L’applicazione dell’intelligenza artificiale nella lotta al cancro richiede un approccio scientifico fondato su conoscenze biofisiche profonde, evitando di ripetere gli errori commessi con la chemioterapia negli anni ’70
L’intelligenza artificiale applicata alla lotta contro il cancro rappresenta una nuova frontiera di possibilità, ma il suo potenziale potrà realizzarsi solo se si eviteranno gli errori del passato. Come dimostra la storia della ricerca oncologica, la mancanza di comprensione dei meccanismi cellulari fondamentali ha limitato l’efficacia di molti approcci terapeutici.
La conquista della Luna e la dichiarazione di guerra al cancro
Tutti sanno che l’uomo è arrivato sulla Luna non attraverso una altissima scala poggiata sulla superficie della Terra bensì attraverso quanto la fisica aveva reso disponibile nel tempo, a partire dalla legge di gravitazione universale formulata nel 1687 da Isaac di Newton nell’opera Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. I primi esseri umani poggiarono i loro piedi sulla Luna il 20 luglio 1969, dopo oltre un decennio di ricerche scientifiche e tecnologiche supportate dalla determinazione bene rappresentata dalle parole del Presidente degli Stati Uniti d’America J. F. Kennedy al Congresso il 25 maggio 1961 che merita qui riportare: “Io credo che questa nazione debba impegnarsi per raggiungere entro la fine del decennio l’obiettivo di portare un uomo sulla Luna e riportarlo sulla Terra”.
Dieci anni dopo, nel 1971, il Presidente degli Stati Uniti d’America Richard Nixon, firmando il National Cancer Act, dichiarò guerra al cancro, ipotizzando che potesse essere vinto nel giro di una ventina d’anni. Purtroppo, tutti sappiamo che ciò non è accaduto.
Cosa ha ostacolato la lotta al cancro negli anni ’70
Certo, oggi i tumori uccidono meno che in passato, molti possono quasi diventare una malattia cronica e alcuni addirittura guarire. In questi 54 anni, molte cose sono cambiate e le nuove scoperte scientifiche, combinate con le innovazioni tecnologiche, spingono quanto meno a un cauto ottimismo.
La lettura del genoma umano e di quello dei tumori ha verificato che il cancro è una malattia del DNA. Ma il problema del cancro non è ancora scientificamente risolto alla radice (ammesso e non concesso che sia correttamente formulato), così come invece è accaduto e continua a succedere per il tema delle esplorazioni spaziali. Perché? Per rispondere a questa domanda, è interessante richiamare cosa accadde proprio negli anni ’70, nelle più importanti istituzioni di ricerca medico-biologica e nelle istituzioni cliniche negli USA e, progressivamente, in tutto il mondo. In quegli anni, si ebbe una vera e propria esplosione della produzione di farmaci per combattere il cancro che divenne un movimento industriale multi-miliardario.
Tutta la speranza era concentrata sull’avvento dell’innovazione costituita dalla chemioterapia antineoplastica. Questa tecnologia farmaceutica ebbe in realtà inizio negli anni ’40, con il primo utilizzo di mostarde azotate e di farmaci antagonisti dell’acido folico, ma la chemioterapia antineoplastica divenne terapia di importanza crescente a fronte dell’aumentare delle malattie neoplastiche proprio negli anni ‘70.
Limiti scientifici della chemioterapia
L’idea sottostante la chemioterapia era quella di bloccare la proliferazione incontrollata delle cellule trasformate (senza sapere come ciò potesse avvenire) uccidendole andando a colpire proprio la struttura del DNA: purtroppo però secondo un meccanismo non selettivo, risultando così nella soppressione anche delle cellule sane. Tutto ciò, come ben noto, con pesanti effetti collaterali sulla qualità di vita della persona colpita dal male.
Eppure, le parole del Presidente Nixon, così categoriche, diedero luogo dal 1971 a una vera e propria corsa alla sintesi di agenti chemioterapici ad azione neoplastica, nella speranza di trovare quelli più efficaci e meno dannosi per effetti collaterali.
Questa corsa dissennata, per certi versi giustificata da un problema vero e drammatico, dal punto di vista scientifico era debole, perché i diversi protocolli clinici, per diverse coorti di malati, venivano applicati come i molteplici mix possibili di sostanze chemioterapiche e loro dosaggi in assenza di un razionale biologico, costruendo così una statistica ex-post degli effetti in termini di sopravvivenza o, come meglio oggi si usa definire, del tempo libero da progressione di malattia (tipicamente a 5 anni dalla prima insorgenza del male).
La differenza tra sperimentazione cieca e metodo scientifico
In buona sostanza, si applicava una sorta di principio della forza bruta, che confligge con il paradigma della scienza, il quale richiede prima una qualche comprensione del fenomeno fisico-biologico e solo dopo la progettazione e lo sviluppo di una strategia per combattere suoi eventuali mal-funzionamenti. Ancora oggi, non è noto in modo completo perché e come una cellula normale umana si divida, ovvero il fenomeno della proliferazione cellulare, e tutte le cause di deviazione dal percorso naturale, certamente parte di origine genetica e parte di origine epigenetica. E’ ovvio che si debba cercare di curare tali deviazioni, ma la situazione è assai complessa e ancora misteriosa, ove confrontata con quanto accaduto per inviare sulla Luna un essere umano e farlo tornare vivo e sano sulla Terra.
