Il pendolo del regionalismo: ieri NO, oggi SI! di Marco Geddes

Molti politici, un po’ come l’avvocato Maralli (il cognato di Giamburrasca) che era un  libero pensatore in città e un bigotto in campagna, si adattano ai tempi, diventando oggi autonomisti mentre ieri erano, in occasione del referendum costituzionale, ferventi centralisti in tema di sanità. Ciò che manca è un dibattito serio sulle politiche sanitarie e sul regionalismo, con ipotesi che sappiano coniugare poteri e competenze regionali e un contestuale potenziamento di una governance nazionale.

Abbiamo assistito negli ultimi anni ad una continua critica e a una vera e propria “levata di scudi”, sia da parte di istituzioni scientifiche e  ricerca[1], che di  larga parte del mondo politico, contro una sanità frammentata in 21 sistemi; una specie di vestito di arlecchino del diritto  alla salute dei cittadini. L’origine di tali mali è stata imputata in larga parte alla modifica del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, con la conseguente potestà legislativa concorrente,  limitata alla determinazione dei princìpi fondamentali in materia di tutela della salute. È stata così riservata allo Stato  la potestà legislativa esclusiva in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art.117, secondo comma, lettera n) mentre le Regioni hanno potestà legislativa in materia di tutela della salute e della ricerca scientifica sulla base dei principi fondamentali dettati dallo Stato (art.117, terzo comma).

Il pendolo del regionalismo ha successivamente oscillato in senso contrario, con l’approvazione, da parte della Camera e del Senato della riforma costituzionale che conteneva diffuse riscritture del Titolo V e, per quanto riguarda la sanità, riportava nelle competenze statali il compito di emanare “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare”.  Su tale modifica costituzionale, che non ha trovato attuazione a seguito della vittoria dei No nel referendum del 4 dicembre 2016, il Presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida, si era espresso in modo assai esplicito: “L’attuale testo della Costituzione, nel definire le materie concorrenti, attribuisce alle Regioni la relativa potestà legislativa di dettaglio e riserva alla legge dello Stato la determinazione dei principi fondamentali. La riforma, invece, nel trasferire allo Stato competenze tradizionalmente riservate alle autonomie, gli assegna il compito di fissare “disposizioni generali e comuni” in queste materie. Che significa questa espressione? O è un altro modo di riferirsi ai principi fondamentali […] oppure vuol dire che lo Stato potrà dettare nelle materie indicate qualsiasi tipo di normativa purché essa non sia destinata a un’unica o ad alcune Regioni. Alle Regioni, in sostanza, resta soltanto la competenza di fare ciò che lo Stato decide che esse possono fare. Una competenza integrativa, di fatto meramente attuativa”[2].

Eppure, ricordate, questo della frammentazione del sistema sanitario in ventun sistemi era uno dei cavalli di battaglia – insieme alla “foglia di fico” dell’abolizione del CNEL –  per sostenere le ragioni del SI nel referendum costituzionale. Sembrava infatti che le “disgrazie” per il servizio sanitario nazionale fossero da attribuirsi tutte non a problemi di finanziamento, formazione, indirizzi organizzativi, revisione di accordi e di convenzioni, ma alla regionalizzazione! Ricordate l’appello  del presidente del Consiglio Matteo Renzi: “con il referendum si decide se lasciare tutta la sanità alle Regioni oppure dare stessi diritti a tutti i cittadini” o: “se vincono i SI tutti i malati di cancro avranno gli stessi farmaci indipendentemente dalla Regione in cui vivono”[3]?

