Patrizia Meringolo presenta il libro di Mauro Croce “I diari di Phoenix House” (Durango Edizioni, 2025) per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto
Mauro Croce, l’autore del volume “I diari di Phoenix House” (Durango Edizioni, 2025), è un professionista e un teorico di grande spessore. Una persona che sa coniugare la riflessione scientifica con l’attivismo, nel senso più profondo e politico del termine. Mi ha coinvolto perché apparteniamo alla stessa generazione, con gli stessi riferimenti teorici e gli stessi ideali, orgogliosi dei cambiamenti possibili (pensiamo alla 180…) e frustrati per le battaglie politiche senza approdi soddisfacenti.
Croce descrive il suo ‘tirocinio’ a Londra, dove la comunità terapeutica di Phoenix House si proponeva come un trattamento ‘efficace’ per le tossicodipendenze. Siamo all’inizio degli anni ’80, l’eroina cominciava a fare vittime di overdose e di marginalità sociale anche in Italia, dove i servizi sembravano impotenti e scarsamente attrezzati, e i professionisti apparivano accomunati allo stigma dei loro utenti.
Il suo Diario è una vera osservazione partecipante, nella tradizione di ricerca che ha visto studi basilari sui senza fissa dimora, sui pazienti psichiatrici, su outsiders e devianti. Studi che hanno inciso profondamente sull’analisi critica dei fenomeni psicosociali e sulle modalità di intervento.
Croce arriva come tirocinante nella struttura, ma condivide la vita quotidiana degli e delle utenti. Riviviamo con lui i passaggi del processo di guarigione (?) e di affrancamento dalla dipendenza, scandito dal mantra del “si deve cambiare, affrontando i propri fantasmi e soffrendo. Non si può scappare da se stessi, e per riuscirci si deve passare attraverso gli altri”. Non pare una consapevolezza critica, perché “pensare significa fuggire dal cambiamento… chi pensa, chi elabora, chi intellettualizza non va avanti”.
In effetti, le contraddizioni a Phoenix House sono molte: dalle regole immotivate, con presunti effetti terapeutici (lo sostenevano, e sostengono ancora, alcune comunità pseudo-terapeutiche nostrane), alla scalata all’ordine gerarchico dei ruoli offerta agli utenti (che diventano coordinatori dei propri simili), fino, appunto, al pensiero assimilato alla ‘intellettualizzazione’ e non, per esempio, alla riflessione critica e alla crescita personale.
Navigare in questo percorso non è agevole, ci sono battute di arresto, rimproveri incoerenti oppure plausi gratificanti, e ritualizzazioni dello stare insieme che portano a pensare di essere sempre vissuti dentro e “che non esista, che non sia mai esistito un fuori”.
Croce illustra, alla fine, le critiche pesanti che hanno ricevuto le comunità di questo tipo. Non è un caso che anche Franca Ongaro Basaglia abbia criticato – con le istituzioni totali – le comunità terapeutiche anglosassoni, per il loro apparire una “bonifica umanitaria del manicomio” senza dialogo con il mondo circostante.
C’è una riflessione importante che ho tratto dal libro: Phoenix House ha, al di là di tutto, un aspetto “seduttivo, protettivo ed empatico… da ultimo salvagente possibile per continuare a vivere”. Sviluppa un senso del noi, viene amata. Il sentirsi inclusi è così potente che alcuni scelgono di rimanervi come operatori, promossi sul campo senza preparazione professionale e senza inquadramenti giuridici (come avviene ancora oggi in certe strutture). Si può ipotizzare che abbiano sviluppato una dipendenza dalla comunità stessa, o che non saprebbero dove andare, o che siano inclusi ‘dentro’, ma non integrati ‘fuori’.
Però mi domando: com’è che nei nostri interventi non riusciamo sempre a sviluppare un altrettanto forte senso del noi? Certo, nella società civile lo abbiamo perso… O forse non ci poniamo abbastanza l’obiettivo di costruire comunità per tutti, e siamo permeati comunque di una cultura, pur inclusiva e progressista, ma ancora centrata sull’individuo, con poca pratica del noi. E questo è uno stimolo per una riflessione futura.