Per un ripensamento radicale dei servizi rivolti alle persone con disabilità. di Donata Scannavini

Un tema che sta emergendo con forza nel dibattito interno al mondo della disabilità e delle politiche, della progettazione e degli interventi dedicati alle persone con disabilità è quello di un ripensamento radicale dei servizi, della mission e dell’organizzazione di essi, oltreché del rapporto che hanno con tutti gli altri soggetti che ruotano intorno alle persona con disabilità.
Prima però di parlare dei servizi, è opportuno riflettere sul cambiamento del modo di considerare la persona con disabilità, in se stessa e in rapporto con la società.

Se come dice il dottor Carlo Lepri, psicologo e pioniere dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità intellettiva, fino agli Anni Cinquanta del secolo scorso vi era un approccio medico per cui la persona con disabilità era considerata un “malato da curare”, mentre successivamente l’attenzione si è concentrata sulla famiglia, àmbito in cui il soggetto veniva accudito, oggi il focus è incentrato sulla stessa persona con disabilità, come protagonista attiva della propria vita.
Già altrove, su queste stesse pagine, abbiamo parlato del progetto di vita che va costruito con la persona, dove nulla è prestabilito, ma c’è un continuo lavoro in progress, dove tutti gli attori coinvolti operano in sinergia per realizzare gli obiettivi che in primis la persona con disabilità si pone.
Date queste premesse, risulta difficile continuare a pensare ai servizi come qualcosa di rigidamente strutturato, con precise modalità di funzionamento alle quali non si può derogare, con protocolli e standard da rispettare. E oltre: i servizi, infatti, non possono più essere delle monadi che non hanno alcun rapporto con il territorio, con le Istituzioni, se non quello stabilito dalle leggi, che dialogano con le famiglie solo per ciò che è strettamente necessario, senza un orizzonte, una progettualità comune.
Troppo spesso i servizi hanno guardato solo al proprio àmbito di intervento: quelli sanitari alla sfera medico-riabilitativa, quelli socio-educativi agli aspetti occupazionali, i servizi sociali a quelli burocratico-economici, come se la persona fosse un collage di tutti questi pezzettini che poi si spera possano magicamente andare al loro posto e consentire alla persona di condurre una vita più o meno soddisfacente.
Questo modus operandi non solo non permetteva alla persona con disabilità di raggiungere risultati migliori per sé, ma precludeva ai servizi stessi la possibilità di scoprire le risorse che, ad esempio, il territorio può offrire, le occasioni di collaborazione che si possono creare, i progetti che si possono realizzare insieme.

Il mondo dei servizi per le persone con disabilità sta cercando di aprirsi all’esterno, per cogliere quelle opportunità che ci si è resi conto esistere sul territorio, ma che hanno bisogno di essere attivate attraverso il confronto con i vari attori. Pensiamo in questo senso a tutto il mondo del volontariato, del Terzo Settore, non meno che al profit, a imprese, negozi, nei quali le persone con disabilità possono svolgere percorsi occupazionali, che in qualche caso portano a inserimenti lavorativi veri e propri, mentre in altri la persona può comunque sperimentare le proprie capacità e soprattutto avviare relazioni positive col mondo esterno.
Questo è, a mio parere, un punto che merita qualche riflessione in più. Creare occasioni di occupazione per le persone con disabilità non vuol e non deve voler dire trovare dei modi nuovi per far passare il tempo a persone che vengono considerate come “eterni bambini”, qualunque sia la loro età anagrafica, significa invece riconoscere che anche una persona con disabilità può fare qualcosa per gli altri, può avere un proprio ruolo sociale; e non è nemmeno il caso di scomodare psicologi e sociologi per capire quanto sia importante per un individuo avere un proprio ruolo, piccolo o grande che sia, vedersi riconosciuta una funzione, una posizione all’interno di un contesto sociale.
Mi piace riportare a questo proposito una suggestione suggerita ancora una volta da Carlo Lepri, che riassumerei così: ciò che conferisce dignità a una persona non è l’essere insostituibile, ma il dover essere sostituita quando manca. Cosa vuol dire? Vuol dire che ciò che dà dignità a una persona non è l’essere insostituibile, nessuno lo è (morto un papa…), ma fare qualcosa che, se non lo fa, deve fare qualcun altro; in parole povere, fare qualcosa di utile.