Ora il vento è cambiato! Le Regioni  Lombardia e Veneto, a seguito di un referendum consultivo, hanno già sottoscritto con il precedente Governo un accordo preliminare (28 febbraio)[4] volto ad ampliare le competenze regionali in varie materie, intesa che dà il via a un articolato iter legislativo che deve ottenere la maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento. Un processo coerente con le maggioranze che governano tali regioni, meno per la maggioranza governativa precedente, che tale accordo preliminare ha sottoscritto; accordo a cui si è prontamente associata anche la Regione Emilia Romagna! Con la nuova fase legislativa altre sette Regioni (Campania, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte Toscana, Umbria) hanno dato mandato di avviare i negoziati per definire con lo Stato, in base all’articolo 116 della Costituzione, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.[5]

Ovviamente, o almeno come c’era da attendersi, tutte le Regioni, sia le tre in procedura più avanzata che le altre sette che hanno conferito mandato di avviare i negoziati, pongono, fra le materie per le quali viene richiesta una maggiore autonomia, la sanità, ambito già di ampia competenza (nonché di maggiore impegno di bilancio) delle Regioni. Se per alcune maggioranze regionali tale richiesta non è certo inattesa, non può non sorprendere o per lo meno suscitare qualche riflessione la richiesta prontamente avanzata da componenti politiche e presidenze regionali che avevano sposato a piene mani le ragioni del SI al referendum[6].

Mi pare che una parte del mondo politico e istituzionale abbia quindi, su tale questione di indubbio rilievo, cambiato opinione oppure, un po’ come l’avvocato Maralli (il cognato di Giamburrasca) che era un  libero pensatore in città e un bigotto in campagna, si adatta ai tempi senza offrirci tuttavia una riflessione sulle politiche sanitarie e sul regionalismo, con ipotesi che sappiano coniugare poteri e competenze regionali, con la più volte proclamata (e reale) necessità di superare o quanto meno attenuare le profonde differenze di salute e di accesso ai servizi sanitari presenti nelle regioni italiane e, specificamente, fra Centro – Nord e Sud Italia. Nel frattempo il Governo ha calendarizzato (sembra) la data – 22 ottobre – di definizione del testo di legge, con il quale intende trasferire le competenze alla Regione Veneto, quale apripista, come ci ha informati la Ministra agli Affari regionali e alle Autonomie Erika Stefani. Il motivo per il quale si inizia dal Veneto e non si avvii una riflessione complessiva su tale problematica è ovvio: la Ministra in questione è veneta! Peraltro, salvo alcune voci preoccupate o dissenzienti apparse su Quotidiano sanità da parte di Ivan Cavicchi, del presidente della Fnomceo  e della presidente dell’Anci[7], i partiti e i sindacati … latitano.  *(nota della Redazione SOS Sanità a fine articolo)

Le materie del negoziato, in ambito sanitario, sia in base a quanto già preliminarmente concordato con il precedente Governo, sia in riferimento a quanto prospettato dalle diverse delibere dei Consigli regionali, sono ampie e variegate, con molti aspetti in comune, ma anche con alcune differenziazioni fra Regioni. Ci limitiamo quindi a richiamare alcuni elementi esemplificativi delle richieste regionali:

  • Una maggiore autonomia finalizzata a rimuovere specifici vincoli di spesa in materia di personale stabiliti dalla normativa statale.
  • Una maggiore autonomia nella definizione del sistema di governance delle aziende e degli enti del SSN.
  • Una maggiore autonomia nello svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di rimunerazione e di compartecipazione, limitatamente agli assistiti residenti nella regione.
  • Possibilità di stipulare accordi con le Università del rispettivo territorio, volte in particolare alle scuole di specializzazione e all’inserimento degli specializzandi nell’ambito del Ssn.
  • Possibilità di stipulare, per i medici, contratti a tempo determinato di “specializzazione lavoro”.
  • Possibilità di attivare rapporti con l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) al fine di presentare dossier sull’equivalenza terapeutica dei diversi farmaci etc.
  • Alcune Regioni hanno concordato, nell’intesa preliminare, anche specifici punti. Ad esempio la Regione Veneto ha previsto una maggiore autonomia in materia di gestione del personale del SSN, inclusa la regolamentazione dell’attività libero-professionale; la Regione Lombardia una maggiore autonomia legislativa, amministrativa e organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi.

