L’impatto delle politiche familiari sulla bassa fecondità europea. di Corrado Bonifazi, Angela Paparusso

Da più di un ventennio, i paesi europei sono caratterizzati da una fecondità stabilmente al di sotto del livello di sostituzione, anche se con delle distanze dai 2,1 figli per donna più o meno ampie e con ricadute sul piano demografico di diversa intensità.

La conseguenza è stata una crescente importanza degli interventi in tema di politiche familiari allo scopo di aumentare il numero delle nascite. Nel 2001 solo un terzo dei paesi europei dichiarava di avere politiche in questa direzione, nel 2009 erano diventati la metà e nel 2016, secondo l’ultima rilevazione delle Nazioni Unite, la percentuale è arrivata al 66%.

La letteratura internazionale ritiene che le politiche familiari dovrebbero avere un impatto positivo sulla fecondità in tre modi: 1) riducendo il costo diretto e indiretto legato ai bambini (il costo opportunità), attraverso sussidi per la cura dell’infanzia, l’istruzione e la salute, nonché attraverso prestazioni in denaro durante il congedo di maternità o il congedo parentale dei genitori; 2) aumentando il reddito delle famiglie, attraverso trasferimenti diretti in denaro, come assegni familiari o assegni per i figli, nonché attraverso trasferimenti indiretti, tramite il sistema fiscale; 3) più in generale, modificando le preferenze per i bambini.

Tuttavia, la valutazione degli effetti delle politiche familiari incontra diverse difficoltà di ordine pratico e metodologico. In primo luogo, sconta la complessità del processo riproduttivo che è il risultato di diverse determinanti di ordine culturale, economico, sociale e politico, che interagiscono tra di loro rendendone la modellizzazione un compito estremamente difficile e su cui la ricerca scientifica è ancora lontana dall’aver trovato risposte definitive e pienamente soddisfacenti.

Inoltre, la valutazione delle politiche è inevitabilmente influenzata dai dati e dagli indicatori di fecondità utilizzati, dalle variabili di policy e dai gruppi di popolazione presi in esame; più che la relazione di causa-effetto tra politiche e comportamenti di fecondità, talvolta si coglie la propensione degli individui verso certi comportamenti di fecondità; manca, infine, la possibilità di avvalersi di prove controfattuali, dato che non si può valutare cosa sarebbe successo se la politica non fosse stata implementata o se fosse stata formulata in maniera diversa.

In definitiva, valutare gli effetti delle misure politiche, isolandoli dalle altre determinanti della fecondità, è tutt’altro che semplice, tenendo soprattutto conto che, nei casi concreti, è spesso l’insieme delle politiche a influenzare le scelte degli individui e delle coppie. Sulla base di queste considerazioni, l’articolo intende fornire una panoramica degli studi disponibili sulla valutazione degli effetti delle politiche familiari sulla fecondità in Europa, offrendo un breve focus sull’Italia. Dopo un inquadramento complessivo della fecondità in Europa, vengono illustrati gli studi disponibili sulla materia, i quali prendono in esame sia i trasferimenti in denaro sia le politiche legate al lavoro (ad esempio, i congedi parentali e l’assistenza all’infanzia). In entrambi i casi, gli studi esaminati sono classificati in base all’utilizzo di dati macro (a livello aggregato) o micro (a livello individuale).

Vista l’importanza dell’argomento, è presente anche una sezione sull’impatto sulla fecondità dell’equità di genere all’interno della famiglia. L’analisi della letteratura sull’effetto delle politiche familiari sulla fecondità permette di individuare delle best-practices nelle esperienze di alcuni paesi europei, come la Francia e i paesi scandinavi. I risultati degli studi esaminati sono molto eterogenei, anche per l’utilizzo di dati, indicatori e modelli diversi.

Generalmente, i dati macro individuando una relazione positiva tra politiche per la famiglia e fecondità, mentre i dati micro rivelano dinamiche più complesse. In particolare, l’effetto delle politiche non è sempre positivo: spesso è assai contenuto, difficilmente isolabile da altri fattori socio-demografici e contestuali e osservabile più sulla cadenza che sull’intensità delle nascite. Quest’ultimo aspetto significa che le politiche, più che modificare le intenzioni e i comportamenti di fecondità delle coppie, potrebbero accelerare meccanismi di fecondità già presenti.

È importante, infine, sottolineare la differenza tra trasferimenti monetari ed erogazione di servizi per l’assistenza all’infanzia: questi ultimi sono in grado di influenzare in maniera più significativa i comportamenti di fecondità delle coppie, ma soprattutto di creare quelle condizioni indispensabili a un cambiamento sociale e culturale permanente, che è necessario se si vuole incidere effettivamente sui livelli di fecondità.

Per quanto riguarda l’Italia, nonostante i notevoli passi avanti, c’è ancora bisogno di cambiamenti strutturali che aiutino a migliorare il ruolo della donna nel mercato del lavoro, nella famiglia e nella società. Lo sviluppo di servizi pubblici per l’assistenza alla prima infanzia, il rafforzamento delle garanzie di stabilità e di continuità anche per le forme di lavoro part-time e la diffusione di una più solida cultura di parità di genere possono contribuire ad aiutare le donne a conciliare il desiderio di maternità e l’aspirazione a realizzare i propri obiettivi professionali.

Corrado Bonifazi, demografo, è dirigente di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche presso l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali.

Angela Paparusso è ricercatrice in demografia presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi Roma Tre.

Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 4 2019 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al Link RPS

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