Logoramento dei legami sociali, sistemi di welfare e solidarietà di base. di Ugo Ascoli, Giovanni B. Sgritta

Premessa

Come definire i legami sociali, e in quali condizioni questi legami possono logorarsi? Solidarietà, valori e regole condivise, lo stare insieme e riconoscersi come membri della stessa comunità tengono unita la società e danno modo alle istituzioni di svolgere la loro funzione, ai cittadini di apprendere diritti e doveri. Per un complesso di motivi, le relazioni interpersonali possono logorarsi o collassare.

Una causa frequente è l’aumento delle diseguaglianze. Nelle società disuguali gli individui hanno condizioni di lavoro, redditi, stili di vita, alloggi, gusti e consumi diversi. Anche la mobilità geografica e sociale impoverisce i legami di altruismo e solidarietà «non consentendo alle persone di vivere l’una accanto all’altra il tempo necessario perché quelle disposizioni maturino».

Così le trasformazioni del mondo del lavoro e dell’economia, che agiscono sia sulla «distanza dalle necessità» sia differenziando luoghi, tempi di vita, occasioni d’incontro, pratiche di consumo, opinioni politiche, che contribuiscono ad accrescere le disomogeneità e le «smagliature» del tessuto sociale. Altri due motivi sono causa di rarefazione e logoramento dei legami sociali: il problema delle generazioni e la crisi del mondo giovanile (crescita delle povertà materiali, prolungamento dell’accesso all’indipendenza economica, alle scelte di vita, alla riproduzione), così come la crescita delle forme di solitudine e isolamento.

L’analisi

Partendo dai processi del mercato del lavoro degli ultimi venti/trenta anni occorre mettere in evidenza una vasta fenomenologia che si arricchisce sempre di più di nuove forme: diminuiscono i lavori «tipici» (a tempo indeterminato) e crescono i lavori a termine, i lavori «a tempo parziale» involontari, i lavori sotto retribuiti e a bassa retribuzione, i «lavoretti» della gig-economy, il lavoro «povero».

Si mantiene alta la disoccupazione e aumentano altresì gli inattivi, cioè coloro che non sono (o non sono più) alla ricerca di un’occupazione. Tra le cause che hanno contribuito all’indebolimento dei legami interpersonali è sicuramente compresa la questione giovanile, punto terminale di una trasformazione dei rapporti intergenerazionali che risale almeno alla prima metà degli anni Settanta.

Le scelte di welfare hanno continuato a privilegiare i capifamiglia maschi occupati, facendo sempre affidamento sulle famiglie (sulle donne) per la cura delle persone dipendenti. Non era difficile prevedere che quelle scelte, tenuto conto dell’orientamento familista del nostro sistema di welfare, avrebbero messo a repentaglio, e non per una sola stagione, la sostenibilità di quel patto fra generazioni che stava a fondamento dei «Trenta gloriosi».

Altrettanto prevedibile era che le conseguenze sarebbero ricadute sulle generazioni a venire, che avrebbero pagato quelle scelte in minore crescita, minore occupazione, limitate aspirazioni e opportunità in continuo declino. Così è stato. Basti menzionare l’altissima percentuale di giovani fuori dal circuito dell’istruzione, della formazione professionale e dal mondo del lavoro. In parte, il danno è stato ridotto dall’intervento protettivo e compensativo delle famiglie, che tuttavia si rileva alla lunga un anacronismo, che rimette indietro le lancette della storia: più una faccia del problema che la soluzione. Un «familismo senza alternative», che mantiene in vita l’insana fisiologia di un’esclusione che inevitabilmente si traduce in uno spreco generalizzato di capacità, competenze, risorse, capitale sociale, futuro previdenziale e assistenziale per una quota parte non trascurabile della popolazione.

L’ultimo tassello di questa ricostruzione delle cause del logoramento dei legami sociali riguarda il tema della solitudine e dell’isolamento. Anche questa una questione intricata; complicata da tutta una serie di concause che hanno a che vedere con il forte invecchiamento e la vulnerabilità della parte più anziana della popolazione, il cambiamento delle strutture familiari e la loro instabilità; quindi, con i processi di mobilità sul territorio, la segregazione delle periferie dei grandi centri urbani e metropolitani, e le condizioni di isolamento riconducibili all’individualismo, alla frammentazione degli interessi e alla variabilità degli stili di vita, alla perdita di fiducia. Aumentano le distanze, si riducono le occasioni d’incontro e di comunicazione di prossimità dalle quali possono generarsi legami, forme di reciprocità, un tessuto di solidarietà a maglie strette, rinnovato e rinnovabile.

