Il futuro della Medicina di famiglia in Italia. di Gavino Maciocco

Non è giusto che un sindacato medico – diretto da pensionati e pensionandi – riesca a condizionare così pesantemente il futuro di un settore vitale del SSN, come quello della medicina di famiglia e delle cure primarie.

Nelle elezioni politiche del 1945, in Gran Bretagna, il Partito laburista ottenne una larghissima maggioranza in forza della quale il governo Attlee attuò anche un esteso programma di nazionalizzazioni: dalla Banca d’Inghilterra all’energia elettrica, dalle poste alle ferrovie. Il programma di governo prevedeva anche la nazionalizzazione della sanità. Quando, nel 1948, fu istituito il National Health Service (NHS) tutti gli ospedali – privati, municipali o retti da religiosi – passarono sotto la proprietà e la gestione dello Stato. Lo stesso processo doveva interessare la medicina di famiglia (general practice), ma i general practitioners (GPs) ingaggiarono una furibonda lotta contro il ministro della sanità Aneurin Bevan per mantenere il loro status di liberi professionisti. La battaglia si concluse con uno storico accordo:

  • Il governo teneva fuori dalla nazionalizzazione della sanità la general practice e di conseguenza i GPs mantenevano lo status di liberi professionisti.
  • I GPs da parte loro riconoscevano il ruolo delle Autorità sanitarie locali e si impegnavano a collaborare con esse sia nell’esecuzione di attività di sanità pubblica (vaccinazioni, screenings, etc), sia integrandosi con i community health services pubblici, sia – aspetto politicamente più rilevante – nel ricoprire il ruolo di gatekeeper, di guardiani dell’accesso alle cure secondarie e terziarie per propri pazienti, e quindi garanti dell’appropriatezza e della  continuità delle cure e del coordinamento dell’assistenza.

Negli oltre 70 anni di storia del NHS quello storico accordo non è stato mai messo in discussione. Quell’accordo, anzi,  ha prodotto un miglioramento progressivo della qualità della General practice: il lavoro di gruppo è diventato ben presto la norma all’interno di strutture qualificate sia in termini strutturali (health centres) che di personale di supporto e di attrezzature. La General practice britannica è stata la prima in Europa a diventare una disciplina accademica, con una specializzazione della durata di 5 anni. La società scientifica/professionale Royal College of General Practitioners gode di un alto, riconosciuto livello di autorevolezza, come pure la relativa rivista British Journal of General Practice.

In Italia il Servizio sanitario nazionale (SSN) è stato istituito nel 1978 a immagine e somiglianza del NHS (unica sostanziale differenza il modello di governo: periferico nel SSN, centralizzato nel NHS). Così per i medici di famiglia italiani si adottò lo schema britannico: liberi professionisti convenzionati col SSN, remunerati a quota capitaria. Ma le analogie si fermano qui perché la storia della medicina generale italiana è molto diversa da quella britannica. A partire dalla data d’ingresso della medicina generale nel servizio sanitario nazionale: trent’anni di ritardo trascorsi all’interno del diabolico meccanismo delle “casse mutue”, ben raffigurato dall’arcinoto film di Alberto Sordi. L’esperienza mutualistica peserà enormemente su quello che avverrà nei decenni successivi allo scioglimento delle “casse mutue”: di fatto l’ingresso nel SSN non ha sostanzialmente modificato né i comportamenti, né tantomeno la cultura della medicina generale. Se al tempo delle mutue i medici generalisti (che per lo più svolgevano anche altri lavori) vivevano con insofferenza e rassegnazione il caos burocratico a cui erano sottoposti, con altrettanta insofferenza e senso di estraneità hanno vissuto il loro ingresso nel SSN, di cui – a differenza dei colleghi britannici – non si sono mai sentiti parte.

I medici generalisti italiani perdono negli anni 80 l’occasione storica per tagliare i ponti con la medicina mutualistica e costruire una nuova, moderna medicina di famiglia. Ciò avviene quando, nel 1986, una direttiva europea obbliga i paesi a istituire un percorso formativo per i futuri medici di medicina generale. La medicina generale italiana è l’unica dei grandi paesi europei a non seguire la strada tracciata dalla Gran Bretagna (scuola di specializzazione accademica in Medicina generale)  preferendo rinchiudersi in un comodo recinto autoreferenziale gestito dal sindacato, infliggendo ai medici che seguono il corso una formazione di dubbia, spesso scadente,  qualità e una pesante discriminazione economica rispetto ai colleghi iscritti alle scuole di specializzazione di altre discipline (vedi l’articolo Come si diventa medici di famiglia).

Nel 2007 la medicina generale italiana sembra avere un sussulto avendo la consapevolezza di trovarsi in uno stato di “emarginazione che ha reso e continua a rendere difficile il nostro inserimento a pieno titolo nel SSN” per cui “non è più procrastinabile un cambiamento sostanziale della nostra realtà professionale. Per ottenerlo dobbiamo investire tutte le nostre energie”. Questo si legge in un documento della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG) del marzo 2007 dal titolo tanto impegnativo, quanto poi rimasto lettera morta: “Rifondazione della Medicina Generale”.

