare i beneficiari che rifiutano un’offerta di lavoro mette nelle loro mani un potere di ricatto inaccettabile.

È stupefacente che il Pd sia stato favorevole a questa norma e che i sindacati non abbiano fiatato. Sarebbe invece utile se i Cpi fossero messi nelle condizioni di valutare effettivamente, e rafforzare, l’impegno dei beneficiari (occupabili) nella ricerca di una occupazione e di sostenerne con formazione adeguata l’occupabilità. È ciò che dovrebbe fare il nuovo programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori).

fonte: L’Espresso, 7 agosto 2022 su Ristretti Orizzonti

Chiara Saraceno
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