Il diritto alla salute mentale, per tutti. di Roberto Mezzina

L’attuale logica della salute mentale – basata sulla risposta individuale, per lo più episodica, declinata in ambito privatistico,  affidata alle dinamiche del mercato e alla disponibilità di spesa dei singoli –  configura una grave, inaccettabile disuguaglianza sanitaria.

Di recente è stata presentata la Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione dell’Istituto Superiore di Sanità (1), promossa dal Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università degli Studi di Padova. Citare questo lavoro come dato di partenza mi pare importante per lo sforzo che ha richiesto e per il tentativo di andare al di là di una generica promozione delle terapie psicologiche e del lavoro degli psicologi con i cosiddetti ‘disturbi mentali comuni’ (OMS). Vero è che queste condizioni sono emerse con prepotenza durante il Covid, quando sono state viste negli angusti spazi privati e nella contrazione dello spazio pubblico, e a volte finalmente comunicate. Ma sono esplose soprattutto dopo, in relazione all’emergere di effetti soprattutto di ordine relazionale e sociale sulla salute mentale a più lungo termine, che hanno impattato soprattutto i gruppi di popolazione più vulnerabili. Tra questi, esemplarmente, i giovani, soprattutto nella fascia scolare e universitaria, la cui condizione evolutiva va accolta e compresa, ma non immediatamente sottoposta a codifiche e risposte di ambito ‘psi’.

Ciò ci riporta agli sforzi di analisi, anche politica, che la pandemia ha comportato relativamente ai gap di cura e trattamento esistenti in Italia in tutto l’ambito della salute e in medicina, e che sono culminati in due eventi, nel 2021 (la Conferenza Nazionale ministeriale sulla Salute Mentale) e nel 2022 (il Summit Globale sulla salute mentale ospitato a Roma sempre dal Ministero della Salute). La stessa OMS ha finalmente, sulla scorta dell’art. 25 della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, affermato senza indugio, nel Report Mondiale sulla Salute mentale (2), che è necessario garantire un diritto alla salute mentale per tutti, in maniera universalistica, almeno come aspirazione e come meta ideale. Ciò non elude il fatto che il disagio e la sofferenza umana, il dolore stesso in quanto percepito soggettivamente, sono esperienze ineliminabili e legate al vissuto del singolo, ma sottolinea che le società e gli stati dovrebbero offrire risposte tese ad alleviarne l’impatto sui loro cittadini e a garantire cure laddove necessarie e utili.

In Italia tuttavia, il parziale sdoganamento della salute mentale dalla vecchia psichiatria intesa come medicina delle malattie mentali, che si inscenava nei manicomi, non ha portato in alcun modo a garantire risposte, diversamente da altri stati dove il welfare copre i bisogni in modo più universalistico. Ciò già da tempo avviene all’interno di sistemi basati sulla fiscalità generale o anche su modelli assicurativi a forte componente pubblica: vedi l’Olanda, e più in generale i paesi del Nord Europa, che contano una prevalenza trattata almeno doppia di quella italiana, e più recentemente, la Gran Bretagna, il cui programma Improving Access to Psychological Therapies, IAPT (ampiamente citato nella Consensus Conference) è visto come un modello possibile. Pur nato all’interno della crisi e del de-finanziamento del National Health Service, esso offre accesso a trattamenti ‘a bassa intensità’ forniti da ‘counselor’, operando a integrazione di quanto viene erogato nelle cure primarie, dai MMG e dagli infermieri di comunità, ma in un sistema ad accesso graduato alquanto diverso dal nostro (stepped care).

Sarebbe auspicabile che anche in Italia fosse garantita una vera risposta da parte del Servizio sanitario Nazionale (anche nei limiti del sistema a ticket per prestazioni specialistiche) a tutte le condizioni di disagio e sofferenza psicopatologica. Esse invece restano inascoltate, o ricevono a volte prescrizioni farmacologiche dai medici di base, o si disperdono nei rivoli dei circuiti privati di ‘cura’, dove l’utente si confronta col singolo specialista, sia esso psicologo (colloqui) o psichiatra (farmaci e qualche colloquio) e perfino ancora neurologo (solo farmaci): tutti prevedono un pagamento ‘out-of-pocket’, diretto e di tasca propria.  Il famoso ‘bonus psicologo’ ha avuto almeno l’effetto di far emergere e aumentare l’accessibilità degli approcci psicologici, ma con un respiro corto e senza garanzie per il futuro, e alla fine non ha fatto altro che confermare che la risposta individuale, specialistica al disagio è l’unica via possibile. Non è inutile ribadire che è invece opportuno inserire sia la domanda che le risposte offerte, ossia gli interventi e i trattamenti – anche, e forse in particolare, quelli di natura psicologica e psicoterapeutica – in un sistema articolato di servizi.

