Il finanziamento all’OMS. La sfida di Tedros. di Nicoletta Dentico

Nel 2017 circa l’80% dei fondi ricevuti dall’OMS erano earmarked, destinati cioè a coprire specifici progetti selezionati dai donatori. Progetti che non sempre collimano con la pianificazione dell’organizzazione, né con le esigenze prioritarie dell’agenda internazionale della salute.  Così, qualcun altro fa il bello e cattivo tempo. La Bill & Melinda Gates Foundation si è affermata come primo finanziatore dell’Oms in termini assoluti nel 2013, e primo donatore volontario nel 2015. L’Oms deve smettere di operare come service provider di molti singoli donatori. La sfida di Tedros sarà convincere gli stati membri a fare il loro mestiere.


Nel luglio 2017, l’ex ministro della salute etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, primo direttore generale africano eletto nella storia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), assumeva la guida dell’agenzia. Con la direzione generale, Tedros ereditava le molte insidie che mettono sotto scacco la salute nel mondo e gli altrettanto molteplici inganni sul governo della salute che minacciano la funzione dell’Oms, i principi che ne hanno ispirato la nascita settanta anni fa.

Tra i nodi gordiani che Tedros deve provare a sciogliere, quello più cogente riguarda la crisi finanziaria dell’organizzazione. Sia chiaro: il budget dell’Oms è sempre stato modesto, con un incremento dai circa 900 milioni di dollari nel 1998 ai 2,2 miliardi di dollari nel 2017 –  ciò che equivale al 30% del bilancio annuale del Centre for Disease Control (CDC) di Atlanta, al 4% del turnover della azienda farmaceutica Pfizer, ovvero al 10% del bilancio che tutta l’industria farmaceutica americana ha destinato nel 2017 in pubblicità[1]!

Il ricatto dei soldi è un vecchio arnese che i maggiori finanziatori hanno usato con efficacia nei 70 anni della agenzia per ricondurne l’azione nell’alveo dei loro interessi. Il colpo di grazia, da cui l’Oms non si è più ripresa, è arrivato però nei primi anni ottanta, quando il gruppo ristretto dei maggiori paesi contribuenti (il cosiddetto “Geneva Group”) reagisce alla percepita politicizzazione di alcune espressioni delle Nazioni Unite, Oms compresa, imponendo la regola della crescita zero dei fondi, inasprita poi nel 1993[2].

Un cronico divario fra programmi e risorse finanziarie

Oggi, lo scarto fra le priorità programmatiche approvate dagli organi di governo dell’Oms e i finanziamenti che l’agenzia riesce a racimolare, dagli Stati membri o da altri donatori, è una criticità strutturale legata a doppio filo al suo meccanismo di finanziamento, precedente alla stretta finanziaria del 2008.  Il fatto è che l’Oms ha perduto il controllo sui propri bilanci.

Come una recente analisi del British Medical Journal  mette in evidenza[3], nel 2017 circa l’80% dei fondi ricevuti dall’OMS erano earmarked, destinati cioè a coprire specifici progetti selezionati dai donatori. Progetti che non sempre collimano con la pianificazione dell’organizzazione, né con le esigenze prioritarie dell’agenda internazionale della salute. L’osservazione, che illustriamo con qualche dettaglio (box 1), ci dice subito una cosa: il processo di riforma dell’Oms, assunto da Margaret Chan nel 2010 con il pretesto della scarsità di fondi, ha evidentemente fallito di fronte alla reticenza politica dei governi di cambiare passo. Ci dice anche che il persistere della patologia finanziaria contribuisce a sbriciolare, anno dopo anno, la legittimità dell’Oms. Che si misura anche dalla sua capacità di intervento. L’inadeguatezza e intempestività dell’azione dell’Oms nella epidemia di Ebola del 2014[4], dovuta anche alla perdita di expertise causata dai tagli al personale, ne hanno invece ammaccato e non poco la reputazione, consegnando l’Oms a una massiccia dose di critiche[5].

Riconquistare terreno è un percorso aspro e in salita.

