Scienza, politica e società di fronte alla chimica verde. di Marco Taddia

Il chimico Marco Taddia ci parla di Research Between Science, Society And Politics. The History and Scientific Development of Green Chemistry, un libro sulla storia e lo sviluppo della green chemistry o chimica verde, una branca della chimica sempre più importante per l’industria e la politica.

 

Correva l’anno 2003, quindi è passato un bel po’ di tempo da quando il chimico organico Paul Anastas (Quincy, 1962), allora all’Università di Nottingham e oggi a Yale, dalle pagine della rivista Green Chemistry, fondata nel 1999, sollecitava la società a spostarsi da un progetto di traiettoria insostenibile a uno sostenibile, impegnando in tal senso scienza e tecnologia con l’apporto fondamentale della green chemistry. Secondo la IUPAC (Internation Union Pure Applied Chemistry), per green chemistry (in italiano detta chimica verde o anche chimica sostenibile) s’intende “l’invenzione, la progettazione e l’uso di prodotti chimici e processi per ridurre o eliminare l’uso e la produzione di sostanze pericolose”. Si tratta quindi di una branca della chimica che mira a raggiungere la massima efficienza con il minimo spreco ambientale ed economico, evitando le sostanze pericolose e ponendosi in un’ottica di economia circolare; svariati sono i campi di applicazione, dalla creazione di bioplastiche con prodotti di scarto (per esempio alimentari) alla produzione di energia rinnovabile ed ecosostenibile (compreso l’idrogeno).

Della green chemistry, Anastas è considerato oggi il padre a tutti gli effetti e lo è meritatamente. Le sfide poste dallo spostamento che auspicava nel 2003 non sono finite, perché politica ed economia pretendono la loro parte, come dimostrano tuttora le discussioni in corso a livello parlamentare italiano ed europeo. Tuttavia, oggi che si parla di Green New Deal Europeo, quale ponte verso la bioeconomia, la chimica verde è più che mai al centro dell’attenzione delle industrie del settore, degli accademici italiani e del legislatore.

Anche per questo un nuovo libro che ne parla per i non specialisti è il benvenuto. Si tratta di Research Between Science, Society And Politics. The History and Scientific Development of Green Chemistry, di Johan Alfredo Linthorst (Eburon Academic Publishers, Utrecht, 2023). È un libro denso di informazioni, come si addice alla tesi di dottorato che l’autore ha discusso come candidato esterno all’Università di Maastricht il 13 febbraio scorso e fatto pubblicare senza modifiche. Il titolo propone un argomento di ordine generale, mentre il contenuto, come è giusto che sia, riguarda un caso specifico, ossia la storia e lo sviluppo della green chemistry di cui Linthorst si era già occupato in precedenza (Foundations of Chemistry, An overview: origins and development of green chemistry, 2010).

L’idea risale all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, quando si cominciò a parlare concretamente di accettabilità dal punto di vista ambientale dei processi produttivi e relativa verifica. A livello internazionale un ruolo di primo piano fu assunto dagli Stati Uniti con l’U.S. Presidential Green Chemistry Challenge Award, istituito nel 1995, e con la fondazione del Green Chemistry Institute (1997). Tra le nazioni più attive nel promuovere le prime iniziative anche a livello governativo, troviamo anche l’Italia che, ricordiamolo, vide l’istituzione nel 1993 del Consorzio Interuniversitario “La Chimica per l’Ambiente” (INCA) e l’organizzazione a Venezia del meeting Processi Chimici Innovativi e Tutela dell’Ambiente. Il termine green chemistry, non immune da qualche ambiguità, viene ancora usato nella nostra lingua ma la traduzione letterale “chimica verde” è ormai prevalente nelle riviste italiane a carattere tecnico-scientifico e l’organo ufficiale della Società Chimica Italiana , che gli ha dedicato un intero fascicolo all’inizio dell’anno scorso, ce lo conferma.

Tornando al libro di Linthorst, diciamo subito che la trattazione è circoscritta a ciò che è avvenuto in tre nazioni, ossia Stati Uniti, Regno Unito e Olanda, sia dal punto di vista scientifico interno che da quello socio-culturale. Dopo un capitolo introduttivo che ci mostra come si è fatta strada la green chemistry e i tre dedicati alle suddette nazioni, i rimanenti due si occupano rispettivamente dell’origine intellettuale del concetto e relative divergenze interpretative, per finire con quello dedicato alla discussione e conclusioni.

