Le voci di chi cura. di Patrizia Danieli

Chi sono le lavoratrici impegnate nella cura nel nostro paese? Quali stereotipi attorno alla loro presenza? Come vivono il lavoro e le relazioni con chi accudiscono e con chi resta?

Secondo i dati INPS, nel 2021, la maggior parte delle persone impiegate nel lavoro domestico in Italia sono donne (84%). Il 47% del totale svolge la professione di badante, dato che ha visto un incremento rispetto al 2020 (+1,2 %). I principali luoghi di provenienza delle lavoratrici della cura sono l’Europa dell’Est (344.466), a seguire l’Italia (288.749) e il Sud America (72.254). La maggior parte operano nel Nord Est e Nord Ovest, (51%) e nel Centro Italia con una percentuale del 26,8%. L’età media è tra i 45 e i 60 anni.
Si è deciso in questo testo di analizzare il tema del lavoro di cura a partire principalmente da due volumi. Il primo è Il paese delle badanti, di Francesco Vietti (Meltemi, 2019) edito per la prima volta nel 2009 e nuovamente nel 2019, che affronta il tema delle migrazioni economiche, sottolineando come a fronte di dati statistici in aumento, le ricerche qualitative recenti sul variegato mondo del lavoro di cura non siano numerose. Nel libro, l’indagine etnografica si realizza proprio mappando la vita delle lavoratrici della cura nei loro molteplici aspetti, considerando non solo il paese di approdo (l’Italia) ma anche il paese di partenza (la Moldavia), osservando il contesto di origine e inserendo il fenomeno non in modo a sé stante ma come una componente di più ampie trasformazioni politiche, sociali economiche e culturali. Il secondo è il volume di Simonetta Grilli, Antropologia delle famiglie contemporanee, che pone l’accento sulla pluralizzazione dei legami e delle soggettività parentali e sottolinea come “la sfera domestica, ambito per eccellenza dell’intimità, è stata direttamente coinvolta in un processo di mercificazione: i servizi domestici e di cura possono essere comprati e venduti su scala globale e rivelano il loro stretto collegamento con i fenomeni di dispersione geografica delle relazioni sociali innescate dalla mobilità generalizzata” (pag. 133).
La parola badante è registrata dall’accademia della crusca come “parola nuova” nel 2002. Si riferisce a persone, in particolare immigrate, che si occupano di disabili o anziani/e. Lo stesso termine “badante”, sottolinea Grilli, resiste nel tempo, nonostante l’azione di badare significhi “sorvegliare”, come se la prestazione lavorativa fosse derubricata alla semplice sorveglianza: si oscura la dimensione complessiva del “prendersi cura” (Grilli, p. 135). Può forse questo aspetto soddisfare l’immagine della mercificazione del lavoro, che, in modo impersonale, oscura la narrazione delle storie di vita.
Uno dei cuori di questi volumi sono le “narrazioni invisibili”. Voci di persone che non appaiono nello spazio pubblico e appartengono a chi è posizionato ai margini di un sistema sociale. Spesso sono voci di donne, in questo caso, migranti. Nelle “società globali”, scrive Saskia Sassen, (ibid), si è assistito al “ritorno di una classe di servitori (cameriere, addetti alle pulizie, lavoratrici della cura, tate ecc) in larga parte costituita da donne migranti”.
bell hooks ci insegna che il punto di vista di chi sta ai margini è privilegiato poiché produce uno sguardo sul potere. Anche Barbara Mapelli parla di questa posizione definendola “sulla soglia”. Dagli anni settanta del secolo scorso, la letteratura femminista ha sottolineato l’importanza di guardare dalle periferie, al punto di far emergere la vita come soggetto politico. La letteratura antropologica in particolare, lavora proprio attraverso le testimonianze di chi ha poca voce nello spazio pubblico, che è poi, spazio di visibilità, di potere: spazio in cui (per avere consenso sociale, potere politico) si costruiscono immagini, idee sui gruppi sociali, stereotipi e pregiudizi.

Un’immagine di femminilità “all’antica”

Un primo stereotipo è l’idea che le badanti straniere incarnino un modello di femminilità “all’antica” che le rende naturalmente disponibili a svolgere quel ruolo di cura che, invece, non è più parte dell’obbligo parentale delle donne occidentali” come accadeva tradizionalmente (Grilli, p. 143).

