Recovery Fund, un buon accordo ma non è oro tutto quel che luccica. di Massimo Bordignon

Quello raggiunto a Bruxelles dopo mesi di trattative è senz’altro un buon accordo, per l’Italia e per l’Europa. Ma sullo sfondo resta ancora aperta la madre delle questioni: se evolvere verso un’unione politica o rimanere un’organizzazione di stati sovrani.

Il Recovery Fund (o Next Generation Eu) è stato alla fine approvato dal Consiglio assieme al bilancio europeo (le Multiannual Financial Forecasts) dal Consiglio. Si tratta in effetti di un buon compromesso. Per l’Italia, se riuscirà a non buttare dalla finestra anche questa straordinaria occasione per ritornare a crescere. Ma anche per l’Unione Europea, che di fronte alla più feroce crisi economica della sua storia è riuscita alla fine, dopo mesi di scontri duri tra i paesi, a produrre una risposta concreta. Diciamo però la verità: non se ne può più di questi vertici intergovernativi a 27 che durano quattro giorni, sotto la luce incessante dei media, con ogni leader nazionale che fa la voce grossa in pubblico per impressionare la propria opinione pubblica mentre tratta in privato con gli altri.

Il compromesso europeo

Certo, era una decisione difficile. Non solo per i contenuti innovativi, ma anche perché si trattava di decidere sul bilancio europeo (il Recovery Fund è parte di questo) e le decisioni sul bilancio si prendono all’unanimità: il piccolo Lussemburgo vale quanto la possente Germania. Ogni paese ha dunque cercato di sfruttare al massimo la rendita di posizione offertagli dall’occasione e anche il ricchissimo Lussemburgo ha avuto il suo sconticino. Le posizioni estreme assunte alla vigilia dai vari leader nazionali servivano appunto a prefigurare una posizione contrattuale e il compromesso finale è stato costruito sapientemente dal presidente del Consiglio europeo Michel, in modo da consentire a ogni leader nazionale di tornare a casa dicendo di aver vinto. Ma per raggiungere questo obiettivo, il documento finale è in realtà peggiorativo della proposta iniziale della Commissione, sia sul Recovery sia sul bilancio europeo. Gli elementi più innovativi proposti da Ursula Von Der Leyen per il bilancio europeo 2021-27 (ambiente, innovazione digitale, etc.) sono stati ridimensionati a favore della politiche più tradizionali; i vari “rebates” sui contributi nazionali al bilancio europeo (un vero insulto alla ragione) sono stati mantenuti e perfino rafforzati; non si parla più di legare i trasferimenti europei al rispetto dello stato di diritto; il fondo per la ricapitalizzazione delle imprese è scomparso dal Ng-Eu. E il Parlamento europeo, che pure aveva espresso ben altre posizioni, dovrà per forza far buon viso a cattivo gioco, approvando le proposte del Consiglio, per evitare l’accusa di voler compromettere un accordo storico.

Nuove risorse e nuove regole per l’Unione

Si dirà: queste sono le regole del gioco, bellezza, ovvio che finisca così. Bisogna però domandarsi se non è il caso invece di cominciare a pensare di cambiarle, queste regole. Per capire come, immaginate una situazione in cui l’Unione Europea ha un suo bilancio, anche solo della dimensione attuale, cioè circa l’1 per cento del Pil, ma finanziato con vere risorse proprie e in cui le decisioni sul bilancio vengono prese come già succede per tutte le altre iniziative legislative europee. Sulla base cioè di una proposta della Commissione, che deve però essere approvata sia dal Parlamento (che rappresenta i cittadini) sia dal Consiglio (che rappresenta i paesi membri). Si noti che tutte queste istituzioni sono sovranazionali, composte da rappresentanti eletti e dunque perfettamente legittimate sul piano democratico. Ma non c’è più l’unanimità: il Parlamento decide a maggioranza semplice, il Consiglio a maggioranza qualificata. È facile immaginare che con queste regole il bilancio europeo e il Recovery Fund sarebbero stati approvati prima e meglio, senza i drammi eccessivi che hanno accompagnato questa partita.

A ben vedere, il conflitto sottinteso a tutto il dibattito sul Recovery Fund è stato proprio questo: tra chi volente o nolente si è convinto che perché l’Unione Europea possa funzionare è necessario che le istituzioni europee sovranazionali diventino capaci di decidere rapidamente e con risorse appropriate e chi invece vuole mantenere saldamente il controllo nelle mani dei singoli paesi, unici depositari di risorse e legittimità democratica. La proposta della Commissione sul Recovery Fund, sebbene questo venga presentato come un meccanismo eccezionale e temporaneo, prefigurava un mondo come quello descritto sopra, tant’è che la Commissione propone anche di finanziare il debito principale e gli interessi del nuovo debito con l’introduzione di imposte europee. La resistenza dei paesi, in particolare dei “frugali”, è stata quella di evitare che questo avvenisse, mantenendo un ruolo del Consiglio europeo e dei singoli paesi nella gestione e allocazione delle nuove risorse. E si capisce perché: in un’evoluzione dell’Unione di tipo federale o confederale come quella descritta sopra, i “frugali” – la cui popolazione sommata assieme fa sì e no la metà della popolazione italiana – perderebbero sicuramente potere nei confronti dell’attuale contesto di tipo intergovernativo. Al di là degli stereotipi, utili per infiammare le rispettive opinioni pubbliche (gli italiani spreconi contro gli olandesi evasori), la vera ragione del conflitto è questa.

La crisi innestata dal virus e la necessità di rispondervi ha insomma messo l’Unione Europea di fronte alle proprie contraddizioni e creato un chiaro dilemma: se evolvere verso una maggiore unione politica, che richiede anche risorse e capacità decisionali adeguate, o rimanere un’organizzazione di paesi sovrani, con tutti i limiti e i vantaggi che questo comporta. Il Recovery Fund è stato approvato, ma questo dilemma fondamentale non è stato ancora risolto.

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