Figura 1.  I principali finanziatori dell’OMS

Cliccare sull’immagine per ingrandirla

Questa è l’Oms che Tedros ha preso in consegna. Per questo, sin dal suo primo discorso ufficiale, continua a ribadire l’urgenza di flessibilità nell’utilizzo dei fondi, di riallineamento con le priorità sanitarie  e di un vero margine di manovra finanziario, pena un destino di insuccessi.  Alla 71ma Assemblea Generale, a maggio, ha lanciato un accorato appello per la riduzione dei fondi volontari, che mancano di prevedibilità e creano dipendenza. Ciò che rende impossibile gestire una organizzazione. Anche perché alimentano il diabolico meccanismo della competizione interna fra dipartimenti, sempre in affannosa ricerca di soldi e disposti per questo a sgomitare per compiacere i donatori, in barba ad ogni contiguità operativa, e al mandato dell’Oms. Come rilevato nel 2007 da un rapporto della Joint Inspection Unit dell’ONU, l’intento originale insito nelle costituzioni delle agenzie specializzate dell’ONU (come l’Oms) era che i budget approvati derivassero dai contributi degli stati membri, e che i fondi volontari rappresentassero un’eccezione[6].

Box 1. Il finanziamento dell’Oms

  • Il budget dell’Oms è sempre derivato da un mix di contributi obbligatori degli stati membri, sulla base del PIL nazionale, e di contributi volontari sia dei governi che di entità non statali.
  • La proporzione di fondi derivante dai contributi obbligatori non vincolati ha registrato il picco di due terzi negli anni ’60, a seguito di un importante incremento degli apporti finanziari anche dai paesi che avevano appena conquistato l’indipendenza (l’Italia era tra i maggiori finanziatori).
  • Dagli anni ‘80 i principali finanziatori hanno cessato di incrementare i versamenti dovuti; nel biennio 1990-91 i fondi volontari superano per la prima volta quelli obbligatori.
  • Fra gli anni ’80 e ’90, diversi paesi interrompono il regolare pagamento delle quote obbligatorie. Nel 1989 l’Oms riesce a racimolare solo il 70% dei fondi attesi. L’origine di questa crisi deriva dalla riduzione prima, e assenza poi, del finanziamento degli Stati Uniti[7].
  • Dal 2000 le entrate dell’Oms sono raddoppiate sì, ma solo grazie all’aumento dei fondi volontari. Più del 95% dei contributi volontari, nel 2017, è destinato a programmi definiti dall’ente donatore.
  • In Assemblea Generale dell’Oms, gli stati membri concordano un budget a copertura totale delle spese. Il Segretariato però può gestire direttamente solo la porzione di portafoglio che gli deriva dai contributi obbligatori e da quelli volontari non vincolati (il 20% circa).
  • Come documentato in Assemblea 2018, il 10% dei programmi dell’Oms riceve l’80% di tutti i contributi volontari. 14 programmi ricevono meno del 2%.
  • Quasi il 20% dello staff dell’Oms (circa 1300 persone) è finanziato tramite il programma di eradicazione della polio, che riceve fondi quasi esclusivamente da contributi volontari. Ci sono altri 6000 contratti (consulenti e non staff) che dipendono da questa linea di finanziamento. Il capitolo polio avrà quindi un impatto dirompente sulle capacità organizzativa dell’Oms e sul suo budget, soprattutto per le funzioni nei singoli paesi. La eradicazione della polio rischia di lasciare un buco incolmabile, allo stato attuale[8].

La privatizzazione dei contributi volontari

Una risoluzione a favore dell’aumento dei contributi dei governi, votata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite nei primi anni 2000, rimane incomprensibilmente lettera morta a Ginevra. Nel contesto della riforma, Margareth Chan si è battuta con un certo piglio, va detto, contro la resistenza dei governi a ogni richiesta di aumento (del 5% dei contributi), proposta rigettata nella assemblea del 2015.  Nel 2017, a fronte del rilancio di un aumento del 10%,  il negoziato non è andato oltre l’ipotesi del 3%, anch’essa affossata però da una resistenza diffusa. Poca fiducia nel sistema multilaterale dell’aiuto, come scrive l’OCSE?[9]  Può darsi. Fatto sta che l’Oms resta in balia dei contributi volontari, sempre più discrezionali, volatili, frammentati e vincolati. Solo il 7% delle donazioni volontarie per il biennio 2014-2015 sono andate a favore del Core Voluntary Contribution Account [10]. Del budget totale di circa 2,3 miliardi di dollari nel 2015, i contributi obbligatori (assessed contributions) senza vincoli di utilizzo valevano meno di un quarto (463 milioni di dollari), mentre i contributi volontari non earmarked si limitavano alla cifra di 116 milioni di dollari.