A questa immagine si contrappone un altro stereotipo: quello di una donna scaltra, intraprendente e senza scrupoli, portatrice di una “disponibilità sessuale” che alimenta un immaginario maschile che le tratta con un misto di attrazione e sospetto (p.156). Quest’ultimo aspetto, sottolinea Grilli, ha visto poi una “vigilanza istituzionale” sui matrimoni misti, al fine di scongiurare l’uso strumentale del vincolo coniugale, soprattutto da parte di donne straniere, come strategia di interesse economico oltre che di inserimento nel contesto italiano (Legge 24 luglio 2008, n.125). A ben vedere, queste immagini richiamano proprio la condizione di isolamento e fragilità sociale in cui queste donne, di fatto, si trovano (pag. 157).

Contronarrazioni

Le testimonianze “dalle periferie” si configurano come contronarrazioni e ci costringono a collocarci, a pensarci e (forse) a ripensare alla nostra posizione in una società che stabilisce dei privilegi sulla base del luogo geografico e del contesto sociale in cui le persone nascono.

Diritto alla testimonianza è riconoscere agentività 1, dunque co-costruzione del sapere. Affrontare il punto di vista dell’altro/a obbliga a ripensare il proprio, presuppone la rinuncia a un sapere egemonico e costringe a riconoscere la parzialità della conoscenza, che possiamo considerare oggettiva solo se si ha la consapevolezza di quanto sia situata, incarnata, frutto della nostra esperienza, del particolare contesto in cui siamo cresciuti, cresciute e in cui viviamo.

Le migranti sono poco presenti negli studi femministi e poche donne sono presenti negli studi sulle migrazioni. Ma la femminilizzazione dei flussi migratori è una realtà sempre più evidente in Italia, dove le carenze del welfare e la privatizzazione del sistema di cura sono andate crescendo con l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro. Ciò che nessun uomo e nessun apparato politico ha fatto, dunque, è compensare il lavoro di cura tradizionalmente svolto dalle donne “della famiglia”.

Il nostro paese ha un tasso di occupazione del 57% delle donne con figli piccoli o parenti non autosufficienti, a fronte dell’89,3% degli uomini. Quando le donne lavorano fuori casa, a supportare il lavoro di una classe medio alta di professioniste ci sono altre donne, una “nuova classe di servitori”, appunto, o meglio forse più di servitrici dove però, servirsene, non è più connotazione di appartenenza a un ceto abbiente, come accadeva nel passato.

Vietti fotografa la situazione italiana e rileva che le badanti in Italia, sono aumentate del 40% negli ultimi dieci anni: sono istruite, spesso più istruite dei loro datori o datrici di lavoroLa perdita del lavoro nella terra di origine, la deindustrializzazione e la crisi economica dovuta al crollo del regime sovietico hanno prodotto, negli anni, una dimensione strutturale dell’immigrazione nel nostro paese.

Il fallimento, la chiusura delle fabbriche o nel migliore dei casi il ridimensionamento, sono le prime cause che spingono le persone a partire. Si tratta della disgregazione di un intero modo, con i suoi sistemi di significato, i suoi valori, con i progetti e le identità di chi, a quel mondo apparteneva. Ripensare alla propria identità professionale, al proprio posizionamento sociale è la prima frattura di chi intraprende il viaggio che significa allontanamento dalla propria rete famigliare e sociale. Insegnanti, infermiere, infermieri, dottori e dottore, docenti, ingegneri e ingegnere, non perdono il lavoro ma subiscono una tale contrazione di valore del salario da poter essere considerati/e, di fatto, dei disoccupati e delle disoccupate (pag. 106).

L’immigrazione si è costituita cosi come l’unica via per immaginarsi un futuro. Vietti raccoglie testimonianze diverse ma alcune accompagnano tutto il libro, permettendo a chi legge di seguire, nel tempo, racconti, punti di vista, immagini di sé, riflessioni, domande di senso portate dalle lavoratrici e da alcuni lavoratori immigrati.