L’occasione per uscire dai margini del SSN si è ripresentata alla medicina generale con la riforma Balduzzi del 2012 (Dl 158/12)  che prevedeva la partecipazione dei medici di medicina generale alle UCCP (unità complessa di cure primarie) – le équipes multiprofessionali che avrebbero dovuto garantire un’offerta qualificata delle cure primarie e un’ampia accessibilità (H/12 o H/24) presso le strutture distrettuali (o presso le neonate Case della salute). Neanche a dirlo, UCCP e Case della salute sono state in questi anni il bersaglio preferito dei sindacati medici di categoria, con in testa la FIMMG. “Così – scrive Vittorio Mapelli su lavoce.info – dopo nove anni, una legge dello stato non è ancora stata applicata”.

Ai giorni nostri, ai tempi del PNRR (7 mld di euro destinati alla sanità territoriale di cui 2 mld per le Case della comunità) la FIMMG torna a sparare su ogni struttura destinata a rafforzare le cure primarie e la sanità territoriale: i distretti, le case della comunità con all’interno le équipes multiprofessionali. “Prima di investire – osserva ancora Mapelli – sarebbe necessario sapere se i medici dovranno traslocare – per convenzione o per subordinazione – nelle nuove strutture o se nel prolungarsi del braccio di ferro le nuove case della comunità finiranno per rimanere sfitte per diversi anni”.

Ed è anche legittimo chiedersi se è giusto che un sindacato medico – diretto da pensionati e pensionandi – riesca a condizionare così pesantemente il futuro di un settore vitale del SSN, come quello della medicina di famiglia e delle cure primarie. Un condizionamento reso possibile nel corso degli anni da una politica che – per convenienza, debolezza o incompetenza – si è disinteressata di tutto ciò che avveniva al di fuori degli ospedali.

Ed è altrettanto legittimo chiedersi se questi sindacati rappresentino davvero gli interessi della categoria, soprattutto dei medici più giovani e più motivati. Certamente non rappresentano i tanti medici di medicina generale che si sono espressi a favore del contratto di dipendenza, e neppure il folto gruppo di medici di medicina generale che nel 2018 lanciò la Campagna PHC Now or Never e che – dopo un intero anno di lavoro – ha proposto un nuovo modello di medicina di famiglia e di cure primarie, ispirato alla “Comprehensive Primary Health Care (vedi l’articolo Il Libro Azzurro). Al centro della loro proposta, contenuta nel Libro azzurro, c’è l’idea di un lavoro collegiale, svolto all’interno di strutture adeguate come le Case della comunità, basato su interprofessionalità e interdisciplinarietà, sulla prossimità, capillarità e proattività degli interventi sociosanitari, per agire in maniera integrata e coordinata verso i bisogni sanitari e sociali delle comunità. Nel documento ci sono anche altre idee tra cui quella di una formazione di livello universitario e di una nuova forma contrattuale, comune a tutti gli operatori delle cure primarie.

La questione del passaggio alla dipendenza dei medici di famiglia è stato evocato da un documento delle Regioni (Prima analisi criticità e possibili modifiche nelle relazioni SSN/MMG in particolare nella prospettiva della riforma dell’assistenza territoriale determinata da PNRR) dato che “l’attuale organizzazione della Medicina Generale (e della Pediatria di Libera Scelta e in parte la Specialistica Ambulatoriale Interna), derivante dagli Accordi Collettivi Nazionali, non riesce ad essere valorizzata all’interno dei sistemi regionali, diventando un ostacolo al percorso di sviluppo e strutturazione”. L’organizzazione della medicina generale ha dimostrato enormi limiti nel corso della pandemia: gli stessi limiti rischiano di impedire la realizzazione del PNRR. È necessario – si legge nel documento delle Regioni – un cambiamento del contratto, con possibili opzioni, compresa la dipendenza.

L’argomento principe utilizzato nel fuoco di sbarramento da parte dei sindacati è stato quello che la condizione di dipendenza spezza il rapporto di fiducia tra medico di famiglia e paziente, che non sarà più in grado di scegliere il “suo” medico. Sono anch’io convinto che il rapporto di fiducia sia un valore essenziale, che però può convivere con la presenza di medici di famiglia dipendenti come dimostrano varie esperienze internazionali. Lo spiega bene Fabrizio Cossutta, un medico  trapiantato in Portogallo e specializzato in medicina di famiglia. Qui i pazienti possono scegliere il proprio medico di famiglia (dipendente del SSN)  all’interno della USF (Unidade de Saúde Familiar, struttura territoriale della medicina di famiglia), possono scegliere di cambiare medico nella USF, possono scegliere una USF dentro il Distretto e possono scegliere di spostare la propria iscrizione tra Distretti, indipendentemente dalla propria residenza. In tutti questi passaggi la cartella clinica è informatizzata e quindi segue il paziente”.

fonte: saluteinternazionale.info

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