Così, qualcun altro fa il bello e cattivo tempo. La Bill & Melinda Gates Foundation (BMGF) si è affermata come primo finanziatore dell’Oms in termini assoluti nel 2013, e primo donatore volontario nel 2015. La sua sfera di influenza è senza pari, poiché passa anche tramite la presenza della BMGF in quasi tutti i partenariati pubblico-privati che finanziano o interagiscono con l’Oms. La famiglia Gates ha la sua visione sulla salute globale, i suoi approcci e le sue priorità, e quelli  finanzia. Uno scenario che in passato ha suscitato qualche preoccupazione tra i vertici dell’Oms[11]. Il programma di eradicazione della polio è di gran lunga il più finanziato: il 23,5% del budget dell’Oms del 2016[12]. La strategia vaccinale prevale indiscussa nella lotta alle malattie su scala globale[13], a discapito dei determinanti sociali e ambientali della salute, o del tema dei sistemi sanitari, che infatti si posizionano nella inferiore dell’elenco dei programmi finanziati. I soldi di tutti i donatori (fondazioni e stati membri) prendono la direzione dei programmi in cui i risultati sono tangibili, e misurabili – la lotta alle malattie infettive – a discapito di aree i cui risultati sono inevitabilmente di medio-lungo periodo, anche se importanti per la salute. Non è difficile argomentare che l’empowerment delle donne, l’accesso all’acqua potabile o a una migliore nutrizione producono impatti sulla salute ben più ragguardevoli di un intervento mirato ad una singola patologia.

Ma questa visione olistica ha ceduto il passo alla ricerca di soluzioni tecnologiche e alla frantumazione operativa della agenzia.  Uno spostamento che incarna tre maggiori tendenze nella architettura di governo della salute globale : “verso un finanziamento più discrezionale, lontano da una prospettiva di lungo periodo; verso una governance multi-stakeholder, lontana dalla rappresentanza istituzionale tradizionale, che poggia sui governi e sui processi negoziali; verso mandati circoscritti e iniziative volte alla soluzione di singoli problemi, lontano da più ampi obiettivi sistemici sviluppati tramite la cooperazione multilaterale”[14].

Figura 2. Entrate dell’OMS 2016-2017, per fonte.

Cliccare sull’immagine per ingrandirla

Una delle recenti storie che illustra bene come le priorità dei donatori abbiano la meglio sulle decisioni degli stati membri dell’Oms riguarda il World Health Emergency Programme (WHE), creato nel 2016 dalla necessità di dare risposte più adeguate alle emergenze sanitarie (dopo la crisi dell’Ebola). L’idea di WHE è rafforzare le capacità nelle aree a rischio, per poter sviluppare una efficace azione di allerta, analisi del rischio e risposta di emergenza verso le popolazioni più esposte. Una strategia che dunque si incrocia con il rafforzamento dei sistemi sanitari. Il finanziamento del WHE –  485 milioni di dollari – proviene dai fondi per il personale sanitario di base, ma risulta ad oggi il programma più trascurato, con un deficit del 56% rispetto alle richieste.  Idem  per il Contingency Fund for Eemergencies (CFE), asset critico per interventi rapidi, con un buco finanziario di 68,5 milioni di dollari (su 100 milioni totali). Intervenendo a una sessione speciale svoltasi in ottobre 2016, Margaret Chan fece notare la flagrante contraddizione:  “mentre si chiede all’organizzazione di fare di più, soprattutto tramite il WHE, i contributi volontari all’Oms non sono aumentati, e quelli obbligatori sono persino diminuiti”[15].

Insomma, dopo anni di dibattiti, tentativi di mobilitazione dei donatori, proposte di finanza più o meno creativa, le cose si sono complicate ulteriormente. Le conseguenze vanno ben oltre i soldi, e rimandano al disegno di una nuova governance globale della salute ridotta a pezzi.  Frammenti più in concorrenza che in cooperazione tra di loro, con una filiera della responsabilità sfilacciata, indebolita, ridotta alla mercé di entità ibride quali sono le partnership pubblico private (PPP) tanto in voga nella agenda dello sviluppo.

