Mi chiamo Tudor. Storia di un bambino nato al tempo della pandemia. di Andrei Simion-Irod

Mi chiamo Tudor e il 14 novembre ho compiuto un mese metà della mia vita l’ho vissuta con il Covid-19. Questo è il mio racconto, è un racconto di amore, l’amore che hanno avuto tutti per me, e che io imparerò ad avere per tutti.

Già da quando ero uno piccolo mucchietto  di cellule nell’utero di mia madre sapevo che le cose non sarebbero state semplici. Al contrario di mia sorella, che è nata in un periodo normale, qualche anno prima, io non sono riuscito a salutare mio padre fin a quando non mi ha toccato con le sue mani, perché le visite che mia madre ha fatto le ha dovute fare da sola. Così ho sentito anche cosa significa la preoccupazione senza una mano che stringe la tua per darti coraggio. Ma questo non mi ha fatto soffrire, più che altro mi ha fatto capire quanto è importante l’amore, l’amore di mio padre per mia madre.

Quando sono nato li ho visti, erano tutti due la che mi aspettavano, li ho riconosciuti sotto quelle maschere blu, per la stanchezza, ma soprattutto per le lacrime che avevano negli occhi, erano lacrime di felicità, di amore, ma anche un po’ di paura perché c’era qualcosa di strano che cresceva giorno dopo giorno, la chiamavano la “curva”. In quei primi giorni le mani di mio padre le ho sentite pochissimo, veniva a trovarmi solo un’ora al giorno, ed era sempre molto stanco, si lavava sempre le mani e mi toccava a malapena, ma nei suoi occhi, dietro a quelle lenti appannate si leggeva che era già fiero di me.

Siamo arrivati in questo posto che loro chiamavano “casa”, era tranquillo eccetto per quei pochi momenti in cui mia sorella strillava, capivo che prima non era così, forse era colpa mia, forse era la “curva”, oppure era solo la stanchezza che tutti avevano accumulato. Ho conosciuto anche mio nonno, il papà del mio papà, tre generazioni sotto lo stesso tetto, forse anche questo causava la tensione. Comunque lui è andato via dopo pochi giorni, li sentivo parlare: “dopo chiudono di nuovo tutto e non puoi più tornare a casa”, “ti scade tra poco l’assicurazione sanitaria e con i tempi che girano trovarti senza è un casino”. Così lui è tornato a casa sua, in un altro paese, anche lì c’è “la curva” e sembra più grande, forse per questo erano così tesi.

I giorni sono passati, mia mamma è diventata sempre più forte, l’ho vista più sorridente e lo capivo meglio, non dovevo più leggere il suo stato d’animo negli occhi come ho fatto quando l’ho vista per la prima volta. Mi rendevo conto che era più forte anche perchè il latte con il quale mi nutriva sempre più buono, pensavo che mi sarebbe piaciuto vivere sempre così. Un giorno li vedo di nuovo tesi, e non solo perché mia sorella non si vuole lavare le mani e cambiarsi subito i vestiti quando torna dalla scuola, tirano fuori di nuovo le maschere, preparano un borsone con tante cose, e poi discutono, preparano un piano: “entri tu, non possiamo entrare tutti, l’ambulatorio è troppo piccolo, rischiamo di fare assembramento”, “tanto la visita non dura più di 15 minuti”, “chiedigli se possiamo uscire fuori”. La mamma prova a fare mente locale con le cose da chiedere, ha paura di dimenticare qualcosa. Così ho conosciuto il pediatra, sembra una persona buona, ha dei begli occhi, ho visto solo quelli.

Parlano di nuovo di “curva”, dicono che ci chiudono, devono far venire qualcuno a casa per vedermi, ma io non ho bisogno, sto bene così, hanno paura per il “contagio”, parlano al telefono tanto, poi alla fine li vedo più tranquilli, hanno deciso che incontrerò i nonni. Sono un po’ perplesso, l’ho già visto, quello senza “assicurazione medica”, vabbè, vedremo.