“Mi raccontano del loro passato, talvolta con una certa crudeltà ma sempre con sincerità, come se, con spirito paterno volessero aiutarmi a capire il senso della vita. Sono una buona ascoltatrice ma talvolta sono assente, perché mentre li ascolto la mia mente mi porta lontano, là, dove sono nata e cresciuta, dove vivono i miei genitori e i miei bambini”.

“Chi di noi, pensava un giorno di cambiare la propria professione e di diventare una badante?”

(Nadia, maestra. 39 anni)

“Avevo lavorato 20 anni come ingegnere, avevo studiato per essere ingegnere tutta la vita e invece da un giorno all’altro mi dissero che non c’era più bisogno di me. Quello che contava ora, mi dissero, era fare biznes, essere capaci di fare soldi in qualche modo e di farli in fretta. Ma io non ero come i giovani di oggi, io avevo un’altra mentalità e poi avevo moglie e figli piccoli”.

(Mircea, amico di Nadia, pag.108)

Ci sono persone che non riescono a cambiare un progetto di vita coltivato in anni di lavoro e di vita sociale. Il lavoro è inoltre associato a un’idea di mascolinità basata sull’indipendenza economica, sul potere e lo status che si riversa anche all’interno di ogni singola famiglia. Gli uomini, ora dipendenti economicamente dalle mogli, si trovano ad affrontare una difficile ricostruzione della propria idea di mascolinità, dedicandosi a lavori un tempo disprezzati (pag. 188). Alcuni seguono le mogli, altri, privati dai tradizionali spazi lavorativi non riescono a far fronte al fallimento economico ma anche sociale e psicologico, identitario. Oltre che una connotazione di genere, vi è una connotazione di tipo intergenerazionale. Le testimonianze raccontano di suocere che rimproverano alle giovani di lasciare i figli e le figlie.

“Mia suocera non capisce e non apprezza tutta la fatica che faccio in Italia per guadagnare i soldi per la mia famiglia. Pensa male di me perché sto lontana dal marito e dai figli. Lei non capisce che sto in Italia proprio per loro” (Vietti, p. 196). Il confronto è su cosa significhi essere una “brava madre”. In realtà, l’immagine di una identità femminile basata sul sacrificio della presenza nella generazione passata si ripete con lo stesso spirito di abnegazione nelle nuove generazioni di donne. Un sacrificio che questa volta è basato sull’assenza.

Il prezzo di una performance affettiva

Il settore della cura è diventato un vero e proprio mercato e come tale, è soggetto alle sue leggi, come sottolinea Grilli (pag. 144). “La badante è qui per soldi, ma deve far finta di essere qui per amore”. Grilli scrive che le varie cooperative di servizi, impegnante nella formazione professionale di queste lavoratrici ma anche le associazioni e gli sportelli dei sindacati, assolvono il compito di trasformare una persona in una badante, sostenendo così la costruzione di una performance affettiva.

Ecco alcune testimonianze:

“Tutta la mia vita è lavoro, quando non lavoro sento il vuoto grandissimo che mi distrugge”.

(Vietti, pag.33)

Vietti sottolinea che l’esasperazione per il continuo contatto con la malattia e la sofferenza reale o presunte dei “nonni” è uno dei temi più ricorrenti” nelle interviste, in cui le donne parlano della “sensazione di essere come un uccello in gabbia” (p.35). Alcune condividono la stanza, a volte dormono nel letto con gli anziani che accudiscono. Altrepiù fortunate, hanno una stanza all’interno della casa in cui lavorano, ma non possono accogliervi amici, parenti: “Quando suo figlio è venuto a trovarla per la prima volta dalla Romania non lo ha potuto ospitare neppure per pochi giorni, perché il suo datore di lavoro le ha fatto capire che non avrebbe gradito la presenza del ragazzo in casa sua” (Grilli pag. 147).