Il processo che si avvia presenta alcuni evidenti pericoli, che è necessario evidenziare. Si rischia infatti di realizzare, in ambito della tutela della salute, una Repubblica della autonomie ampiamente e immotivatamente diversificata in base alle richieste delle singole Regioni e ai conseguenti accordi (affidati anche a mutevoli omogeneità – disomogeneità politiche fra Regioni e Governo), senza una valutazione delle conseguenze positive o negative del regionalismo in sanità, e in particolare attribuendo poteri senza stabilire garanzie per la tenuta unitaria della Repubblica[8].

L’elenco delle richieste regionali sono, in molti casi, ragionevoli, ma non si comprende il motivo per il quale siano da attribuire a una Regione (che l’ha richiesta) e non a tutte le Regioni la possibilità di sottoporre all’AIFA dossier sull’equivalenza terapeutica dei farmaci, o permettere una maggiore autonomia finanziaria in termini di vincoli di spesa in materia di personale, una volta definiti i tetti di spesa[9].

Altre richieste appaiono in realtà eversive rispetto alla tenuta di un sistema sanitario che intenda assicurare uguali diritti a tutti i cittadini. Una differenziata normativa regionale in tema di libera professione  dei sanitari  (modifica del rapporto di esclusività, regolamentazione della Libera professione intramoenia etc.) verrebbe a mutare – di fatto – gli accordi nazionali contrattuali e offrire, nell’ambito del servizio pubblico, sistemi profondamente diversificati da regione a regione.

Ulteriori rilevanti perplessità desta la proposta di una maggiore autonomia regionale legislativa, amministrativa e organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi, venendo così a creare addirittura gabbie contrattuali territoriali differenziate per un già complesso sistema di welfare aziendale.

Ciò che tuttavia stupisce è che, in mancanza di un dibattito pubblico su tali questioni, sia assente la consapevolezza che il potenziamento di forme di autonomia regionale in questo (e forse anche in altri) ambito, necessiti contestualmente di una rafforzamento  delle strategie e della regia a livello nazionale. In altri termini sembra prevalere l’idea che l’autonomia sia un sistema “sottrattivo” di competenze e che non si accompagni invece a una necessità di rafforzare, proprio perché aumenta l’autonomia, le capacità di coordinamento. Peraltro la governance nazionale di un sistema complesso, quale quello sanitario, non è affidato solo a provvedimenti legislativi, ma si può, e deve, avvalersi anche di altri strumenti.

Solo a titolo esemplificativo, quale preliminare – speriamo – elemento di dibattito, a cosa dovrebbe accompagnarsi un processo di maggiore autonomia regionale in sanità?

  1. Ad una riorganizzazione e potenziamento degli strumenti tecnico – scientifici nazionali, con una maggiore sinergia e unitaria “regia” di tre fondamenti istituzioni: AIFA, Istituto superiore di Sanità, Agenzia nazionale dei servizi regionali (Agenas).
  2. Ad una revisione, a livello nazionale, della normativa che definisce i rapporti fra Servizio sanitario nazionale e Università, finalizzata fra l’altro a far decollare, in misura reale ed estensiva la funzione didattico – formativa degli ospedali e delle strutture sanitarie territoriali del Ssn.
  3. Ad un incremento sostanziale e progressivo dei finanziamenti per la ricerca indipendente, sia in ambito farmacologico che nella valutazione di presìdi, procedure e organizzazione sanitaria, coinvolgendo prioritariamente le istituzioni nazionali (AIFA, Agenas, ISS) e gli Istituti nazionali a carattere scientifico (IRRCCS)[10].
  4. All’affidamento della titolarità delle Linee Guida all’Istituto Superiore di Sanità, con la collaborazione di società e istituzioni scientifiche, che operino però all’interno di una attività coordinata e finanziata dall’istituzione pubblica.
  5. Alla revisione dei criteri e della trasparenza delle trattative fra Aifa e industrie farmaceutiche.
  6. Alla attivazione di una istituzione di ricerca e produzione farmaceutica nazionale (utilizzando, ad esempio, l’Istituto farmaceutico militare), finalizzata alla produzione di alcuni presidi farmacologici e potenzialmente alla realizzazione di farmaci in caso di necessità strategiche nazionali, con il ricorso alla licenza obbligatoria prevista dai trattati internazionale.
  7. A ridefinire, in accordo con le Regioni, le motivazioni e le procedure di commissariamento, che non devono essere limitate alla non ottemperanza di obiettivi finanziari; la “pattuizione” non può riguardare solo gli equilibri di bilancio, e i contestuali piani di rientro con la nomina di Commissari ad acta, ma anche – non è questo l’obiettivo primario di un servizio sanitario – obiettivi comuni di funzionamento del servizio nelle singole regioni, da valutare con adeguati indicatori.

