Chi si prende cura di coloro che curano? di Silvia Torresin, Francesca Simi, Lisa Di Mascolo, Paolo Leoncini

Il racconto di un’esperienza in gruppo di intervisione, di operatori sanitari volontari che operano in ambulatori per persone senza fissa dimora, a TorinoL’intervisione psicologica è intesa come una discussione in gruppo, con l’obiettivo del mutuo scambio tra gli operatori della salute, al fine di affrontare i nodi problematici della terapia nel contesto dell’intervento, soprattutto dal punto di vista relazionale.

Nel 2015 a Torino, grazie alla collaborazione con il “Centro di Accoglienza Vincenziana per e con Persone senza dimora” e all’esperienza maturata nelle baraccopoli a Nairobi, l’associazione World Friends, da sempre impegnata nel promuovere un miglioramento della salute nelle periferie, avvia uno sportello sanitario destinato agli “invisibili”, persone senza dimora o in condizioni abitative precarie, nuovi poveri, migranti. L’obiettivo dell’iniziativa è prendersi cura degli assistiti che troppo spesso non si rivolgono ai normali canali di cura per ragioni burocratiche, sociali o economiche, attraverso una gestione immediata dei problemi di salute “acuti”, cercando parallelamente di accompagnarli in un percorso di avvicinamento (o riavvicinamento) al Servizio sanitario nazionale. A settembre 2017 inizia la collaborazione con il Comitato Collaborazione Medica (ora Amref Health Africa Italia) che permette di implementare un modello operativo di riferimento replicabile in altri contesti.

Su questa linea si aprono altri sportelli, alcuni operanti ancora oggi, accomunati dalle medesime modalità di lavoro: il centro Diurno “Il balsamo di Filomena” di Caritas in via Cappel Verde, il centro “Servizi Vincenziani per Senza Fissa Dimora OdV” in Via Saccarelli, il Drop In del Gruppo Abele in Via Pacini, il miniambulatorio dello spazio occupato Neruda in Corso Cirié. Gli sportelli si rivolgono a soggetti fragili. Persone che vivono situazioni di disagio legate a multipli problemi esistenziali, multiple mancanze. La mancanza di casa, lavoro, denaro, strutture familiari di supporto, spesso si sommano a disagio psichico, abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti; queste persone si isolano dal resto della società, da cui si sentono respinte e della quale dunque diffidano. Per gli stranieri a questo si sommano le difficoltà linguistiche, le differenze culturali e le difficoltà legali e burocratiche che ancor più contribuiscono all’isolamento. I bisogni sanitari di queste persone possono essere affrontati solo inserendo le azioni di diagnosi e cura in un più ampio miglioramento della loro condizione di vita.  Insieme alle attività di assistenza e cura vengono avviate esperienze di educazione sanitaria e percorsi di formazione per educatori alla pari per favorire l’empowerment degli utenti dei servizi.

Si è organizzato, per un periodo di tempo di circa un anno, un gruppo di intervisione, a conduzione psicologica e a cadenza mensile, con i volontari, in gran parte sanitari, attivi nel progetto, per supportarli nel loro lavoro di cura. L’intervisione psicologica è intesa come una discussione in gruppo, con l’obiettivo del mutuo scambio tra gli operatori della salute, al fine di affrontare i nodi problematici della terapia nel contesto dell’intervento, soprattutto dal punto di vista relazionale. Si propone di aiutare a condividere com’è stato affrontato un medesimo problema di salute, a elaborare positivamente esperienze relazionalmente intense, ma anche di sostenere e rafforzare uno specifico strumento di qualità del lavoro e di reciproco supporto, che è il gruppo stesso. Un gruppo che insomma cerca di rispondere alla domanda “chi si prende cura di coloro che curano?”: condividere i vissuti professionali migliora l’efficacia dell’intervento e la comunicazione, aiuta ad evitare sovraccarichi emozionali e a sostenere collettivamente la fatica che oggi comporta la cura nel sociale. La possibilità di una condivisione empatica tra curanti rafforza il gruppo come strumento di intervento e sostiene la salute delle persone in cura e degli stessi curanti. Il gruppo era composto da diversi medici che operano come volontari negli ambulatori in cui è stato attivato l’intervento, una volontaria che opera nell’accoglienza, altri operatori sociali che operano in diverse strutture del territorio e la coordinatrice del progetto “No1Behind”.

