Attuare i diritti sociali: l’offerta pubblica non è un “optional”. di Elena Granaglia

Elena Granaglia discute la tesi, molto diffusa, secondo cui il welfare oggi avrebbe molto da guadagnare da un’estensione della produzione privata dei servizi sociali. Focalizzando la propria attenzione sul welfare aziendale e sui Social Impact Bonds, Granaglia sottolinea i rischi di una tensione con i diritti sociali di cittadinanza, e indica le ragioni che rendono persistente la necessità dell’offerta pubblica, ancorché in configurazioni radicalmente diverse da quelle oggi predominanti.

Con lo sviluppo della cosiddetta “terza via”, l’idea che il welfare abbia da guadagnare da un’estensione della produzione privata nei servizi sociali associata a un rafforzamento della funzione pubblica di regolazione, è andata diffondendosi anche a sinistra. Assieme a tale estensione vengono invocati sia il mantenimento di un finanziamento pubblico integrale, come nel caso delle esternalizzazioni dei servizi, sia l’espansione di configurazioni miste di finanziamento pubblico/privato, come nel caso delle agevolazioni fiscali al welfare. In entrambi i casi, l’idea di fondo è che l’estensione della produzione privata, lungi dal costituire un problema, possa contribuire alla promozione dei diritti sociali che i Welfare state basati sulla produzione pubblica, da soli, non sarebbero più in grado di garantire.

La domanda che pongo è se sia effettivamente così oppure se l’estensione della produzione privata non metta a repentaglio il senso stesso dei diritti sociali. Per rispondere, mi concentro su due casi: quello del welfare aziendale e quello dei social impact bonds, ossia di strumenti finanziari utilizzati da soggetti pubblici per raccogliere finanziamenti privati destinati alla realizzazione di progetti di pubblica utilità. Anticipo le mie conclusioni: le criticità di quella estensione sono tante.

Procediamo per gradi. Innanzitutto, occorre una definizione di diritti sociali. Seguendo T.H. Marshall, cui dobbiamo la definizione originaria (che ha, fra l’altro, importanti assonanze con la prospettiva dell’uguaglianza delle capacità sviluppata da A. Sen e M. Nussbaum), “i diritti sociali vanno dalla [concessione] del diritto a un minimo di benessere e sicurezza economica al diritto di partecipare pienamente al patrimonio sociale e di vivere la vita di un essere civile secondo gli standard prevalenti”. E R. Tawney aggiunge “l’obiettivo non è la divisione del reddito della nazione in undici milioni di frammenti, da distribuire, senza ulteriori indugi, come una torta a una festa scolastica, tra i suoi undici milioni di famiglie. Si tratta, al contrario, di rendere accessibili a tutti, indipendentemente dal reddito, dall’occupazione o dalla posizione sociale, le condizioni di civiltà di cui, in assenza di tali misure, possono godere solo i ricchi”. R. Titmuss è un po’ estremo, ma vale la pena ricordare come, anche quando si trovò nella condizione di malato terminale, riconoscesse il valore di essere ricoverato in un ospedale in cui tutti, a prescindere dall’origine sociale, stavano insieme e erano trattati come uguali.

Due elementi della definizione marshalliana (e delle declinazioni integrative appena riportate) sono centrali. Il primo elemento è l’universalismo: avere un diritto significa che tutti possono accedere a alcuni beni fondamentali in modo non contrattabile/incondizionato, sulla base della sola uguaglianza morale di considerazione e rispetto e/o della dignità sociale.

Il secondo elemento concerne l’importanza di non limitarsi a erogare mezzi/risorse, ma di assicurare la realizzazione di risultati/condizioni. Le risorse ovviamente contano, ma contano in quanto contribuiscono, insieme a altri fattori, alla possibilità di accedere a alcune condizioni fondamentali. Appunto, l’enfasi non è sul reddito. E’ sulla sicurezza economica; sul poter vivere la vita di un essere umano civile.