Ci fu, peraltro, a partire proprio dagli anni ’70, un triste effetto di numerosi attori industriali sviluppatori di chemioterapici e di tanti oncologi di tutto il mondo (alcuni pure in buona fede) di sfruttare a fini economici tale situazione. Coloro che osavano porre la questione scientifica di cui sopra venivano accusati quantomeno di poca attenzione verso le sofferenze dei malati.
L’importanza della comprensione dei meccanismi cellulari fondamentali
Eppure, per fare un esempio semplice, basta pensare se a uno di noi capiti un guasto al freno del proprio veicolo. Egli va dal meccanico il quale, conoscendo esattamente come funzioni il sistema frenante normale di quel veicolo, sa come aggiustarlo. Ma potrebbe fare la stessa cosa se non conoscesse la meccanica di quel sistema frenante normale? Certamente no, potrebbe tentare di metterci una pezza, ma nessuno oserebbe circolare più con quel veicolo.
Ecco, la stessa situazione è per una cellula che non funzioni più. Posso permettermi di ripararla se non conosco – e non lo conosco – il suo funzionamento normale? La risposta è certamente negativa. Questo non significa certo che non ci si debba prendere cura di quel malato, ma molto andrebbe fatto nel senso di spingere in termini di idee innovative (e non solo di risorse economiche, pur molto necessarie) e di ricerca scientifica intensa sugli aspetti fondamentali della vita, della proliferazione e del ciclo delle nostre cellule, sulla loro differenziazione, sul loro invecchiamento, sulla loro morte (apoptosi), sulle loro eventuali trasformazioni di qualsivoglia natura.
Cancer moonshot: la nuova speranza americana
Fino a giungere a qualcosa che assomigli almeno allo spirito dei Principia di Newton. Siamo lontani da ciò, eppure gli Stati Uniti d’America ci riprovano attorno al 2016 e lanciano la Cancer Moonshot Initiative. Un’impresa paragonabile, per l’impegno, allo sbarco sulla Luna, ma che questa volta ha come obiettivo la sconfitta del cancro. È il vice-presidente degli Stati Uniti, Joe Biden a parlarne a Chicago, alla platea delle centinaia di oncologi da tutto il mondo che partecipano all’Asco, l’annuale congresso americano di oncologia medica.
È lui che Barak Obama nominò Comandante della missione. «Dobbiamo far sì che gli Stati Uniti d’America siano il Paese capace di trovare una cura per il cancro, una volta per tutte» aveva detto il presidente Barack Obama durante un suo discorso sullo stato dell’Unione. Joe Biden era già al lavoro, motivato dalla perdita del figlio Beau per un tumore cerebrale, dopo aver rinunciato a correre per le elezioni presidenziali. «La scienza ha oggi gli strumenti per vincere la sfida – disse Biden a Chicago – Possiamo progredire molto rapidamente se troviamo una maggior collaborazione fra ricercatori, industrie farmaceutiche e biotecnologiche e istituzioni e promuoviamo un maggior scambio di informazioni. Occorre rendere pubbliche certe ricerche, invitare le industrie a collaborare fra loro nello sviluppo di nuovi farmaci, abbattere le barriere fra le diverse discipline accademiche».
Le nuove immunoterapie che attivano il sistema immunitario sono fra le più potenti mai entrate in clinica e permettono, oggi, di affrontare tumori prima intrattabili. La bioinformatica, capace di analizzare un’enorme mole di dati, può offrire nuovi modelli per predire la progressione dei tumori e la risposta alle terapie. Ma ci sono ostacoli che vanno superati. Ribadisce Biden a Chicago: «Credo che occorra un grande impegno nazionale per mettere fine al cancro come lo conosciamo oggi. Dobbiamo stimolare la ricerca, promuovere la prevenzione e la diagnosi precoce e soprattutto, migliorare l’accesso alle cure per i pazienti».
Intelligenza artificiale e cancro: opportunità e rischi
Quanto fin qui rappresentato, riportato al nostro tempo, fa scattare nel pensiero il confronto fra quanto avvenuto negli anni ’70 con la chemioterapia antineoplastica (peraltro tuttora praticata, nessuno intende sminuirne il ruolo che essa possa giocare, purché se ne comprendano bene i limiti intrinseci) con le speranze che possono essere indotte in questo campo dalle tecnologie dell’Intelligenza Artificiale (IA).
E mai come in questo dominio i rischi di indurre speranze presto deluse possono essere molto alti. Infatti, certamente le tecnologie IA possono essere di enorme aiuto per la progettazione e lo sviluppo di nuove molecole riducendo in modo drastico i tempi e i corrispondenti costi per nuovi farmaci utili per combattere la battaglia contro il cancro, a patto però di tenere in conto in modo appropriato e potente negli algoritmi che le animano conoscenze biofisico-chimiche profonde frutto di ragionamenti e scoperte della ricerca scientifica del settore, evitando l’approccio del metodo della forza bruta che non può ontologicamente portare al risultato atteso. E’ evidente che, alla luce della strada già fin qui percorsa (e il caso, fallimentare, della tecnologia dei Sistemi Esperti in oncologia di inizio anni ’90 deve essere di monito), questa è materia da rendere ben chiara a quei ricercatori specialisti di tecnologie IA che intendano rivolgere la loro attività e il loro prezioso sapere al servizio per il miglioramento della cura della malattia neoplastica.
Francesco Beltrame Quattrocchi
Ordinario di Bioingegneria Università degli Studi di Genova; Presidente di ENR – Ente Nazionale di Ricerca e promozione per la standardizzazione