La società si fa insomma più porosa, meno solida. E dove questa situazione strutturale si coniuga con caratteristiche societarie che esaltano soprattutto i valori della e i riferimenti alla solidarietà familiare, parentale, amicale e clientelare, com’è per tradizione il caso dell’Italia, la «sindrome della tartaruga», il ritiro nel proprio guscio diviene una reazione di difesa e di isolamento pressoché automatica.

In queste condizioni, l’effetto risultante è la rarefazione delle occasioni d’incontro e di collaborazione tra «diversi» (lontani) più che tra «prossimi» (vicini); a molti restano solo i legami, gli scambi e le reti di solidarietà che arredano il quotidiano domestico e forse la cerchia parentale estesa, assai meno i rapporti di vicinato e di caseggiato che, da tempo, si sono anch’essi logorati. Il paese sta pagando cara la mancata ricalibratura del nostro Welfare: assai deboli appaiono nel Paese gli argini ad una crescente diseguaglianza sociale e ad una crescente polarizzazione indotte dall’economia.

Di grande rilievo in questo caso le responsabilità della politica e delle classi dirigenti. Stato e mercato non sono tuttavia che una parte delle istituzioni che creano e distribuiscono risorse destinate a soddisfare i bisogni di individui, famiglie e gruppi sociali. Accanto ad esse, figurano da sempre le reti primarie di solidarietà e l’azione volontaria che si origina nella società civile.

Negli ultimi trenta anni abbiamo assistito dopo un riconoscimento e una iniziale valorizzazione delle organizzazioni di volontariato e della cooperazione sociale, ad un percorso normativo e politico volto soprattutto ad ottenere partner attendibili cui affidare comparti del welfare, allo scopo di alleggerire la spesa pubblica. Oggi emerge evidente l’intenzione di «agevolare» l’adozione da parte degli enti del terzo settore, dell’associazionismo e dell’attività di volontariato di obiettivi, logiche organizzative e criteri d’efficienza mutuati dalle forme d’impresa e dall’ortodossia economica prevalente.

Un vero e proprio rovesciamento di prospettiva rispetto a un modello sociale nel quale la crescita della cooperazione, dell’associazionismo, del volontariato, delle solidarietà di base, avrebbero dovuto giocare un ruolo fondamentale nella costruzione di una società più coesa e nell’estensione della partecipazione alla vita democratica.

Brevi osservazioni conclusive

Si appalesa un futuro assai problematico, con un welfare ancora più in affanno stretto fra vincoli stringenti di spesa e l’esigenza di una profonda ricalibratura, specie dopo la pandemia. Appare inoltre ineludibile far rientrare nelle politiche di welfare anche le misure volte a tutelare l’ambiente, vista la lezione che abbiamo appreso dall’origine e dalla diffusione in atto del Covid-19.

Due gli insegnamenti destinati a incidere nella coscienza pubblica che ci consegna l’esperienza della pandemia.

Innanzitutto l’estensione e la profondità della crisi ha indubbiamente contribuito a rivalutare l’azione e il ruolo dello Stato, incrinando le certezze di un’intera epoca storica nella quale la diminutio del settore pubblico, è stata sempre presentata come un’imprescindibile necessità a garanzia di una adeguata crescita economica e di un diffuso benessere individuale e collettivo.

Un altro aspetto, destinato anch’esso ad imprimersi nella coscienza collettiva, riguarda il Terzo settore: la frattura che le scelte pubbliche normative hanno introdotto, o comunque contribuito ad alimentare, tra il mondo del volontariato e gli altri enti ha finito per indebolire il primo nella speranza di irrobustire così i secondi. In realtà sia gli enti del terzo settore isomorfi al mercato che lo stesso mondo del volontariato si sono trovati alla prova dei fatti privi delle risorse e delle capacità necessarie per organizzare una risposta efficace agli eventi su tutto il territorio, salvo mobilitazioni di base e manifestazioni di civismo improvvisato volte a fornire risposte ai casi più gravi di esclusione sociale.

Fonte: RPS La Rivista delle Politiche Sociali 2/2020

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