Alcol. La sconfitta delle strategie globali. di Benedetto Saraceno

L’Industria dell’alcol non solo prospera economicamente ma ignora le raccomandazioni dell’OMS con la silenziosa complicità dei governi. Durante la pandemia la crescita della vendita di alcol è stata impressionante.

Ogni anno muoiono nel mondo 3 milioni di persone a causa del consumo di alcol e questo dato rappresenta il 5,3% della mortalità in generale. Nella fascia di età 20-39 anni il 13,5% delle morti sono attribuibili al consumo di alcol. Il consumo di alcol è associato a più di duecento diverse patologie. Infine, l’alcol è responsabile di lesioni e traumatismi legati a incidenti stradali, omicidio e aggressioni. La violenza domestica sulle donne e sui bambini è spesso legata al consumo di alcol.

Malgrado tali dati drammatici si continua a considerare l’alcol come un problema minore e ci si concentra sulla dipendenza da alcol che, in realtà, non rappresenta il vero problema di salute pubblica. Il vero problema invece dipende dalla intossicazione acuta da alcol (consumo concentrato in un tempo limitato da persone che non sono dipendenti, come è il caso del consumo in acuto da parte di adolescenti e giovani) e dalla tossicità cronica, ossia la silenziosa e progressiva lesione di organi vitali dovuta a protratto consumo di alcol anche se in dosi moderate. L’alcol è una droga psicotropa lecita, come il tabacco, e dunque non è esposta a quella pressione sociale che viene invece rivolta alle droghe illecite. Ma per il nostro cervello, legali o illegali che siano, tutte le sostanze psicotrope sono dannose.

Nel 2010 dopo una guerra durata cinque anni la salute pubblica mondiale ottenne una storica vittoria contro la pressione della industria dell’alcol e dei paesi che tale industria proteggevano e sostenevano. Infatti, l’Assemblea della Organizzazione Mondiale della Salute, costituita dai 194 ministri della salute degli stati membri delle Nazioni Unite, approvava la storica Strategia Globale sull’uso dannoso dell’alcol[1]. Durante cinque anni con colpi di scena e battaglie vinte o perdute, si erano confrontati alcuni paesi palesemente orientati a proteggere la propria industria dell’alcol (fra essi gli Stati Uniti con Budweiser e Bourbon, i paesi caraibici con il Rhum, i paesi latino americani con l’industria della Birra). Questi paesi “pro alcol” erano di fatto consapevoli alleati della grande industria degli alcolici ad alta gradazione (whisky, rhum, cognac, vodka) e della birra. I produttori di vino non giocavano un ruolo significativo in quanto non organizzati in potente lobby di multinazionali come i produttori di “spirits” e birra.

Contrastavano questi paesi quelli invece virtuosi, ossia orientati alla difesa della salute pubblica, malgrado alcuni di essi avessero anche interessi nella produzione di alcol (talvolta interessi di natura fiscale): si trattava dei paesi della Unione Europea guidati dagli attivissimi paesi nordici e dal Portogallo, dalla Tailandia che sosteneva politiche quasi proibizioniste e da numerosi paesi africani. La grande maggioranza di tutti gli altri paesi “stava alla finestra” a guardare il match e a puntare sul vittorioso: i paesi mussulmani facevano il tifo per i virtuosi e gli altri avevano posizioni spesso neutre o intermedie (ad esempio India, Cina e Giappone). Il segretariato tecnico della OMS condusse una aspra battaglia e non mancarono “vittime” eccellenti ma, dopo anni di negoziazioni e diplomazie visibili e riservate, nel 2010 ottenne la vittoria finale (ebbi il privilegio di essere in quel tempo il responsabile di quella équipe tecnica ).