Tornando ai servizi, possiamo dire che oggi, in modo particolare quelli diurni, stanno sempre più diventando servizi in uscita, che dialogano con il territorio, che cercano di co-progettare, di lavorare in sinergia con le realtà locali. Esperienze come quelle di persone frequentanti i centri diurni che si prendono cura delle aree verdi della propria zona, consegnano la spesa agli anziani o si occupano del book crossing [distribuzione gratuita di libri, N.d.R.] testimoniano la possibilità di una reale integrazione delle persone con disabilità nel tessuto sociale in cui vivono e fanno scoprire il valore di ogni persona come membro attivo della società.

Servizi che dialogano fra loro vuol dire anche la possibilità del cosiddetto “diurnato diffuso”, esperienza che sta sorgendo in diversi territori, per cui la persona con disabilità può scegliere di frequentare più centri in base ai propri interessi e alle attività che i singoli servizi offrono.
A titolo esemplificativo: la persona non è più obbligata ad andare dal lunedì al venerdì nel suo centro diurno, ma, se un altro centro diurno il martedì organizza un corso di cucina cui è interessata, potrà scegliere per quel giorno alla settimana di recarsi in quella struttura e non nella propria.

Ripensare i servizi vuol dire anche e forse soprattutto ripensare alla figura degli operatori, al loro ruolo dentro il servizio, ma anche al loro modo di porsi verso il mondo esterno, siano le famiglie, le istituzioni o le altre realtà del territorio. A loro è richiesto lo sforzo di trovare un nuovo modo di lavorare, di uscire da prassi consolidate e per certi versi rassicuranti, di osare immaginare percorsi nuovi e inediti, tutti da inventare e sperimentare e, proprio per questo, non esenti da rischi.
Tutto questo esige un investimento personale che va evidentemente oltre quello richiesto dal “contratto”, dalle abituali mansioni lavorative; un investimento che può essere di tempo, ma anche e soprattutto di energie personali, di inventiva, di voglia di mettersi in gioco in prima persona, di rischiare. Inoltre, se come si è detto, parliamo di servizi in uscita, di co-progettazione, di rapporti stretti con il territorio e le Istituzioni, l’operatore è chiamato sempre più a diventare una sorta di “tessitore di reti”, colui che, immaginando progetti nei quali vengono coinvolti più attori, riesce a far convergere le parti interessate verso un obbiettivo comune, colui che detiene la regia del progetto stesso, evitando che le energie si disperdano in mille rivoli poco proficui.
La conseguenza logica è che l’operatore va a sua volta supportato e motivato: se infatti lo sforzo, l’impegno richiesto è notevole, anche in termini emotivi e motivazionali, egli non può essere lasciato solo; vanno pensati momenti ad hoc, percorsi di sostegno con occasioni di scambio e confronto. In questo senso è fondamentale il lavoro in équipe, dove i diversi saperi e le differenti professionalità, anche esterne al servizio stesso, vanno integrati in un orizzonte di senso comune.

Non potremmo naturalmente concludere il discorso sul cambiamento del modo di considerare le persone con disabilità e i servizi a loro dedicati senza sottolineare il ruolo centrale delle Istituzioni, in particolare quelle locali, più vicine al territorio. Esse, infatti, non possono più limitarsi ad essere erogatrici di risorse, a fronte della presentazione di progetti o della partecipazione a bandi, ma devono entrare attivamente nelle reti che si costruiscono, assumersi la titolarità dei progetti e soprattutto dialogare con i soggetti del territorio.
Troppo spesso i rapporti tra Servizi e Istituzioni sono stati dettati dalla burocrazia, dalla ricerca di risorse da un lato e dal corrispondente sforzo di risparmio dall’altro; mettere al centro la persona con disabilità vuol dire ed esige un capovolgimento totale di queste dinamiche, per cui ciò che conta è il benessere del soggetto, il trovare le soluzioni più consone al suo progetto di vita e non i rapporti di forza e potere.

fonte: SUPERANDO

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