Il disagio, che nasce e si sviluppa in rapporto ai cicli e agli eventi di vita, a condizioni esistenziali plasmate dall’esperienza sociale delle persone e da fattori che di natura sociale per l’appunto sono, non deve solo trovare risposte speculari al sintomo, che a volte appena si profila. Ma deve comunque ricevere attenzione. Sappiamo anche quanto una risposta trasformativa della qualità di vita impedisca il progredire verso condizioni di disturbo effettivo e sempre più conclamato, o incistato nelle sue separatezze e nelle sue solitudini. Nel sistema articolato cui ci riferiamo vanno quindi comprese  anche la promozione della salute e la prevenzione. Non è inutile qui ricordare che solo marginalmente la salute mentale viene riconosciuta e chiamata a contribuire in questi ambiti, sostanzialmente al traino della salute generale (vedi i Piani regionali di Prevenzione), o dello sviluppo umano, in contesti di crescita quali le scuole. Né si parla ancora seriamente della salute mentale nei luoghi di lavoro, nonostante Italia sia stata pioniera nel lavoro degli psicologi in fabbrica (Olivetti) (3). Lo specialismo si pone quindi come risposta, paradossalmente arcaica e privatistica, proprio laddove non andrebbe invece sottaciuto l’interesse comune al recupero di soggetti sofferenti, che possono facilmente venire marginalizzati ed esclusi, sia dai circuiti educativi che da quelli produttivi, arrecando un danno la cui dimensione, non solo individuale ma collettiva, stenta ad essere colta e capita.

L’attuale logica di risposta solo individuale, spesso episodica, declinata in ambito privatistico, che resta affidata alle dinamiche del mercato della salute e alla disponibilità di spesa dei singoli,  configura una disuguaglianza sanitaria grave. Per uscire da queste strettoie é necessario facilitarne accesso e riconoscimento dei c.d. ‘disturbi mentali comuni’ a livello di cure primarie, oltre all’attivazione di vari ’sensori’ a livello comunitario, attraverso campagne che favoriscano una educazione sanitaria di base su che cos’è salute mentale. Paradossalmente, prima ancora di contrastare le vecchie logiche di riproduzione dei pregiudizi e dello stigma sulla follia e sulla malattia mentale, che la stagione della legge 180 non ha comunque abbattuto. Occorre inoltre migliorare le capacità di screening e prima risposta (abbiamo sperimentato in regione FVG la formazione dei Medici di Medicina Generale (MMG) secondo il programma dell’OMS per le cure in contesti non specialistici, il cosiddetto Mental Health Gap Programme, ma solo come fatto episodico nell’ambito di una ricerca-azione), evitando l’abuso di terapie farmacologiche che è la norma in questi setting.  Invece il programma propone di guardare al soggetto nelle sue condizioni di vita e nei problemi che affronta, e di inserirlo all’interno delle reti di supporto, informali e formali, attivabili attorno a lui. Non si tratta solo di ridurre il misuso e spesso l’abuso degli psicofarmaci (in passato ansiolitici, oggi antidepressivi), ma di evitare la medicalizzazione a senso unico del disturbo, che riduce ad una sola dimensione, quella medica, l’esperienza umana del disagio.

I MMG devono entrare a sistema nella salute mentale, essere quindi affiancati ad equipe multidisciplinari e anche, come ci insegnano paesi a più basso reddito come l’India, da caregiver non specialisti, volontari o ‘facilitatori alla pari’. Ma anche qui, in Italia la pur poderosa rete del volontariato, avamposto di prossimità per preziose azioni di intercettamento di fasce di bisogno e disagio sociale comportanti importanti risvolti soggettivi e individuali (a partire dai migranti, ma anche dai senzatetto) stenta ad organizzarsi e integrarsi. Essa resta spesso prigioniera di nicchie, di separatezze e piccole posizioni acquisite dalle varie organizzazioni, in una spartizione di ambiti che spesso non travalica l’offerta caritatevole. Per di più, non raccordandosi al sistema pubblico, di suo carente e sordo a questa domanda, impedisce la presa in carico dei soggetti che l’attraversano nella loro complessità individuale sociale.  Tutti questi ambiti, di ricezione e di offerta di cura, andrebbero ripensati nel costruire un sistema globale di salute, per costruire una risposta finalmente complessiva, dove le varie componenti possano concorrere ad un nuovo welfare di comunità per la salute e il benessere collettivo, e dove i servizi della medicina di territorio (distretti o case della comunità che siano) appaiano finalmente attori istituzionali primari, insieme con le istanze partecipative e associative dei cittadini per il ‘bene comune’ e ‘la città che cura’.

Ciò va tradotto allora in concrete scelte programmatorie, formative e di policy sanitaria (vedi PNRR e oltre) a livello nazionale, che ricomprendano le diverse risposte in una nuova organizzazione della salute comunitaria e territoriale.

Roberto Mezzina, Presidente International Mental Health Collaborating Network

 

Bibliografia

  1. Istituto Superiore di Sanità. Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione. Documento finale. Consensus ISS 1/2022.

https://www.iss.it/documents/20126/0/Consensus_1_2022_IT.pdf

  1. WHO (World Health Organization) (2022). World Mental Health Report. Transforming Mental Health for Allwho.int/publications/i/item/9789240049338.
  1. Rozzi R. Psicologi e operai. Soggettività e lavoro nell’industria italiana. Milano, Feltrinelli, 1975.

fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2023/05/il-diritto-alla-salute-mentale-per-tutti/

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