Tuttavia, la “Strategia Globale” non è “legally binding” come invece fu il caso della Convenzione sul Tabacco. Si tratta di una strategia autorevole ma non legalmente costringente. Fu una guerra vinta e una sonora sconfitta della industria, ma da allora, il 2020, le cose sono progressivamente venute mutando e quella vittoria è solo un ricordo offuscato dalla sconfitta sistematica e permanente delle misure che allora erano state raccomandate: aumento della tassazione sulle bevande alcoliche, proibizione della pubblicità all’alcol, limitazione della vendita in ceti orari e in certi luoghi e molto altro. L’Industria non solo prospera economicamente ma ignora le raccomandazioni con la silenziosa complicità dei governi in cui il tradizionale conflitto fra interessi della salute e interessi della imposizione fiscale gioca a sfavore della salute. Secondo la magistrale Revisione sistematica di Savell e colleghi[2], l’industria dell’alcol si oppone a qualsiasi regolazione del mercato enfatizzando la responsabilizzazione della stessa industria e le strategie di auto-regolazione (di cui si è ampiamente dimostrata la inefficacia dovuta alla nota contraddizione della volpe cui venga affidata la difesa del pollaio). Secondo gli autori della revisione, l’industria sostiene i propri argomenti attraverso vere e proprie manipolazioni delle evidenze scientifiche. Una più recente e simile revisione[3] ha esaminato trentasei anni di rapporti pubblicati in riviste scientifiche internazionali dimostrando il frequente coinvolgimento dell’industria dell’alcol nella formulazione delle politiche sull’alcol.

L’industria cerca di influenzare le politiche attraverso la definizione di parametri del dibattito che escludano a priori dall’agenda delle politiche ogni riferimento ad elementi che potrebbero contrastare gli interessi commerciali dell’industria stessa. Inoltre, l’industria tesse una fitta rete di relazioni con gli attori chiave del dibattito attraverso forme diverse di collaborazione, sofisticate e non trasparenti. E queste strategie si sono dimostrate paganti. Le marche delle principali bevande alcoliche hanno imparato a costruirsi un potente e economico strumento di pubblicità invadendo il mondo del social media e allo stesso tempo riuscendo a superare i vincoli della pubblicità dell’alcol ai minori. Tre marche di alcol risultano essere le prime tre industrie che spendono maggiormente in pubblicità su Facebook, e il 60% del mercato dell’alcol è rappresentato su Instagram. Infine, sta crescendo a dismisura l’investimento delle multinazionali dell’alcol sui cosiddetti “influencer”: ad esempio Cîroc Ultra-Premium Vodka ha il più alto numero di influencer che menzionano la loro marca. E i risultati si vedono.

Secondo il  JAMA Network[4] durante la ultima settimana del marzo 2020, in piena pandemia COVID 19, le vendite di alcol negli Stati Uniti sono aumentate del 262%. Malgrado o forse grazie alla pandemia l’espansione dell’industria dell’alcol è stata impressionante. Viene allora da chiedersi che ne è stato di quella grande vittoria del 2010 quando 194 governi si impegnavano a porre in atto misure significative per contrastare l’impatto negativo dell’alcol sulla salute dei singoli e delle comunità. Dieci anni dopo quella storica decisione i governi hanno fatto molto poco se non quasi nulla, come mostrano eloquentemente Jernigan e Trangenstein[5], riferendo in parte anche i risultati di due survey condotte dalla stessa OMS per monitorare la implementazione della Strategia Globale sull’Alcol[6]. La Strategia Globale indicava numerosi interventi costo-efficaci per ridurre l’impatto dell’uso di alcol e fra questi tre emergevano come i più solidi e dimostrati:

  • Il rafforzamento delle restrizioni sulla disponibilità dell’alcol (ad esempio la restrizione della vendita nei grill autostradali o nei locali dopo un certo orario serale).
  • Il rafforzamento delle restrizioni alla pubblicità delle bevande alcoliche.
  • L’aumento delle tasse sull’alcol.

In molti casi i governi hanno visto nell’aumento della fiscalità sull’alcol una opportunità di aumento delle entrate e dunque hanno aumentato le tasse ma, così mostra la analisi attenta dei dati, nella maggioranza dei casi tali aumenti non sono stati significativi e poco hanno inciso sui consumi. Inoltre, le inflazioni progressive hanno di fatto annullato l’impatto dell’aumento della tassazione con risultati nulli sul consumo. Per quanto attiene alle restrizioni della pubblicità, in molti paesi dell’Africa così come nelle Americhe tali restrizioni di fatto non esistono. Nel 2017 negli Stati Uniti le multinazionali della birra hanno incrementato del 60% gli investimenti in nuove forme di pubblicità attraverso i social media.

