Sud e aree interne: lo scenario della nuova questione meridionale. di Dora Gambardella, Vincenzo Fortunato

  1. Questione di interdipendenze

L’ambizione di questo numero de La Rivista delle Politiche Sociali è contribuire a mettere nuovamente al centro del dibattito scientifico e politico il Sud come grande e irrisolta questione nazionale.

Si tratta di un nodo problematico che, a partire dall’unità del Paese, accompagna i processi di sviluppo e di modernizzazione dello Stato e che riaffiora per ondate carsiche nel dibattito scientifico, sebbene le condizioni di affanno di un’ampia parte del Paese emergano costantemente dalle analisi di qualsiasi istituzione o ente di ricerca e su qualsivoglia indicatore socio-economico1. Uno degli indicatori che più efficacemente dà conto della storicità della questione è certamente il Pil pro capite. Il rapporto Sud-Nord su questo indicatore è chiarissimo: 52% subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, 56% nel 2019; segno che, fatti salvi pochi periodi di convergenza tra le due aree del Paese (nel 1971 era 61%), le oscillazioni restano molto contenute e il divario si accentua nei periodi di crisi economica (55,6% nel 2008). Qualche segnale positivo si registra nel biennio 2015-2016, quando il Mezzogiorno pare capace di una imprevedibile ripresa dalle crisi del 2007 e 2012 e invertire la tendenza dopo otto anni di recessione (Coco e Lepore, 2018). È in questi anni, per esempio, che la Campania cresce più di ogni altra regione d’Italia (+2,2% nel 2016), che Napoli guadagna il secondo posto – dopo Milano – nella classifica delle imprese «scale-up» (InfocamereUnioncamere, 2017), che le imprese digitali di Campania, Sicilia e Puglia fanno registrare una crescita superiore alle regioni settentrionali (Censis-Confcooperative, 2017), a dimostrazione dell’esistenza di tanti Mezzogiorni d’Italia che vanno osservati con attenzione (Capello, 2016).

Su questi segnali di ripresa impatta pesantemente la crisi economica indotta dalla pandemia Covid; le previsioni per il 2020 collocano il Pil del Mezzogiorno al di sotto del picco minimo del 2014, con una perdita di 18 punti rispetto al 2007, mentre il Centro-Nord di punti ne perderebbe solo 11 (Svimez, 2020). In termini di impatto occupazionale, vuol dire che solo nei primi tre trimestri del 2020 il Sud perde il 4,5% degli occupati, il triplo di quanto perso dal Centro-Nord, posti di lavoro che si sommano a quel mezzo milione già persi dopo il 2007, perché è al Sud che il tessuto produttivo è più fragile e il lavoro più precario, quando non irregolare. A perdere il lavoro sono soprattutto le categorie da sempre più esposte: donne (il secondo trimestre del 2020 fa registrare un -7,3 di occupazione femminile nel Mezzogiorno e -3,9 al CentroNord) e giovani (il tasso di occupazione giovanile nel 2020 scende a 27,1 al Sud, mentre si ferma al 46,3 nel Centro-Nord). Che tutto ciò abbia conseguenze drammatiche sulle condizioni complessive di vita della popolazione residente nelle regioni meridionali del Paese e sul futuro delle nuove generazioni è di facile intuizione: l’indicatore di povertà più «estremo» – l’incidenza della povertà assoluta – nel 2019 è all’8,6% nel Sud e al 5,4% del Centro-Nord2, il divario Nord-Sud sulla percentuale di giovani che abbandonano precocemente gli studi è dell’ordine di 7,6 punti nel 2019 (era 5,3 nel 2011), mentre crescono le migrazioni interne per il lavoro e per la formazione avanzata, e il Mezzogiorno si spopola. Questioni cruciali su cui avremo modo di soffermarci più avanti.

