Chi ascolta le persone sorde ? di Marino Botta

Chi va per monti sa che, arrivati in cima, si guarda il pendio e il percorso  fatto. È forse per questo che mi è facile ritornare al  passato e alla mia fanciullezza. I ricordi mano a mano affiorano e si organizzano, legandosi a emozioni e sentimenti che pensavi da tempo assopiti.

Ecco rivivere i volti dei personaggi “diversi” che vivevano la contrada nel paese di fondovalle. Una galleria di figure caratteristiche che davano sapore al monotono scorrere del tempo; quando non c’era la televisione, il telefonino, il computer;  quando l’unico modo di esistere era osservare e condividere la vita degli altri.

Il “Pin GnocK” con la sua valigia di cartone, il “Cinto” con il suo bastone, il “Trapulin” con le sue risate al vento, il “Nela” con la sua stampella e la gamba di legno, il “Cavalier Perek” con un parcheggio di medaglie sulla logora giacca militare, la “cicciona Gegia”, l’irascibile “Mot” e tanti altri. Personaggi accettati dagli adulti tolleranti e compassionevoli, ma facile bersaglio dei bambini della contrada in cerca di passatempi, in attesa di aiutare i padri nei lavori dei campi.

Uno di questi era il “Mot” (muto). Di lui tutti avevano paura, perché li rincorreva, agitando le braccia ed emettendo versi gutturali impressionanti. Scappavano, e a volte si rifugiavano fra le sottane a pieghe della mamma, che li redarguiva, accompagnando le parole a sonori ceffoni.
Il “Mot”, a differenza degli altri “non a posto”, lavorava nella grande fabbrica vicino alla stazione. L’avevano messo a legare le matasse di filo spinato. Aveva un fisico sano e robusto; era un gran lavoratore. Lavorava in autonomia. Era il posto giusto: non doveva ascoltare né parlare con nessuno. A sera, al suono della sirena, uscito dalla fabbrica, correva a casa per portare alla latteria i pesanti secchi di latte che aveva munto il vecchio padre.

C’era un altro “Mot”. Faceva il contadino, e quando andava nel bosco a tagliare la legna, passava da noi. Si fermava a parlare con mio padre. Seduto li guardavo, e non capivo niente di quello che dicevano; loro si comprendevano. Pochi gesti, stenografavano concetti, sentimenti e narrazioni, a me incomprensibili. Non era la Lingua dei Segni, erano segni di vite condivise; per questo, fra loro, facilmente comprensibili. Del resto la vita del “Mot” era come quella di tutti.

Oggi, spesso, si trovano insieme, frequentano gli stessi luoghi e gli stessi pensieri, che sovente li allontanano dal mondo degli altri; un mondo che non sentono, e che comprendono e condividono con difficoltà. Del resto, in una società dove la velocità è il nuovo credo e la comunicazione rapida è alla base di ogni rapporto professionale e non, nessuno può perdere tempo per farsi capire!

Quando cominciai ad occuparmi professionalmente dei disabili sordi – allora detti anche sordomuti -, notai alcune caratteristiche del carattere che li accomunavano ai personaggi della mia infanzia. Dovevano farcela! Volevano dimostrare di essere capaci di fare quello che facevano gli altri. Sfruttai queste qualità per presentarli alle aziende, e riuscii, in poco tempo, a  collocare tutti gli iscritti in graduatoria. Nessuno disattese le mie aspettative. Ecco il “collocamento mirato”, la persona giusta al posto giusto, ma, soprattutto, presentata all’impresa in modo adeguato.

Ecco perché non comprendo gli insuccessi dei vari servizi, e dei loro  progetti, tanto dispendiosi quanto inutili. Spesso ascolto, non condividendo, le giustificazioni degli esperti, dei funzionari e degli operatori, impegnati nello spiegare quanto sia complesso collocare i disabili nel mondo del lavoro, soprattutto “i sensoriali”.

Ho sempre pensato che i problemi nell’inserire le persone sorde non fossero riconducibili alle loro difficoltà, bensì all’inadeguatezza professionale di chi aveva il compito di presentarli alle aziende. Non conoscono i punti di forza e di debolezza, non sono in grado di fare matching [accompagnamento al lavoro, N.d.R.], non conoscono utili buone prassi, non sanno quali siano gli strumenti di supporto, le agevolazioni e i benefìci per l’azienda.

Secondo le leggi di mercato, non si potrebbe operare peggio: non conoscere adeguatamente “il prodotto” (il lavoratore con disabilità), il potenziale “cliente” (in quale tipologia di azienda inserirlo), e non essere capace di presentarlo adeguatamente, conduce al fallimento qualsiasi attività commerciale. Sarebbe pertanto utile promuovere dei corsi di marketing per gli operatori dell’inserimento lavorativo.

I deludenti risultati conseguiti in due decenni di vigenza della Legge 68/99 [“norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.], hanno spinto, giustamente, alcune Associazioni e molti loro Associati a disaffezionarsi a tale norma, e a rimpiangere la precedente Legge 482 del 1968, che stabiliva l’avviamento obbligatorio, secondo graduatoria. Per i sordi era prevista una  quota di riserva pari al 5% della percentuale complessiva, 15% della quota d’obbligo per le aziende. Molti sostengono che in quei tempi, presto o tardi il posto di  lavoro arrivava! Ora no.

Purtroppo, ancora una volta, per l’incapacità dei servizi si scarica ogni responsabilità sulla Legge 68/99. Forse sarebbe utile formare gli operatori dei servizi pubblici e privati, che si occupano di inserimento lavorativo, e nel contempo invitare le Associazioni ad attrezzarsi, al fine di supplire alle carenze del sistema di collocamento delle persone con disabilità.

C’è tanto da fare, e l’attesa passiva è sempre complice di chi o di ciò che deve arrivare. I buoni maestri e le risorse economiche non mancano. Non aspettiamo che il Ministero, l’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) e le Regioni risolvano i problemi che ci appartengono in prima persona. Sono i portatori di bisogno che devono diventare protagonisti e artefici della risoluzione dei loro problemi.

Marino Botta: già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco (marino.botta@umana.it).

fonte: SUPERANDO

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