Diseguaglianze di salute: l’errore non è (solo) nello strumento. di Simonetta Pagliani

Diversi studi hanno notato come pulsiossimetri o saturimetri, usati per valutare la saturazione di ossigeno, tendano a dare delle sovrastime nelle persone con la pelle scura. Nel corso dell’epidemia di Covid-19, questo “errore” dello strumento ha determinato una possibilità di vedersi prescritto un trattamento specifico del 20% più bassa nelle persone di pelle scura che in quelle di pelle chiara.

I pulsiossimetri o saturimetri sono strumenti che funzionano con il principio della spettrofotometria, sviluppati negli anni ’70 del secolo scorso per il monitoraggio non invasivo di pazienti affetti da malattie respiratorie: calcolano la saturazione arteriosa periferica di ossigeno (SpO2), in base all’assorbimento da parte dell’emoglobina legata e di quella non legata a ossigeno della luce emessa in due lunghezze d’onda (rossa e infrarossa) da due diodi a contatto con la cute del paziente e misurano il flusso pulsatile del sangue arterioso (frequenza dei battiti cardiaci). Viene considerata normale una saturazione d’ossigeno superiore al 95%, ma occorre considerare che il valore di SpO2 che si legge nel display è solo una stima approssimativa del valore reale della saturazione arteriosa d’ossigeno. Per esempio, un valore del 90% equivale a una saturazione reale tra 86 e 94%. Va, quindi, dato più peso prognostico al trend di rilevazioni successive che non alla singola determinazione.

In generale, l’accuratezza dei pulsiossimetri è buona per saturazioni d’ossigeno di 90-100%, intermedia per quelle dell’80-90% e bassa sotto l’80%. In particolare, possono rendere fallace la stima della SpO2 fattori psichici, patologici, iatrogeni o tecnici. In quest’ultima categoria ricade anche il bias etnico, legato al colore della pelle, sul quale, di recente, si sono moltiplicati gli studi: la bibliografia largamente incompleta raccolta da chi scrive include tre studi pubblicati nell’anno in corso (quiqui e qui) che hanno notato, dal confronto con la misurazione effettuata con il prelievo del sangue arterioso, presente nei database di diversi centri ospedalieri statunitensi, come il pulsiossimetro tanto più sovrastima la saturazione di ossigeno quanto più la pelle è scura.

Nei due anni precedenti c’erano già state altre segnalazioni su JAMA e sul New England Journal of Medicine. Accorpando tutti i dati, emerge che nei soggetti di pelle più scura il pulsiossimetro dà una sovrastima sistematica della SpO2 che supera il punto percentuale e che si traduce in un rischio aumentato fino a 3 volte di ipossiemia occulta e, pertanto, non curata. Nel corso dell’epidemia di Covid-19, questo “errore” dello strumento ha determinato una possibilità di vedersi prescritto un trattamento specifico del 20% più bassa nelle persone di pelle scura che in quelle di pelle chiara: l’indicazione al ricovero in ospedale, all’ossigenoterapia o alla concessione di farmaci sperimentali (come remdesivir o desametasone) è stata il più delle volte fatta sulla base di un’ossimetria ≤94% rilevata con il dispositivo. Il comportamento falsato del saturimetro nei gruppi etnici non bianchi potrebbe, dunque, spiegare almeno in parte il loro eccesso di mortalità da infezione con SARS-CoV-2, che è stato rilevato negli USA e anche in Gran Bretagna, da molti studi ben condotti (per esempio quiqui e qui).

L’inaffidabilità della saturazione di ossigeno stimata dal pulsiossimetro nei soggetti di pelle scura, specie ai livelli borderline, non è, peraltro, una scoperta legata a Covid-19: era già stata verificata nel 2005 da uno studio sulla rivista Anesthesiology e di nuovo ribadita nel 2007. Conoscere la criticità non ha, però, significato recepirla e tenerla in conto, a dispetto del fatto che l’FDA abbia raccomandato ai produttori di pulsiossimetri di presentare studi pre-autorizzazione rappresentativi dal punto di vista demografico, nei quali, cioè, comparissero persone di ogni gradazione di pigmentazione cutanea e che dichiari un programma di valutazione post marketing dell’accuratezza degli apparecchi relativa alle diverse etnie.