Se si indagano i divari territoriali in una prospettiva più ampia si vede che è l’Italia nel suo complesso a perdere posizioni nel confronto con i Paesi europei e che l’arretramento comincia almeno a partire dagli anni novanta e dunque ha poco a che fare con la crisi Covid: fatto 100 la media europea, il Pil italiano dal 1995 al 2019 passa da 112 a 95, quello della Germania da 119 a 120, quello della Spagna da 82 a 90. Nel trend complessivo di arretramento perdono posizioni le regioni più ricche del Paese e, soprattutto quelle della cosiddetta Terza Italia, le cui performance si avvicinano fortemente alle regioni del Sud del Paese. Insomma una geografia dello sviluppo profondamente mutata in un quarto di secolo, ma contrassegnata da uno squilibrio territoriale persistente.

Parlare di squilibri territoriali significa dunque guardare all’asse Nord-Sud insieme al confronto Italia-Europa, ma anche affrontare il nodo aree interne in rapporto alle aree metropolitane, come recita il titolo di questo numero, e riflettere sulle trasformazioni e sulle potenzialità di «quell’osso» – per usare un’espressione di Manlio Rossi Doria – che attraversa l’intero Paese, da nord a sud, e che rappresenta il 60% della sua superficie e in cui vive circa un quarto della popolazione italiana complessiva. Sono aree ad elevato rischio di spopolamento e di isolamento, con bassi livelli di accesso ai servizi pubblici essenziali e compromesse capacità di sviluppo che dal 2012 sono oggetto della Strategia Nazionale per le Aree Interne, grazie ad una intuizione di Fabrizio Barca.

Insomma, un altro Sud dell’Italia e, per il Mezzogiorno, un Sud nel Sud, in cui i grandi temi demografici acquisiscono una particolare importanza e le necessità di strategie di investimento nell’infrastrutturazione dei territori e nella mobilità interna diventano più urgenti. Questo numero prende forma mentre il Sud torna dopo molti decenni nell’agenda politica, prima con i Patti per il Sud, il decreto Mezzogiorno (2016) e l’istituzione delle ZES (2017), e oggi con il Piano Sud – voluto dal ministro Provenzano – cui si deve il disegno di un programma di misure e investimenti che guarda all’Italia del 2030. Nel frattempo si discute di regionalismo differenziato (Staiano, 2019; Viesti, 2019) e di possibili nuove forme dello Stato e si apre uno scontro di numeri, usati a certificare l’esistenza di un Sud improduttivo e dissipatore o piuttosto per dimostrare il progressivo disinvestimento pubblico nel Mezzogiorno del Paese, e l’uso delle risorse europee in funzione sostitutiva della spesa ordinaria (Ricolfi, 2010; Giannola e al., 2017; Petraglia e al., 2020). È quel «teorema meridionale» (Viesti, 2014) che ha una certa presa nel dibattito politico e nell’opinione pubblica, e persino nella classe degli intellettuali, che assume impossibile una strategia di sviluppo unitario e scarica le responsabilità del mancato sviluppo del Sud sulla cattiva qualità delle sue classi dirigenti3. Se si conviene che i Conti pubblici territoriali siano una fonte di dati attendibile, resta il fatto che la spesa per interventi nazionali nel Mezzogiorno in rapporto al Pil è passata dallo 0,68 degli anni cinquanta allo 0,15 del periodo 2011-2015 e la spesa ordinaria della Pubblica amministrazione dal 10,4 del 2000- 2002 al 6,9 del 2015-2017 (Viesti, 2020).

A uscire da questo dibattito tutto nazionale e a fare chiarezza circa le strategie con cui programmare l’uscita dalla crisi Covid ci pensa l’Europa, condizionando una quota consistente delle risorse del programma Next Generation Eu all’investimento nelle regioni del Mezzogiorno. Si tratta di una quota di risorse … LEGGI TUTTO SU RPS

2 Su quanto i regimi di povertà funzionino al pari di un prisma utile per le analisi comparate si veda Saraceno e al. (2020).

3 Su questa interpretazione, alquanto datata, si veda la posizione espressa recentemente da Carlo Trigilia in merito alla gestione del recovery Plan (https:// www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5459).

 Fonte: RPS La Rivista delle Politiche Sociali

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