Perché i veri liberali dovrebbero ribellarsi all’abuso dei brevetti. di Vincenzo Visco

Le recenti polemiche e conflitti tra l’Unione europea e le multinazionali farmaceutiche possono essere una utile occasione per affrontare una delle cause principali dell’aumento delle diseguaglianze e della concentrazione del potere che si è verificato nel mondo occidentale negli ultimi 30 anni, vale a dire il ruolo che hanno assunto i brevetti e l’ossessiva difesa della “proprietà intellettuale” nelle nostre economie. Ed è in realtà inquietante che la proposta di sospensione temporanea della validità dei brevetti per consentire una più rapida produzione e distribuzione dei vaccini anti Covid, si stata ignorata e respinta.

I diritti d’autore e i brevetti nascono tra il 17esimo e 19esimo secolo con finalità ed estensione limitate per tutelare autori e inventori per un breve periodo e con la finalità di promuovere la ricerca, gli investimenti, e l’impegno personale, cioè al fine di creare valore per l’intera economia. In cambio della protezione garantita dal brevetto e della tutela assicurata dal sistema legislativo e dai tribunali, l’inventore è tenuto a fornire informazioni dettagliate sulla sua invenzione, in modo che essa, scaduto il termine di protezione, possa diventare facilmente utilizzabile da tutti.

Negli ultimi decenni questa logica è stata stravolta. Tutto è diventato brevettabile: non solo invenzioni e prodotti letterari e artistici, ma anche marchi commerciali, nome del prodotto, design, immagine, immagini, località di produzione di un bene, software, ecc. Fino al paradosso. Per esempio l’«Economist» ha riportato anni fa che la Harley-Davidson aveva pensato di brevettare il suono dei motori delle sue motociclette. Ottenere un brevetto è diventato via via molto più facile. La brevettabilità è stata poi estesa non solo al prodotto finale derivante dall’innovazione, ma anche alle fasi precedenti e in particolare alla ricerca, per cui anche la scienza è stata in qualche modo privatizzata, ostacolando la diffusione della conoscenza. La durata della protezione si è allungata, e si è anche creato un mercato dei brevetti, in cui i possessori possono vendere ad altri i servizi da essi potenzialmente derivabili.

In sostanza i marchi, i diritti d’autore e i brevetti si sono trasformati da un modo per stimolare l’innovazione, a un mezzo per bloccarla e rallentarla. Da uno strumento utile alla produzione di valore (ricchezza), a un modo per estrarre valore a beneficio di pochi. I brevetti vengono spesso acquisiti non per essere utilizzati, ma per impedirne l’utilizzo da parte dei concorrenti, o per posticipare la produzione di beni e servizi che potrebbero rendere obsoleti prodotti già esistenti. In sostanza invece di innovare e investire, le imprese, nella situazione che si è creata, hanno l’interesse prevalente a massimizzare il rendimento dell’utilizzazione dei brevetti posseduti o acquisibili, o alla contestazione, vera o presunta, della loro utilizzazione da parte di altri.

Va ancora aggiunto che gran parte delle innovazioni di maggior successo sono il frutto di robusti investimenti nella ricerca di base con fondi forniti dai governi dei diversi Paesi, dei cui benefici si sono poi appropriati società multinazionali, i loro dirigenti e i loro azionisti. Al tempo stesso le aliquote fiscali sulle società venivano fortemente ridotte, e così le aliquote più elevate delle imposte sul reddito, mentre le retribuzioni dei lavoratori stagnavano e aumentava la disoccupazione. Tutto ciò ha determinato un aumento impressionante della diseguaglianza, ed enormi arricchimenti ottenuti senza sforzo e impegno.

In questo contesto Big Pharma gioca un ruolo importante. Essa investe relativamente poco in ricerca, ma utilizza massicciamente i fondi messi a disposizione dai governi. Investe molto di più in pubblicità e nella organizzazione di convegni utili a “convincere” i medici della bontà dei loro prodotti. Crea presunti nuovi farmaci, introducendo piccole modifiche in prodotti già esistenti, riuscendo così ad estendere la durata dei brevetti, e soprattutto impone prezzi e royalties esorbitanti che penalizzano i bilanci pubblici degli Stati e soprattutto i Paesi più poveri.

Il meccanismo è semplice: il brevetto consiste nella concessione del potere di monopolio su un bene per un periodo determinato, e quindi dà al detentore il potere di fissare il prezzo più conveniente. Se poi, come avviene nel settore sanitario, la domanda è particolarmente rigida, allora il livello dei prezzi, l’estrazione di valore la realizzazione di rendite può andare facilmente alle stelle.

Per questi motivi dovremmo riflettere seriamente sulle caratteristiche di questo infernale meccanismo che abbiamo creato. L’idea stessa di proprietà intellettuale è discutibile ed è il frutto di una concezione per cui gli individui sono parte separata rispetto alla società di cui essi fanno parte, che li ha allevati, istruiti e valorizzati. Si ritiene che per inventare, creare, innovare servano incentivi finanziari specifici e consistenti e non bastino buone retribuzioni, fondi per la ricerca, prestigio acquisito, rispetto dei pari, ecc., come invece è stato per secoli. Naturalmente si può obiettare che Mozart è morto povero, mentre oggi ogni rockstar di successo è multimilionaria, così come molto ricchi sono oggi i bravi direttori di orchestra. Ma, a parte il diverso contesto tecnologico (globalizzazione, internet, riproducibilità infinita degli eventi in ogni luogo del pianeta, ecc.), se era sbagliato il sistema di retribuzione degli artisti del tempo, non è detto che sia giusto e corretto quello attuale, tanto più che nessuno pensa di concedere analoghi incentivi finanziari ai lavoratori che contribuiscono a produrre i beni e i sevizi protetti.

Che fare dunque? È evidente che il sistema attuale andrebbe modificato sotto diversi aspetti: a) la concessione dei brevetti e altre protezioni consimili dovrebbe essere limitata a prodotti e attività effettivamente meritevoli di tutela in quanto in grado di far progredire l’economia e la società o assicurare all’individuo coinvolto un giusto compenso; b) il tempo di durata della protezione dovrebbe essere ridotto; c) il potere di monopolio concesso dovrebbe essere soggetto a regolazione, e i prezzi di vendita non dovrebbero superare i costi sostenuti, comprensivi dei rischi assunti e di un profitto ragionevole.

Gli storici economici sono concordi nel ritenere che la rivoluzione industriale fu possibile per la rapida diffusione, senza ostacoli delle invenzioni e delle innovazioni che venivano create. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti è strettamente connesso al mandato di Alexander Hamilton ai suoi collaboratori di “copiare” quanto più possibile i sistemi produttivi e i prodotti britannici. Lo stesso può dirsi della crescita del Giappone, e dell’Italia nel dopoguerra, e dello sviluppo attuale della Cina. La diffusione della scienza e delle conoscenze è il sistema migliore, più rapido ed efficiente per creare sviluppo e ricchezza da quando esiste il capitalismo. Il sistema attuale, invece, produce monopoli, rendite, diseguaglianza, stagnazione.

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