Il primo incontro è stato dedicato alla messa in comune di problematiche vissute dai volontari. Spesso le persone senza dimora si rivolgono agli ambulatori esplicitando bisogni piuttosto diffusi, che sottendono solo implicitamente un vero problema sanitario, o con l’esplicita richiesta di farmaci ad uso immediato. Nell’intervento sanitario con persone che hanno storie di vita segnate da precarietà, marginalità sociale e compresenza di diversi tipi di patologie, sono importanti le dimensioni relazionali dell’incontro terapeutico. Intervenire in progettualità incostanti e frammentate, può generare sentimenti di frustrazione e così, inconsapevolmente, il curante può correre il rischio di perdere o diminuire l’atteggiamento accogliente. A volte il paziente interrompe il trattamento e lascia il curante senza una spiegazione, sfuggendo dalla relazione di cura, preferendo curarsi in diversi luoghi, con persone diverse. La reazione del curante può essere di delusione e irrigidimento. Sono questi aspetti relazionali che vanno compresi, esplorati e governati. In alcuni casi le necessità contingenti, ma più urgenti, di rispondere ad esempio ad una chiamata di lavoro estemporanea, in nero e sottopagata, prevale sul bisogno di salute, che viene rinviato. Cercare di creare strade semplificate per accedere alle prestazioni sanitarie in ambito pubblico, utilizzando la collaborazione di colleghi disponibili, richiede altrettanta disponibilità nell’attendere il ‘momento giusto’, in cui non ci siano da risolvere altri bisogni (alimentare, lavorativo, di domicilio), che diventano prioritari.

Riguardo alle ripercussioni sul volontario a seguito dell’allontanamento del paziente sono state raccolte e documentate diverse esperienze. È difficile che i legami fra sanitario e utente proseguano per un tempo illimitato. Le migrazioni sul territorio cittadino o gli spostamenti in altre città o regioni o stati, alla ricerca di soluzioni ai propri bisogni primari, fanno sì che i rapporti si interrompano. Per coloro che rimangono in ambito cittadino, spesso si viene a sapere del ricorso ad altre associazioni di volontariato, con cui anche si collabora, per esempio, per la disponibilità di servizi sanitari specialistici. In alcuni casi rimane comunque difficile valutare l’efficacia della propria azione. Nel gruppo è stata dedicata attenzione, oltre che all’alleanza con il paziente, alla necessaria alleanza tra l’operatore sanitario volontario e l’organizzazione all’interno della quale interviene. Vi è stato un richiamo a coinvolgere nuovi volontari, in particolare fra i medici giovani.

Nell’ultimo incontro prima dell’estate si è discusso dell’esito talvolta fallimentare di tanti percorsi migratori che sottendono le scelte di persone senza dimora. Vi è un numero elevato di persone migranti con percorsi di vita complessi, che hanno visto perdere i propri diritti alla cittadinanza. Spesso si vede la paura o il sospetto nell’incontro con le organizzazioni/istituzioni sanitarie in chi non è in possesso di documenti. Dato che un buon intervento non può prescindere dalla raccolta dei dati e dalla costruzione delle cartelle cliniche che registrino la storia delle persone e degli incontri terapeutici, ci si è chiesti come facilitare questo processo, che deve essere negoziato con le istituzioni in cui si opera, ma che deve anche lenire il senso di diffidenza o paura che a volte si genera nelle persone che accedono agli ambulatori. Quali sono i migliori strumenti per raccogliere i dati, per poterli condividere se necessario anche tra i diversi ambulatori, per aiutare le persone a non essere diffidenti o impaurite di un’eventuale identificazione? Bisogna imparare a esplicitare al paziente il quadro dell’intervento in cui lo si incontra.