Quella mattina abbiamo fatto un giro fuori, ci siamo fermati in un posto per festeggiare, non so cosa, ma mia sorella era contentissima, tutta piena di cioccolato e la mamma che gli correva dietro “devi pulirti le mani con il gel prima di metterli in bocca, c’è il virus”, chi sarà questo “virus” intorno non ho visto nessuno, ci sono delle altre persone, le sento parlare, ma sono lontane. cosa sarà mai. Arrivati a casa ero già stanco volevo il mio seno, le carezze, il ruttino e poi un po’ di tranquillità per riposare. Invece la tranquillità è durata poco sono arrivati i nonni. Sì, questi erano diversi, erano due, lei con un grande sorriso come quello di mia sorella quando li ha visti, lui un po’ più serio, ma dalle loro facce si capiva quanto erano felici, anche se un po’ timorosi, magari erano stanchi  per il viaggio, magari avevano anche loro paura della “curva” o, come avevo imparato quella mattina, dell’altro nemico, “il virus”, oppure erano la stessa cosa, chi li capisce più, robe da grandi. Erano tutti felici, soprattutto la nonna e mia sorella che non voleva stare da nessun’altra parte se non nella sue braccia. Mamma era contenta, tranquilla, sorridente, mi piace la mia mamma. Il papà era più serio del solito, tutte le volte che il nonno tossiva c’era qualcosa nei suoi occhi che cambiava, era una cosa che con il tempo ho visto sempre di più, con la mamma quella sera la chiamava “stanchezza”, ma a me ricordava qualcosa che ho visto quando li ho incontrati per la prima volta: paura.

Dal giorno dopo qualcosa è cambiato. La mattina è iniziata bene, solita routine latte, cambio, sonno, la mamma che fa la doccia, che bel profumo i capelli appena lavati, il papà che esce con il cane, tutto tranquillo, mi piace la mia vita. Tutto d’un tratto qualcosa cambia, papà parla al telefono con qualcuno “devi fare il tampone” e rivedo quella cosa nei suoi occhi che contagia subito anche quelli della mamma, e  rimarrà là, aggrappata per tanti giorni. Da allora niente più passeggiate, anche mia sorella sta a casa con noi, pesante, ha una mole di energia che si fa fatica solo a guardarla, l’unico che esce è lui, ma sempre rigorosamente mascherato, lo fa per lavoro è tra i “lavoratori essenziali”.

Nei giorni che seguono l’atmosfera è sempre più tesa, lui è sempre al telefono, lei è sempre più spenta, mia sorella sempre più irrequieta. Cambia anche il latte, oppure cambia la mia pancia. Ho quasi sempre questo pallone che mi preme e mi infastidisce, fino alla puzzetta liberatoria come la chiama papà, poi un po’ meglio. Non si dorme più bene, mi viene sempre da piangere. Una notte per fare riposare un po’ le ragazze mio padre mi “presenta” qualcuno, si chiama Jimi, non capisco tanto bene cosa vuol dire, ma c’è quel suono e il dondolare dei passi che mi fa addormentare, oppure è la “puzzetta”, ad ogni modo dura poco la pancia si gonfia di nuovo, sta per scoppiare, piango, poi riprendiamo la danza.

Quella sera la mamma è andata a dormire in un’altra stanza, da quel momento hanno iniziato ad usare la mascherina anche in casa, almeno lo facevano quando erano con me, anche gli abbracci erano sempre di meno. La mamma ha la febbre. Il papà palpando il seno le dice “tranquilla è la mastite, vedrai che domani starai meglio”. Ma domani siamo andati a fare un giro in macchina, non erano così felici come l’ultima volta, niente più cioccolato sulla faccia di mia sorella, solo paura negli occhi di tutti e due i miei genitori, che poi ha contagiato anche quelli di mia sorella quando ha visto queste persone vestite completamento di bianco con questi guanti blu che hanno infilato dei bastoncini nel naso di mamma e papà. Li ha chiamati “ladri di moccoli”, li vedremo ancora, ma non faranno più così paura.

Da quel giorno siamo stati tutti in casa. La mamma è sempre calda quando  mi prende in braccio, il latte ha un sapore nuovo, dicono che è il farmaco che prende, anche se a me sembra più una cosa che sa di “sentimento”, la possiamo chiamare “rabbia”, è uno stato d’animo che mi porterò per qualche giorno, meno male che c’è  l’amico di papà e i suoni che fa con la chitarra. Lui è sempre di più al telefono, e con i giorni vedo nei suoi occhi qualcosa che prende il posto della paura, è una cosa che gli ha completamente coperto il viso quando i “ladri di moccoli” sono venuti a casa nostra per prendere la mamma e portarla via. Chiamiamola “disperazione”.