Questo secondo elemento spinge a qualificare l’universalismo in termini di uguaglianza non solo distributiva (ossia, relativa alla distribuzione delle risorse), ma anche sociale. Da un lato, occuparsi di risultati/condizioni richiede di prestare attenzione al contesto socioeconomico (le cosiddette background conditions of justice). Non sempre, infatti, i mezzi sono sufficienti per raggiungere ciò per cui sono apprezzati. Ad esempio, un conto è ugualizzare l’accesso ai servizi sanitari e un altro è ugualizzare ciò che si auspica di ottenere con i servizi sanitari, ossia, aspettative di vita in buona salute, le quali sono fortemente influenzate dai determinanti sociali (istruzione, occupazione, contesto in cui si vive…).

Dall’altro lato, la comune uguaglianza morale/la dignità sociale nonché la specifica condizione di vivere la vita di un essere umano civile richiedono modalità di realizzazione dei diritti attente al valore intrinseco di ciò che si ricerca, al comune accesso da parte di tutti alle stesse condizioni e alla comune possibilità di voce. Come dicevano i Fabiani, “we are all in together” (siamo tutti dentro insieme). L’uguaglianza distributiva, invece, potrebbe essere soddisfatta da un mero sistema di buoni (voucher).

Certo, la realizzazione dei diritti sociali è stata ed è largamente imperfetta. Basti pensare alle tante esclusioni a danno delle donne. Ciò nondimeno, se crediamo nei diritti sociali , la sfida è realizzarli.

A tal fine, qualsiasi sia la configurazione, l’offerta privata presenta diverse inadeguatezze. Contrariamente alle richieste dell’uguaglianza sociale, l’offerta privata si concentra sull’erogazione di prestazioni, trascurando i determinanti sociali. Se a scopo di profitto, ha come obiettivo principale il rendimento monetario, non il valore intrinseco di ciò che si ricerca. Essendo uno spazio privato, non assicura uguali possibilità di voce a tutti i soggetti coinvolti.

Il welfare aziendale, dal canto suo, mina anche l’uguaglianza distributiva, essendo circoscritto a gruppi di lavoratori e dipendendo dalle preferenze dei datori di lavoro. Non a caso, in Italia, è concentrato nelle grandi imprese. Inoltre, se sostenuto dalle agevolazioni fiscali, ha il limite addizionale di assicurare vantaggi ad alcuni con i soldi di tutti, così violando l’uguaglianza di trattamento come ben argomenta, fra gli altri, Scanlon. L’uscita dal welfare pubblico di coloro che beneficiano del welfare aziendale potrebbe, altresì, peggiorare la qualità dei servizi pubblici per chi resta.

Social Impact Bonds potrebbero, invece, essere compatibili con l’uguaglianza distributiva, rivolgendosi a programmi specifici all’interno, però, di misure rivolte a tutti. Inoltre, seppure insensibili ai determinanti sociali, i Social Impact Bonds avrebbero il merito di mirare al raggiungimento dei risultati connessi alle diverse prestazioni erogate. Chi acquista l’obbligazione emessa dall’ente pubblico riceve, infatti, oltre al rimborso del capitale anticipato, un rendimento finanziario che deriva dal grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Ciò nonostante, il rischio della messa a repentaglio dell’uguaglianza sociale è ancora maggiore. A parità di spesa pubblica, l’unico modo per aumentare il rendimento finanziario è risparmiare rispetto a quanto farebbe il produttore pubblico. Ma come ottenere il risparmio se non tagliando il costo del lavoro, la variabile centrale nei servizi, così svalutando ancor più il lavoro sociale, e/o disciplinando i beneficiari, in modo da piegare i possibili comportamenti non cooperativi, nella sottovalutazione dei valori dell’uguaglianza di considerazione e rispetto e della dignità sociale? Contratti completi potrebbero limitare questi rischi, ma sono indisponibili e tale indisponibilità implica una forte iniquità nella distribuzione del potere di scelta: come discute Cordelli, alcuni soggetti privati possono decidere su questioni che dovrebbero riguardare tutti, con rischi particolarmente elevati date le condizioni di marginalità di molti beneficiari dei programmi. Basti ricordare l’utilizzazione dei Social impact bonds per ridurre il tasso di recidiva dei carcerati. I carcerati hanno un potere di voce che appare ancora minore di quello dei lavoratori. In ogni caso, i determinanti sociali dello svantaggio sono trascurati. L’obiettivo è “risolvere” problemi individuali.