Quale nuova strategia potrebbe fare breccia tra i finanziatori?

Si possono immaginare nuovi modi per finanziare l’Oms?

È possibile immaginare la progressiva e negoziata introduzione di misure che restituiscano respiro alla sola agenzia pubblica sulla salute globale?

È pensabile una strategia transitoria che permetta ai governi di uscire progressivamente dalla dipendenza dal settore privato, e dalla volatilità dei fondi volontari (nel loro stesso interesse)?

Le idee non mancano[16], pur nella difficoltà della geopolitica sanitaria contemporanea. L’Oms deve fare il massimo per assicurare:

  • il pagamento completo e tempestivo dei contributi obbligatori dei governi;
  • l’obiettivo di vincolare a specifici programmi solo un massimo del 50% dei contributi volontari – si potrebbe definire un accordo pluriennale per conseguire un equilibrio fra donazioni libere e donazioni earmarked;
  • la definizione di una soglia di contributi non vincolati come condizione per accedere alla possibilità di donazioni earmarked a specifici programmi dell’Oms.

Ci sono molte questioni che incombono. C’è un gran lavoro da fare sui sistemi sanitari se la comunità internazionale ambisce a un minimo di credibilità sul tema della copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage, UHC). Le malattie croniche dominano il dibattito internazionale, ma il piatto piange se guardiamo agli interventi dell’Oms in questo ambito.  Lo stesso vale per la salute mentale o per la resistenza agli antibiotici – quest’ultima cova sotto la cenere come una bomba sanitaria del futuro non lontano.

L’Oms deve smettere di operare come service provider di molti singoli donatori. La sfida di Tedros sarà convincere gli stati membri a fare il loro mestiere. Dovrebbero essergli alleati in questa battaglia.  Spesso, invece, sembrano piuttosto orientati ad agire contro i loro stessi interessi.

Nicoletta Dentico, direttora, Health innovation in Practice (HIP), Ginevra

Bibliografia

  1. PHM, Medact, TWN e altri. Money talks at the World Health Organization. In Global Health Watch 4: An Alternative World Health Report, Zed Books Ltd., London, 2017,  p.246.
  2. Dentico N. La riforma dell’OMS: tutta una questione di soldi. In OMS e Diritto alla Salute: Quale Futuro, a cura di Adriano Cattaneo e Nicoletta Dentico, Rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (OISG), 2013, pp. 181-194.
  3. Clift C, Røttingen JA. New approaches to WHO financing: the key to better health. BMJ 2018; 361:k2218 doi:10.1136/bmj.k2218.
  4. Dentico N, Lopez Acuna D. Il tardo risveglio dell’Oms sul virus Ebola. Il Sole 24 Ore Sanità, 30.01. 2015.
  5. Kamradt-Scott A. WHO’s to blame? The World Health Organization and the 2014 Ebola outbreak in West Africa. Third World Quarterly 2016 (37): 401-418.
  6. Yussuf M, Larrabure JL, Terzi V. Voluntary Contributions in United Nations system organizations: impact on porgramme delivery and resource mobilization strategies. Geneva: Joint Inspection Unit, United Nations, 2007.
  7. Clinton C, Sridhar D. Governing Global Health: Who Runs the World and Why? New York: Oxford University Press,  2017: 90-91.
  8.  Clift C, Røttingen JA. op.cit.
  9. OECD. Making earmarked funding more effective: current practices and a way forward. Parigi: OECD report, 2014.
  10. Organizzazione Mondiale della Sanità. Voluntary Contributions by fund and by  contributor 2015,  2016.
  11. PHM, Medact, TWN e altri, op. cit, pag. 252.
  12. Kelland K. The World Health Organization’s critical challenge:healing itself. Reuter Investigates , 8 febbraio 2016.
  13. PHM, Medact, TWN e altri, op. cit, pp. 298-315.
  14. Clinton C, Sridhar D. Who oays for cooperation in global health? A comparative analysis of WHO. The World Bank, The Global Fund to Fight HIV/AIDS, Tubercolosis and Malaria, and Gavi, the Vaccine Alliance. The Lancet 2017; p.2.
  15. PHM, Medact, TWN and others, op. cit,  p. 257.
  16. PHM, Medact, TWN and others, op. cit,  p. 260.

Fonte: Salute Internazionale

Print Friendly, PDF & Email