Servizi sanitari e donne con disabilità: la questione riguarda tutte le donne. di Lisa Noja

Io sono una persona riservata rispetto alle mie questioni private.  Tempo fa, però, il mio amico Ivan Scalfarotto mi disse che, se si è in politica, a volte, raccontare le proprie esperienze personali è necessario per dar voce a chi non ha la possibilità di farsi sentire. Per questo, vi racconto che venerdì scorso sono andata a fare la mammografia. Ero più in ansia del solito perché, a causa della pandemia, avevo accumulato un ritardo rispetto alle tempistiche previste per i controlli di routine. Quindi, insomma, ero più di cattivo umore del solito, rispetto a un esame che, diciamocelo, non è mai una passeggiata.

Forse anche per questo il ripetersi, per l’ennesima volta, delle difficoltà legate alla sostanziale inaccessibilità del macchinario a una donna che si muove su una carrozzina elettrica mi sono pesate particolarmente.
Come sempre la fatica di posizionarsi correttamente davanti alla macchina, le braccia tirate, le spalle contorte, lo sforzo di abbarbicarsi a un oggetto progettato senza tenere in minima considerazione milioni di donne che, come me, non possono stare in piedi, che non riescono a tenere una postura standard, che hanno una muscolatura più debole. Insomma, che sono diverse dal modello di femmina che i designer hanno in testa, ma che non sono immuni dal cancro, che hanno bisogno di sottoporsi ad esami diagnostici periodici e che si ammalano esattamente come le altre.
Come sempre, la paura che, a causa di questa totale indifferenza progettuale, l’esame non fosse abbastanza accurato e sfuggisse qualcosa.

Ancora una volta il personale sanitario si è prodigato per superare le difficoltà con una professionalità, una dedizione e una gentilezza impagabili, cercando e trovando tutte le soluzioni possibili, dedicandomi tempo, ripetendo l’esame finché non sono stati tranquilli di aver fatto tutto al meglio. Venerdì, però, forse complice la maggiore tensione, alla fine per un momento mi è venuto da piangere. Nessuno se n’è accorto, ma ho dovuto proprio ricacciare giù le lacrime per la rabbia. Rabbia perché non è giusto che io e milioni di donne dobbiamo subire questa umiliazione per avere accesso alle cure e alla prevenzione.
Perché c’è una parte della mia disabilità che dipende da una Malattia Rara e quella parte non è colpa di nessuno, ci ho fatto i conti da tempo, ma c’è un altro pezzo che sarebbe evitabile e deriva solo dalla totale incapacità di costruire un mondo a misura di tutti e tutte.
Perché siamo resilienti, ma, così come esiste l’accumulo nell’uso dei farmaci, esiste anche l’accumulo nella fatica e nella frustrazione quotidiana. Perché la discriminazione abilista non è fatta solo di fatti violenti o episodi eclatanti. Molto più spesso, infatti, è il frutto di un’attitudine verso il mondo che espelle dalla realtà un pezzo di umanità, senza nemmeno rendersene conto.

In Parlamento abbiamo approvato all’unanimità una Mozione a mia prima firma che parla anche di questo e non c’è dubbio che ancora tanti degli impegni ivi previsti devono essere realizzati [si veda, a tal proposito, su queste stesse pagine, il testo “La Camera ha “scoperto” la discriminazione multipla delle donne con disabilità”, N.d.R.]. Però, non basta e non basterà. Perché questa battaglia sarà vinta solo quando sarà combattuta da tutte e tutti.
Quando troverà spazio nel mainstreaming delle rivendicazioni femministe (possono i #metoo che invadono i social essere anche questo, per favore?), quando le tante Associazioni che meritoriamente si occupano di promuovere la prevenzione al cancro si faranno carico anche di chi alla prevenzione vuole accedere, ma non riesce per colpa del design escludente di un servizio, quando i media cominceranno a raccontare questa quotidianità, con cura e profondità, senza toni spesso da “porno del dolore”, quando le tante influencer che giustamente vogliono diffondere un messaggio di accettazione di sé e del proprio corpo imperfetto sapranno parlare anche a me e di me, a noi e di noi che l’“imperfezione” la viviamo non solo come un limite interiore, ma anche come una barriera fisica che ci impedisce ogni giorno di soddisfare i nostri bisogni e realizzare le nostre aspirazioni.
Sorelle, aprite gli occhi, ci siamo anche noi, donne con disabilità, e abbiamo bisogno di voi. Se non ora quando?

Deputata, avvocata e delegata per l’accessibilità a Milano. Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

fonte: SUPERANDO

Print Friendly, PDF & Email