Si tratta ovviamente di un elenco meramente esemplificativo, finalizzato a mettere in evidenza che, a fronte di un eventuale rafforzamento della autonomia regionale, devono essere contestualmente ristrutturati e potenziati gli strumenti fondamentali della governance sanitaria a livello nazionale.

Bibliografia

  1. Nino Cartabellotta,Diritto alla salute e riforma del Titolo V. Salute internazionale, 13.05.2015
  2. Valerio Onida, Gaetano Quagliarello. Perché è saggio dire di NO. Rubettino Editore, 2016
  3. Intervento alla televisione Ottobre 2016, ripreso da Ivan Cavicchi, commentato su il Fatto quotidiano 6 Ottobre 2016.
  4. Servizio studi del Senato, Dossier n. 16, Il regionalismo differenziato e gli accordi preliminari con le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto , maggio 2018.
  5. Servizio studi del Senato, Dossier n. 45, Verso un regionalismo differenziato: le Regioni che non hanno sottoscritto accordi preliminari con il Governo,  luglio 2018.
  6. Ad esempio la Regione Piemonte che aveva prospettato precedentemente (Delibera n. 209 del 29 luglio 2008 come materia di trattativa con il Governo la “organizzazione sanitaria”, ora individua quale materia le “politiche sanitarie”  con un cambio di registro terminologico significativo.
  7. Ivan Cavicchi. Sta per compiersi una controriforma istituzionale e la sanità sta a guardare, Quotidiano sanità 19 settembre 2018; Filippo Anelli, Autonomia regionale. Anelli (Fnomceo): Grillo vigili perché il nostro Ssn non sia fatto a pezzi, 20 settembre 2018,; Tiziana Frittelli, La corsa all’autonomia regionale sulla sanità. Parliamone, prima che sia troppo tardi, Quotidiano sanità 23 settembre 2018
  8. Andrea Morrone: Perché… ridisegnare la Repubblica delle Autonomie. In Perché Si. Le ragioni della riforma costituzionale. Editori Laterza, Ottobre 201
  9. Si tratta, in sostanza, di sottrarsi anche alle previsioni di limiti di spesa previsti art.1, commi da 557 a 564 della L. 296/2006 (legge di stabilità 2007), che paralizza la spesa per il personale al 2004 con una contrazione percentuale dell’1,4%, indipendentemente se la Regione rispetta i tetti di spesa.
  10. Cristina Tognaccini, La ricerca indipendente? Un’occasione mancata.AboutPharma and Medical Devices

Fonte: SALUTEINTERNAZIONALE.info

*Nota della Redazione SOS Sanità: “In realtà la CGIL si è espressa più volte:

Riforme: Cgil, nessuna autonomia senza garanzia dei diritti e solidarietà”

Referendum consultivi del 22 ottobre in Lombardia e Veneto: la posizione della Cgil

Anche la UIL Scuola ha espresso una posizione contraria 

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