Lo schema corrisponde a quello di una tesi ma, prima di farne un libro, forse si poteva riordinare e integrarlo con una breve panoramica su ciò che è avvenuto altrove. Perché, per esempio, non cercare fra i membri EuChemS qualche nazione pioniera della conversione green, vista l’appartenenza delle Società Chimiche di UK e Paesi Bassi a tale gruppo? Come vedremo, tale lacuna nulla toglie a uno sforzo ammirevole, tenendo conto che dal 2003 Linthorst, studente lavoratore, ha insegnato chimica a livello pre-universitario sia in Olanda che a Curaçao, mentre ora è a Meppel. Tra le motivazioni che lo hanno spinto a impegnarsi nella ricerca, iniziata nel 2005 e che lo costringeva a spostarsi spesso tra le due sponde dell’Atlantico, nasceva dal fatto che la chimica verde è tuttora oggetto di alcune dispute. Il suo significato per i cittadini, le attese e le realizzazioni concrete, non sono sempre apparsi del tutto chiari, come è successo anche a Porto Torres. Un altro motivo è che, secondo lui, gli storici della chimica professionisti, tranne poche eccezioni, sono stati abbastanza restii a occuparsi di chimica ambientale fin dall’emergere di tale disciplina.

Detto ciò, senza entrare nei dettagli, l’emergere della chimica verde pare sia stata una reazione alla diffidenza e ai timori che la semplice evocazione dell’aggettivo “chimico”, quasi sinonimo di “tossico”, suscitava in passato tra i cittadini e i consumatori. L’adozione da parte di accademici e industriali di un termine che gli anglosassoni, così come succede per “nanotecnologie” e “sostenibilità” definiscono umbrella e che, nel caso della chimica verde si spiega da solo, meriterebbe un prolungamento della discussione, così come i dodici principi che ne definiscono l’etica: 

  1. Prevenzione: è meglio prevenire la produzione dei rifiuti che trattarli o ripulirli dopo che sono stati creati.
  2. Economia dell’atomo: i metodi di sintesi devono essere progettati per massimizzare l’incorporazione di tutti i materiali utilizzati nel processo nel prodotto finale.
  3. Sintesi chimiche meno pericolose: ove possibile, i metodi di sintesi devono essere progettati per utilizzare e generare sostanze con una tossicità minima o nulla per la salute umana e l’ambiente.
  4. Progettazione di prodotti chimici più sicuri: i prodotti chimici devono essere progettati per svolgere la funzione desiderata riducendo al minimo la loro tossicità.
  5. Solventi e ausiliari più sicuri: l’uso di sostanze ausiliarie (per esempio solventi, agenti di separazione ecc.) deve essere reso superfluo ove possibile, e innocuo quando sono utilizzate.
  6. Progettazione per l’efficienza energetica: i requisiti energetici dei processi chimici devono essere riconosciuti per il loro impatto ambientale ed economico e devono essere ridotti al minimo. Se possibile, i metodi di sintesi dovrebbero essere condotti a temperatura e pressione ambiente.
  7. Uso di materie prime rinnovabili: ogni volta che sia tecnicamente ed economicamente possibile, le materie prime devono essere rinnovabili anziché esauribili.
  8. Riduzione dei derivati: la derivatizzazione non necessaria (uso di gruppi bloccanti, protezione/deprotezione, modifica temporanea dei processi fisici/chimici) deve essere ridotta al minimo o evitata se possibile, perché queste fasi richiedono reagenti aggiuntivi e possono generare rifiuti.
  9. Catalisi: i reagenti catalitici (il più possibile selettivi) sono superiori ai reagenti stechiometrici.
  10. Progettazione per la degradazione: i prodotti chimici devono essere progettati in modo che, al termine della loro funzione, si decompongano in prodotti di degradazione innocui e non persistano nell’ambiente.
  11. Analisi in tempo reale per la prevenzione dell’inquinamento: le metodologie analitiche devono essere ulteriormente sviluppate per consentire il monitoraggio e il controllo in tempo reale, all’interno del processo, prima della formazione di sostanze pericolose.
  12. Chimica intrinsecamente più sicura per la prevenzione degli incidenti: le sostanze e la forma di una sostanza utilizzata in un processo chimico devono essere scelte per ridurre al minimo il potenziale di incidenti chimici, tra cui rilasci, esplosioni e incendi.

Ma per ora ci fermiamo qui.

fonte: Scienza in Rete

 

Marco Taddia: Già Professore di Chimica Analitica presso l’Università di Bologna, ha svolto attività di ricerca presso il Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician”. Si è occupato principalmente di analisi elettrochimica e spettroscopica di materiali industriali. Studioso di Storia della Chimica ha curato, insieme a Marco Ciardi, la prima versione italiana degli Opuscules di Lavoisier. Presiede il Gruppo Nazionale di Fondamenti e Storia della Chimica dal 2014 e rappresenta la Società Chimica Italiana nel Working Party of History of Chemistry EuCheMS.

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