Diverse sono le possibili obiezioni a queste mie critiche. Ne cito alcune. Le persone che decidono di lavorare nel welfare non sono le stesse a prescindere dal regime proprietario delle organizzazioni in cui operano? E l’offerta pubblica non è nei fatti spesso carente? Dovremmo pertanto smetterla di comparare i limiti effettivi del privato con una produzione pubblica ideale, che è un miraggio. Inoltre, perché chiedere tutto al privato? Il pubblico potrebbe occuparsi dei determinanti sociali. E, infine, sempre a scopo meramente esemplificativo, se un datore di lavoro vuole erogare welfare ai propri dipendenti non dovremmo esserne contenti, anziché richiedere un’uguaglianza che implicherebbe niente altro che un livellamento verso il basso?

Risponderei così. Nel complesso, le persone sono le stesse, seppure esistano differenze di preferenze e motivazioni fra chi sceglie di lavorare nel pubblico e chi nel privato. I diversi regimi di produzione offrono, in ogni caso, incentivi diversi, che a loro volta generano effetti diversi, tanto più pronunciati quanto più pronunciate sono le asimmetrie informative e le incompletezze contrattuali.

il pubblico dimostra e ha dimostrato molte carenze, ma se vogliamo uno spazio comune aperto a tutti, in cui si praticano forme non demercificate di produzione, non ci sono alternative. Abbiamo sperimentato i limiti degli assetti burocratici top down nonché del New Public Mangement, ma queste non sono le uniche opzioni. Le proposte di amministrazione condivisa, di co-programmazione e co-produzione indicano alternative importanti da esplorare. In quest’ultima prospettiva, anche organizzazioni private non a scopo di lucro avrebbero un ruolo importante da giocare. Il punto centrale è che sarebbero integrate in uno spazio comune orientato al valore intrinseco di ciò che si produce.

Ancora, come ben discutono, tra gli altri, Corrugati e Levi, più si vedono/s’inquadrano le questioni in termini di prestazioni private per fronteggiare un fallimento/uno svantaggio personale, più rischia di indebolirsi l’attenzione alla struttura socio-economica quale fonte degli svantaggi sociali. Il che non significa che le esternalizzazioni non siano mai giustificabili. Vanno, tuttavia, limitate agli ambiti in cui i problemi informativi siano minori; evitino il ricorso a incentivi monetari elevati (high powered incentives) e non compromettano la centralità dello spazio comune e non mercificato.

Infine, rispetto alle obiezioni in termini di livellamento verso il basso, nulla nelle considerazioni svolte, implica che si dovrebbe vietare il welfare aziendale, seppure valga la pena ricordare il divieto un tempo esistente in Canada di assicurazioni sanitarie private sostitutive delle prestazioni offerte dal servizio nazionale. Al contrario, in linea con quanto appena riconosciuto in merito alla prospettiva dell’amministrazione condivisa, ci potrebbero essere casi, come quello degli asili nido, in cui il welfare aziendale potrebbe contribuire alla soddisfazione dei diritti sociali. Si tratta, però, di casi limitati e, diversamente da quanto spesso avviene, l’erogazione privata andrebbe integrata nella più complessiva soddisfazione dei diritti (grazie anche a patti territoriali).

Il welfare aziendale potrebbe, altresì, essere accettato in quanto riflesso della libertà di scelta dei datori di lavoro o anche agevolato qualora, per ragioni di internalizzazione di effetti esterni positivi, si voglia aumentare il consumo collettivo di determinate prestazioni. In entrambi i casi, però, non si dovrebbe fare riferimento ai diritti sociali.

Tutte queste questioni vanno certamente approfondite. Mi sembra, tuttavia, necessario riconoscere le tante possibili linee di tensione fra offerta pubblica e offerta privata evitando, sì, di ricorrere a facili contrapposizioni, ma anche di nascondere le differenze fra produzione privata e pubblica quando è in gioco l’attuazione dei diritti sociali.

fonte: https://eticaeconomia.it/attuare-i-diritti-sociali-lofferta-pubblica-non-e-un-optional/

Elena Granaglia è professore ordinario di Scienza delle Finanze nell’Università di Roma Tre e membro della Redazione del “Menabò di Etica e Economia. Ha recentemente pubblicato, con Maurizio Franzini e Michele Raitano, “Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo”, Il Mulino, 2014.
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