La valorizzazione delle risorse umane nel Sistema sanitario nazionale: un principio disatteso. di Giovanna Vicarelli

Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 3/2020 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link: https://www.ediesseonline.it/prodotto/rps-n-3-2020/ .

Nel 2008 il Ministero della Salute pubblica un «Libro bianco» sui principi del Servizio Sanitario Nazionale individuando nella «Valorizzazione delle risorse umane e professionali degli operatori» uno degli orientamenti fondanti delle politiche legislative e gestionali del comparto sanitario. A distanza di un decennio dalla pubblicazione del Libro bianco, ci si può chiedere se tale principio sia stato parzialmente disatteso e quali conseguenze ne siano derivate in occasione della pandemia da Sars-Cov2. Per rispondere a tale interrogativo, nelle prime due parti del contributo ci si concentra sul tema del ridimensionamento del personale del comparto sanitario dal 2009 al 2018, ricercandone le principali cause. Nella terza parte si considerano le misure adottate in merito al personale del Ssn a seguito della infezione da Covid-19. Il primo dato da sottolineare è che, nel decennio considerato, il comparto perde 45.093 addetti a tempo indeterminato (da 693.600 a 648.507), con una diminuzione progressiva che si inverte solo nel 2018 (+1446 unità). In termini percentuali la contrazione nel numero degli occupai stabili (- 6,5%) è superiore a quella complessiva nella Pa (- 4,5%). Alla diminuzione di tale personale fa da riscontro l’incremento del lavoro flessibile (contratti a tempo determinato, contratti interinali e contratti di lavoro socialmente utili) e in certa misura anche dei contratti co.co.co. e degli incarichi libero professionali, di studio, ricerca e consulenza, nonostante che la normativa ne limiti nel tempo la possibilità di utilizzo. Entrando nel merito dei ruoli occupazionali, diminuiscono gli occupati in tutti i ruoli del comparto sanità con particolare accentuazione di quelli professionali, tecnici e amministrativi. In valori assoluti, tuttavia, la diminuzione del personale sanitario (-21.813 addetti) è superiore a quella degli altri tre ruoli conteggiati assieme (-20.964). Nello specifico, vengono meno 6.348 medici e odontoiatri e 10.373 infermieri.

Se si guarda poi ai livelli retributivi nello stesso arco di tempo, non si può non evidenziare una loro stabilità (o lieve diminuzione) che di fatto si risolve in una netta perdita di potere d’acquisto. Si può, dunque, concludere che, nel decennio 2008-2018, si registra una effettiva svalorizzazione del personale del comparto sanitario, con particolare riguardo al personale medico ed infermieristico. Non solo si ha una diminuzione in termini assoluti degli occupati, ma le stesse retribuzioni medie lorde restano praticamente invariate a fronte di condizioni di lavoro nettamente peggiorate, come minimo per la minore disponibilità e qualità delle risorse umane presenti.

Il processo fin qui evidenziato, può essere compreso guardando, in primo luogo, alla grave crisi economica del secondo decennio del duemila cui corrisponde un crescente impoverimento delle classi medie con conseguente limitazione dei consumi delle famiglie, di una stagnazione della produzione industriale e decremento degli investimenti fissi lordi con la crescita quasi esponenziale del debito pubblico. Se il contesto macroeconomico spiega largamente le scelte restrittive effettuate dai governi italiani nel periodo considerato, un ulteriore fattore di comprensione può essere individuato, a livello meso organizzativo, nel carattere delle relazioni che si instaurano tra i governi in carica e le associazioni sindacali dei medici e degli infermieri. Tali relazioni sono marcate dalla debolezza di queste ultime, incapaci di trovare efficaci opportunità di veto nelle diverse arene politiche coinvolte (arena governativa, legislativa, elettorale). Né contano, in questo stesso arco di tempo, le voci degli ordini e dei collegi professionali che, pur denunciando le carenze di personale, la mancata programmazione degli accessi universitari e alle scuole di specializzazione, le peggiorate condizioni di lavoro, la crescente ostilità espressa dai cittadini-utenti, restano ampiamente inascoltate. In tal caso, la debolezza va rintracciata nella separatezza e nella conflittualità latente tra gli ordini dei medici da un lato e i collegi delle professioni sanitarie dall’altro. Infatti, sono le problematiche giurisdizionali sulle aree di attività degli uni e degli altri a tenere ampiamente occupati i rappresentanti delle due categorie, piuttosto che le condizioni comuni del loro lavoro e del loro disagio.

È su questo scenario che, a fine febbraio 2020, l’Italia e il suo Ssn si trovano a far fronte alla crisi innescata dalla Covid-19. In pochissimi giorni, il personale sanitario, soprattutto delle regioni centro-settentrionali, viene coinvolto in una emergenza senza precedenti che evidenzia le molte insufficienze e difficoltà, nonostante il coraggio e la dedizione dei professionisti della salute che vengono, da subito, etichettati come gli eroi e i martiri della guerra intrapresa contro il virus. Non a caso, le azioni che il governo intraprende, nella prima fase della pandemia, mirano a rafforzare il Ssn attraverso risorse economiche e disposizioni normative rivolte, in larga parte, al personale del comparto. Si tratta, di politiche «dell’emergenza» che ben difficilmente riusciranno ad equilibrare la gestione di devalorizzazione che si è espressa nell’ultimo decennio.

Ciò significa che le future politiche non potranno limitarsi ad un mero ripristino del numero degli addetti (seppur basilare), ma farsi carico di una ridefinizione più complessiva delle loro posizioni e relazioni professionali in una logica di gestione attiva delle risorse umane che si è dimostrata del tutto carente nell’ultimo decennio e che la pandemia ha messo in evidenza in tutta la sua importanza.

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