La sottovalutazione razziale (razzista?) del bisogno di ossigeno riveste l’interesse dell’attualità, ma è solo una delle tante dimostrazioni di quella disuguaglianza sanitaria che non troverà soluzioni nella scienza e nella clinica, per quanto avanzate, fino a che non ne avrà trovate nella società, ossia nella politica. È, per esempio, futile appellarsi alle linee guida per una dieta adeguata a prevenire malattie metaboliche, cardiache e oncologiche (sì ai vegetali, no ai cibi processati e agli zuccheri) trascurando i motivi per cui vengono disattese dalla parte della popolazione più marginalizzata, impoverita e meno scolarizzata. Dove la letteratura medica difetta, invece, è proprio nelle informazioni socioeconomiche ed etniche sui soggetti arruolati nelle ricerche.

Non è, tuttavia, solo una questione di censo o di scolarità: nel 2002, l’innovativo rapporto Unequal treatment. Confronting racial and ethnic disparities in health care, curato da una divisione della National Academy of Sciences, ha rivelato che, a parità di stato economico e assicurativo, le persone di colore hanno un accesso molto minore delle persone bianche alla dialisi, ai by-pass coronarici e ai trapianti e molte più amputazioni di arti per diabete e tagli cesarei, in una misura di disparità che ha sorpreso gli stessi estensori del rapporto. In un articolo di approfondimento appena pubblicato dal New York Times, Jessica Grose ha declinato questo stesso tema riguardo alla mortalità materno-infantile negli Stati Uniti. Gli USA sono tra i 13 posti al mondo dove la mortalità conseguente a gravidanza o a parto è oggi più alta di 25 anni fa; le donne nere hanno 3-4 volte più probabilità di arricchire questa statistica di quelle bianche, i bambini neri sono più spesso prematuri o di basso peso alla nascita e hanno una mortalità più che doppia di quelli bianchi (11,3 ‰ vs 4,9‰; in Italia nel 2017 era 2,75 ‰) con una disparità che è oggi più ampia di quella del 1850, 15 anni prima dell’abrogazione della schiavitù. Nel XXI secolo, una donna nera laureata ha più probabilità di perdere il suo bambino di una bianca che ha finito solo le medie e ha un significato che va oltre l’aneddotica che una star dello sport come Serena Williams abbia dovuto penare prima di farsi diagnosticare un’embolia polmonare dopo il cesareo.

La spiegazione di questa realtà controintuitiva è stata tentata già vent’anni or sono da Arline Geronimus, una docente dell’University of Michigan, School of Public Health, che per prima collegò la mortalità materno-infantile allo stress determinato dalla doppia discriminazione razziale e di genere cui la donna nera non può sottrarsi, varando la teoria cosiddetta degli “agenti atmosferici” (weathering): l’atmosfera pervasa di razzismo sociale (che comprende la sottovalutazione dei sintomi e il mancato accesso all’assistenza sanitaria) può portare, in una gravida, a sviluppare ipertensione e questa, se non riconosciuta e curata, a pre-eclampsia, con tutte le conseguenze del caso. Come scrive Linda Villarosa, che insegna giornalismo al City College of New York a Harlem, finché non verrà ammesso e combattuto, il fardello nascosto del razzismo graverà sulle vite e sulla salute degli americani.

fonte: Scienza in Rete

Crediti immagine: Mufid Majnun/Unsplash

 

Simonetta Pagliani, medico di medicina generale dal 1981, è nata a Milano, dove ha studiato al liceo classico Berchet e poi all’Università Statale. È impegnata della didattica e nella formazione in medicina e collabora da molti anni con l’Agenzia editoriale e giornalistica Zadig.

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