Il gruppo ha proseguito gli incontri dopo la pausa estiva con la stessa cadenza mensile. Ha continuato a raccogliere i vissuti di volontari e operatori, e la storia degli inevitabili cambiamenti istituzionali e organizzativi. Si è fatto più forte il desiderio di mettere in comune le proprie pratiche. Il lavoro negli ambulatori accoglie richieste tra il formale e l’informale e assolve il compito di trasformare richieste immediate e urgenti in più durature attività di cura, pur con l’attenzione a non creare così un sistema parallelo a quello socio-assistenziale pubblico, che deve continuare a curare tutti indistintamente.  Sono stati raccontati casi in cui gli accompagnamenti nei percorsi sanitari partivano dall’indicazione ad un intervento chirurgico e quindi i pre-ricoveri per gli esami pre-operatori, il ricovero per l’intervento, la riabilitazione post-operatoria, la sistemazione protetta per convalescenza, sono stati condotti dai sanitari, coadiuvati dagli operatori dei servizi (Gruppo Abele) e si sono conclusi con un’accettabile soluzione del problema di salute, grazie anche all’aderenza al programma terapeutico dei soggetti interessati. In altri casi la difficoltà maggiore è stata proprio la sfuggente ed incostante presenza degli interessati, forse per scarsa comprensione del problema e comunque sempre per la necessità di risolvere altri bisogni: lavoro, casa o per la concomitanza di dipendenza alcoolica o da droghe. È constatazione comune che la richiesta più frequente agli ambulatori sia quella di farmaci ad uso immediato. Su richieste più importanti, secondo i volontari, diventa urgente condividere la raccolta dei dati, per un vero lavoro in rete non è sufficiente basarsi sui record e sulla memoria personale ma è necessario lavorare alla costruzione di cartelle cliniche, superando così anche alcune resistenze. La raccolta dei dati e degli interventi diventa molto significativa nelle storie complesse: a volte si incontrano problemi burocratici molto importanti uniti a una compliance incostante nei pazienti. A volte si unisce la complessità degli interventi sanitari con la difficoltà di trovare alloggio adeguato nella fase della cura. Ci sono storie di presa in carico di persone con importanti problemi sanitari con buona risoluzione del quadro e molte altre in cui invece non si è riusciti a superare i multipli problemi.

È nata in gruppo l’idea di poter dare comunicazione dell’esistenza e della funzionalità degli ambulatori anche nei giornali editi da persone senza dimora. Tale idea è stata ispirata anche dall’esperienza positiva di percorsi di peer education. In gruppo è stato raccontato il caso di una persona, che chiedeva un aiuto ma anche ne diffidava, che sapeva instaurare una relazione positiva con il medico, che era consapevole dei suoi bisogni e delle sue difficoltà e capace di relazionarsi con gli altri, e che nel definire sé stesso diceva “io sono senza fissa dimora professionale”. Questa persona, che da anni vive in strada e solo con gli anni, superando l’iniziale diffidenza, è riuscita a entrare in relazione con i servizi, è stata coinvolta in un percorso di peer education perché potesse rappresentare un ponte tra l’utenza estremamente complessa da coinvolgere e ’la strada’.

A fronte di alcuni percorsi ben riusciti, rimane la preoccupazione che il lavoro volontario negli ambulatori possa costituire una sorta di sistema sanitario parallelo, in un contesto sociale sempre più incurante della marginalità. Su questo sfondo, lo spazio auto-organizzato “Neruda”, che ospita uno degli sportelli, sembra il presidio ideale per cogliere anche i cambiamenti del contesto sociale e i nuovi bisogni che nascono, e per riflettere su dove poterli indirizzare: lo spazio “Neruda” nasce da un’occupazione, qui i residenti si organizzano per la gestione dei problemi quotidiani, c’è un servizio di facilitazione per l’accesso alla casa e al lavoro, e per i piccoli problemi di salute.

In conclusione, il gruppo di intervisione, che si è incontrato con cadenza mensile per dieci mesi, ha costruito un percorso di condivisione di pratiche e di vissuti, di punti di vista, di problematicità, improntato alla comunicazione e alla ricerca di soluzioni per funzionare meglio. Il gruppo può essere valido luogo di diffusione delle informazioni, ma anche di ascolto dei vissuti o di negoziazione dei cambiamenti, di sostegno collettivo della fatica connessa alla cura relazionale e assistenziale nei contesti sociali di marginalità. È stata valorizzata la funzione del gruppo nel ridare ai volontari e al lavoro il senso di continuità che manca nei contesti in cui si opera. Sono emersi alcuni aspetti relazionali tipici del lavoro di cura con i senza dimora ed è stata ribadita la necessità di mettere in comune le pratiche soprattutto dove i contesti di intervento rimangono per lo più frastagliati e sconnessi.

In definitiva, funzionare meglio come gruppo serve a sostenersi, ma anche a operare meglio nella rete dei servizi esistenti, riportando le domande di cura ai contesti e alle istituzioni che possano e debbano accoglierle, facilitando l’accompagnamento.

Silvia Torresin*, Francesca Simi**, Lisa Di Mascolo***, Paolo Leoncini***

*psicoterapeuta, gruppoanalista ** Amref Health Africa Italia *** World Friends Torino

Si ringraziano tutti i volontari e gli operatori partecipanti al gruppo di intervisione, senza il cui contributo questo post non avrebbe potuto essere scritto

fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2023/05/chi-si-prende-cura-di-coloro-che-curano/

Print Friendly, PDF & Email