In parallelo a questo aumento dei consumi e indebolimento delle misure restrittive sono state pubblicate nuove evidenze che mostrano sia che non esiste un livello di consumo alcolico non nocivo[7] sia che i cosiddetti benefici dell’uso moderato di alcol sono di fatto artefatti e tali benefici sono inesistenti[8].

Dunque, si sa di più sugli effetti nocivi dell’alcol ma se ne consuma anche di più: il consumo global e per capita di alcol fra gli adulti è destinato a aumentare da 6,5 a 7,6 litri da oggi al 2030[9].

Ci sono molte ragioni per questa débacle:

  • La stessa OMS ha messo a disposizione risorse risibili per garantire assistenza tecnica ai paesi nel campo dell’alcol.
  • La interferenza dell’industria per limitare o bloccare misure di salute pubblica adottate dai singoli governi sono diffuse e sistematiche.
  • Le misure restrittive per controllare il consumo di alcol sono volontarie e non hanno alcun vincolo internazionale cosicché i governi per inerzia o per attiva connivenza con gli interessi della industria sono scarsamente attivi, soprattutto nei paesi con politiche di salute pubblica deboli e non finanziate. C’è da chiedersi se non sarebbe necessaria una convenzione legalmente costringente come è il caso della Convenzione sul Tabacco.

Nel nostro paese alcuni leader politici si sono adoprati a promuovere prodotti nocivi alla salute pubblica (si ricordano gli interventi di Matteo Renzi e di Matteo Salvini, consumatori pubblici di Nutella e si ricorda anche come, non per caso, funzionari della Ferrero avessero accompagnato la delegazione ufficiale del governo italiano ad una assemblea OMS di qualche anno fa). C’è il molto ragionevole rischio che l’Italia non sarà mai fra i paesi virtuosi nella implementazione della strategia globale, ma fra quelli che si accontentano della inerzia e del silenzio.

Benedetto Saraceno. Segretario Generale, Lisbon Institute of Global Mental Health

Bibliografia

  1. Global strategy to reduce the harmful use of alcohol. Geneva: World Health Organization; 2010.
  2. Savell E, Fooks G, Gilmore AB. How does the alcohol industry attempt to influence marketing regulations? A systematic review. Addiction 2016; 111(1):18-32.
  3. McCambridge J, Mialon M, Hawkins B. Alcohol industry involvement in policymaking: a systematic review. Addiction 2018; 113(9): 1571–1584.
  4. Pollard MS, Tucker JS, Harold Green D. Changes in Adult Alcohol Use and Consequences During the COVID-19 Pandemic in the US. JAMA Netw Open. 2020;3(9): e2022942. doi:10.1001/jamanetworkopen
  5. Jernigan D, Trangenstein P. What’s next for WHO’s global strategy to reduce the harmful use of alcohol? Bulletin of the World Health Organisation, January 2020, 98(3).
  6. WHO. Global status report on alcohol and health 2018. Geneva: World Health Organization; 2018.
  7. GBD 2016 Alcohol Collaborators. Alcohol use and burden for 195 countries and territories, 1990-2016: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2016. Lancet 2018;392(10152):1015–35. https://doi.org/10.1016/S0140-
  8. Andréasson S, Chikritzhs T, Dangardt F, Holder H, Naimi T, Stockwell T. Moderate alcohol consumption brings no positive effect on health. A critical research analysis. Lakartidningen 2016;113:113.
  9. Manthey J, Shield KD, Rylett M, Hasan OSM, Probst C, Rehm J. Global alcohol exposure between 1990 and 2017 and forecasts until 2030: a modelling study. Lancet 2019 06 22;393(10190):2493–502. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(18)32744-2.

fonte: saluteinternazionale.info

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