Sì una mattina erano più tesi del solito, durante la notte la mamma ha continuato con la febbre, ma era altro, non era solo quel marchingegno che mi tenevano regolarmente anche a me sotto l’ascella, era una cosa strana che mettevano sul dito, poi papa faceva una corsetta in casa con il cane per poi tornare a rimetterlo, la mamma che non riusciva a fare la corsa si alzava e si sedeva dalla sedia. Era quello che preoccupava molto papà, tornava al telefono, provava l’ascella, provava il dito, di nuovo al telefono. Poi sono venuti. Hanno preso la mia mamma e ci hanno lasciato piangendo tutti tre, si anche se provava a nascondere gli occhi piangeva pure lui, lo sentivo nell’abbraccio che ci dava a tutti due. Aveva paura, che come la nonna, la mamma rimanesse in ospedale. Non è stato così. È tornata quel pomeriggio, e con lei anche il sorriso di papà. Per un momento anche l’amore negli occhi. Continuavano ad avere le mascherine.

Poi i giorni passavano, io continuavo ad essere irrequieto, mamma stava meglio, papà sempre al telefono, ma era più contento, lo vedevo annusare sempre il contenitore del caffè e subito il sorriso, diceva con la mamma che il peggio era passato. Fino a quel pomeriggio, che già era strano, c’era troppo silenzio. Non si sentivano più gli strilli di mia sorella, stava dormendo, non l’ho mai vista dormire di pomeriggio, nemmeno loro, si ostinavano  subito con il termometro a provarle la febbre, ma niente. Poi anche la mamma era silenziosa, tra lo sfinimento, reduce dai giorni di febbre, e la quiete di un pomeriggio tranquillo in famiglia. Ma era solo il silenzio prima della tempesta, e che tempesta.

Prima la telefonata a mia madre, poi l’agitazione di tutti due. Le prime lacrime della mamma, neanche un’ora e arriva l’abbraccio di papà. Nei loro occhi bagnati di lacrime c’era un’altra cosa: tristezza. Non capivo tanto bene quello che succedeva, l’ho saputo solo il giorno dopo quando lei ha detto a mia sorella che la nonna non c’era più. Mia sorella sembrava non capire, ma poi sono seguite  le domande: “e quando la vedremo ancora?”, “adesso dov’è?”, “il nonno è con lei? voglio andare anch’io..” e con queste sempre più tristezza negli occhi e la faccia di mia madre, adesso non indossava più la mascherina, lui ha detto che non c’è più bisogno. Stiamo più tempo abbracciati, qualche volta un po’ troppo stretti, lui è ancora al telefono, lo vedo indaffarato.

Così arriviamo ad oggi che è il giorno del mio primo mese, ma anche il giorno del funerale della mia unica nonna, l’altra l’ho persa senza nemmeno conoscerla tanto tempo fa. Loro sono molto assenti, hanno il pensiero da un’altra parte, a tanti chilometri di distanza, vorrebbero essere là, ma siamo ancora in “isolamento”, “andiamo la prossima settimana”, “hanno detto che chiudano da domani”.. silenzio. Solo mia sorella, inizialmente timida, ma poi vedendo i sorrisi sulle loro facce inizia a canticchiare per poi finire a squarciagola “Tanti auguri a Tudor, Tanti auguri a mio fratellone” ci abbracciamo tutti quattro con il cane che vuole aggiungersi, sento Amore.

Amore come quello di mia nonna che è venuta a trovarci, scatenando tutta questa serie di eventi che vi ho raccontato, amore che non dimenticherò mai. Grazie a lei ho imparato in un solo un mese di vita che solo l’amore ci salverà tutti e all’inizio del mio cammino voglio solo dire: “Il mio nome e Tudor, e vi amo tutti, così come siete!”

Dedicato alla nonna di Tudor che in poche ore gli ha insegnato la cosa più importante: l’amore è il sentimento che ci fa essere quelli che siamo.

Andrei Simion-Irod, Medico di medicina generale

fonte: saluteinternazionale.info

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