Non voglio essere incluso, perché faccio già parte di questa società. di Tonino Urgesi

Barbie con sindrome di Down

La bambola Barbie con sindrome di Down recentemente prodotta

Alcuni anni fa scrissi su queste stesse pagine un articolo dal titolo Ma sul serio ci vuole una bambola per educare?. Si parlava della Barbie sulla carrozzina e mi chiedevo a cosa e a chi potesse servire una bambola con disabilità se non ancora una volta a mettere l’accento sulla diversità tra una bambola in piedi e una seduta. E a quella bambina a cui verrà regalata, che ci giocherà, che tipo di insegnamento potrà mai elargire un giocattolo di questo tipo? Che esiste una bambola in carrozzina? Diversa da altre bambole e con che scopo? E tutte quelle battaglie pedagogiche, psicologiche e antropologiche che si sono fatte dagli Anni Settanta ad oggi, per creare un pensiero di “uguaglianza”, per abbattere pregiudizi e preconcetti sulle diversità, dove vanno a finire?

Oggi scopro che la Mattel ha messo sul mercato anche la bambola con la trisomia 21 [della Barbie con sindrome di Down si legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.], così le mie perplessità rimangono e aumentano, anche se l’azienda si ostina a giustificare la sua operazione di mercato utilizzando la parola “inclusività”.
Vorrei poter rivolgere qualche domanda a questa prestigiosa Società. «Come pensa di poter utilizzare la parola “inclusività”?», «chi o cosa andrebbe incluso?». Ma avrei anche un’altra domanda da rivolgere, e questa volta a Lettori e Lettrici: “Questa bambola, in cosa mai si dovrebbe includere? In quale posto del mondo, dell’universo si dovrebbe mai includere?».

Ma torniamo a chi, come noi, vive la disabilità giorno dopo giorno. Io non voglio essere incluso perché faccio già parte di questa società, e tanto meno desidero essere integrato in essa, perché sento che ho diritti e doveri verso chi mi sta accanto. Devo educarmi ed educare gli altri ad un nuovo pensiero della diversità, dove non mi sento disabile, perché è il contesto a creare la disabilità alle persone. Non si può educare una società e specialmente i bambini con giochi e giocattoli cosiddetti “inclusivi”.

Chi mi conosce sa che mi pongo continue domande su questi temi e sa che ho già lavorato sulla parola inclusività. Perché una persona con un deficit ha bisogno di essere incluso? E mi chiedo anche: incluso in che cosa? In un gioco? Il gioco è già inclusione, è già interazione, è già “io e l’altro”. Non può esistere il giocattolo che crea inclusione prima, perché deve esistere l’incontro con l’amico o l’amica. Ci dev’essere una relazione, un’“azione” verso l’altro, tra i due bambini e bambine, perché se non c’è questo incontro di sguardi, di corpo e di voglia di giocare insieme, può essere il gioco più bello e la bambola più piacente e alla moda, ma la solitudine di quei bambini rimane.

Poi mi chiedo anche un’altra cosa. Chi sono le mamme o le nonne che regalerebbero mai una bambola con trisomia 21, in carrozzina o audiolesa alla figlia o alla nipotina? Credo pochissime, anche se le statistiche ci danno contro, ma questo non ci preoccupa, anzi ci demoralizza. Perché tutta una battaglia per una pedagogia della disabilità viene elisa. Anzi, la società ha bisogno ancora una volta di sottolineare il deficit e le diversità tramite una bambola.
Chi è quella bimba con disabilità che vuole la sua bambola, anch’essa disabile, per indentificarsi in essa? Trovo veramente di cattivo gusto questo tipo di cultura e mi chiedo chi possa essere quella bambina “normodotata” che ha bisogno come regalo di una bambola con trisomia 21 o in carrozzina, per scoprire la diversità di un’eventuale amica o compagna di scuola. Forse sarebbe meglio che le due bimbe giocassero insieme, e insieme inventassero un gioco dell’interazione e comunicassero i loro desideri e sogni.

Come stiamo costatando, le domande sono numerose, quasi infinite, ma purtroppo la cultura del mercato è più forte di noi. Sono anni che mi batto per creare una nuova pedagogia della disabilità, dove non si parli più di inclusione, ma di interazione, quell’“interazione” che fa nascere una nuova “rel-azione”, un’azione momento, un’azione dell’incontro. Si dovrebbero rompere tutti i contesti che creano la disabilità e non favorire dei giochi e delle bambole che creino un ambiente disabilizzante.
Non dobbiamo più abbattere barriere architettoniche, ma piuttosto oggi dovremmo abbattere contesti che creano disabilità, contesti culturali, contesti sociali e contesti pedagogici nuovi. Dobbiamo gridare tutti insieme un no e indignarci quando ci vogliono rinchiudere in un prototipo di disabilità e iniziare proprio noi a educare questa società alla diversità come valore singolare di ogni persona. Non penso quindi che un regalo cosiddetto inclusivo possa sostituire la gioia di giocare insieme e l’esigenza di costruire e inventare una pedagogia della diversità.

E per finire lo dico ancora una volta: noi dobbiamo dire che non ci sentiamo disabili! Ma è la società che crea la nostra disabilità.

l’Autore è Esperto di affettività e sessualità nelle persone con disabilità.

fonte: https://www.superando.it/2023/05/24/non-voglio-essere-incluso-perche-faccio-gia-parte-di-questa-societa/

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