Poche ore libere durante il giorno: poco tempo libero da dedicare a sé, alle proprie frequentazioni. Si tratta di un azzeramento tra i tempi di vita e tempi di lavoro, di una forma di alienazione del soggetto, la cui vita personale è messa a disposizione di un’altra persona. Lunghe telefonate con i familiari lontani. Ma la lontananza può affievolire i rapporti. Il ruolo lavorativo è sostenuto dalle cooperative e dalle agenzie di formazione che formano persone che dovranno impersonare un ruolo di “quasi parentela”. La retorica parentale (le stesse lavoratrici chiamano “nonni” i propri datori di lavoro) è un espediente efficace volto a ridurre la distanza, naturalizzare la dipendenza. Nei media italiani sono comparsi diversi articoli che segnalano l’aumento di una forma di disagio psichico, una condizione di depressione e spaesamento, denominata, fin dal 2005 da due psichiatri ucraini “sindrome italiana” che colpisce sia le donne che i loro figli rimasti a casa 2. (Grilli, p. 151)

Eppure, la prestazione lavorativa è valutata a volte proprio in base a ciò a cui le donne riescono a rinunciare. Certo, quando a emigrare sono gli uomini nessuno pare preoccuparsi della cura. Chi cura i figli e le figlie di uomini lontani?

Badante full time italiana cercasi a Londra

Il flusso di migrazione della cura proveniente dall’Europa dell’Est potrebbe diminuire qualora migliorassero le condizioni economiche dei paesi di provenienza. L’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (IOM 2010) indica, per i prossimi decenni cambiamenti epocali nei flussi globali dei e delle migranti. In particolare, la Cina vedrà diminuire la sua popolazione in età lavorativa e allo stesso tempo, centinaia di milioni di cinesi diventeranno anziani (p. 215). Quali bacini di reclutamento di manodopera (femminile?!) si apriranno allora? Immaginate che, fra dieci o venti anni siate voi o le vostre figlie o sorelle a emigrare, per andare a lavorare come badanti presso una famiglia cinese di Shanghai. Vietti scrive: “Se la prospettiva vi sembra inverosimile, chiedete a una lavoratrice sovietica cosa avrebbe pensato negli anni ottanta se, dopo una laurea e un lavoro, ad esempio come insegnante, le avessero detto che per tutta la sua vita avrebbe accudito, lontano da casa, un anziano non autosufficiente”. La privatizzazione della cura e la mercificazione dei vari aspetti della vita, non può non interrogarci. La legittimazione dei rapporti di dipendenza rende ognuno di noi vittima di un sistema che non ha a cuore il benessere delle persone indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla provenienza geografica.  Considerare il racconto altrui aiuta ad essere più consapevoli. Si tratta di una pratica di resistenza e di esercizio del pensiero critico. Un approccio metodologico da esercitare nei confronti di narrazioni egemoniche. La conoscenza è invece parziale per natura ed esserne consapevoli ci può rendere liberi e libere di risignificare le nostre storie, le nostre relazioni, le nostre vite come quelle di chi ci vive accanto. Così è la cura: una dimensione che ci riguarda da vicino poiché attraversa da sempre tutti i tempi della nostra vita.

1 L’agentività (Agency) è un concetto sociologico, definito come la capacità degli individui di agire in modo autonomo e di prendere decisioni proprie in particolari situazioni. Le strutture del sistema sociale (posizione sociale, contesto) invece possono limitare la capacità di agire delle persone partendo dal campo di pensabilità di ogni singolo individuo, ossia la capacità di ritenere possibile l’essere protagonisti di un cambiamento che coinvolga l’ambiente ma anche la sfera professionale e personale

2 Per approfondimenti, Sindrome Italia, Tiziana Francesca Vaccaro, Becco giallo, 2021

Bibliografia

Simonetta Grilli, Antropologia delle famiglie contemporanee, Carricci,2020

bell hooks, Insegnare a trasgredire, Meltemi, 2020

Barbara Mapelli, L’eterosessualità impensata, iacobellieditore, 2022

Barbara Pinelli, Migranti e rifugiate, Cortina, 2019

Francesco Vietti, Il paese delle badanti, Meltemi, 2019

Patrizia Danieli è autrice di “Che genere di stereotipi? Pedagogia di genere a scuola. Per una cultura della parità” Ledizioni 2020; è pedagogista e insegnante di scuola primaria. Da anni si occupa di formazione per insegnanti e realizza laboratori di educazione teatrale volti alla parità per bambini e bambine. Appassionata di studi femministi e di genere, è laureanda in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università Bicocca di Milano.

fonte: Forum DD

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