Autismo. Ma la cultura che quelle Sentenze trasmettono non mi piace per nulla. di Antonio Giuseppe Malafarina

Qualcosa di strano in una scuola piemontese e nelle sedi di giudizio di competenza a proposito di disabilità dopo la denuncia di una famiglia. Un’educatrice, un bambino autistico e i giudicanti delle varie corti sono gli attori di una vicenda per cui il fatto non sussiste, ma che, se sussistesse, recherebbe grave danno sociale. E pur non esistendo, suscita ambiguità sulla considerazione delle persone con disabilità [della vicenda si legga già sulle nostre pagine – NDd.R. superando.it – a questo e a questo link, N.d.R.].

Il nostro ordinamento giuridico prevede tre gradi di giudizio: Primo Grado, Appello, Cassazione. I fatti oggetto di questo approfondimento sono relativi a una Sentenza di condanna in Primo Grado, all’assoluzione in Appello perché il fatto non sussiste e sono in attesa del pronunciamento della Cassazione dopo il ricorso seguito all’Appello. Ma se il giudizio è ancora in corso già si possono trarre prime considerazioni sull’approccio alla disabilità finora emerso. E per arrivarci è opportuno sapere cosa sia successo in quella scuola e presso le sedi giudicanti. Troveremo singolari interpretazioni.

Dalla Sentenza di Primo Grado del 21 aprile 2021, con giudizio abbreviato, i fatti in esame si riferiscono agli anni fra il 2018 e il 2019 e sono stati sottoposti a giudizio dopo la denuncia della famiglia della persona con disabilità coinvolta.
Una prima elementare di Alessandria e un’educatrice del minore, in presenza di insegnante di sostegno, avrebbe tenuto un atteggiamento «eccessivamente nervoso», utilizzando con frequenza parole inidonee e non si sarebbe curata del rispetto della sua disabilita, «tanto da farlo spesso andare in bagno senza scarpe e da trattenerlo all’interno del bagno per un periodo di tempo sproporzionato rispetto alle sue reali esigenze».
Inoltre in più occasioni si sarebbe rifiutata di dare la merenda al bambino, «nonostante che egli avesse fatto richiesta mostrando l’apposito cartellino e nonostante l’evidente stato di agitazione del bambino». Seguono altri presunti maltrattamenti, fra cui il rovesciamento di una bottiglietta d’acqua da parte della medesima nel cestino dei rifiuti a umiliazione del piccolo e poi richiami a voce alta, per esempio sul suo doversi arrangiare a restare senza scarpe. Ci sarebbe un «mi fai schifo» rivolto al bambino in merito all’invito all’alunno ad appendere il giubbino caduto per terra nonostante questi provandoci ripetutamente non ci riuscisse.

La Sentenza di Primo Grado rileva l’esistenza di continue aggressioni fisiche e umiliazioni morali che fanno vivere il bambino in uno stato di «prostrazione sia fisica sia morale. Con l’aggravante di avere commesso il fatto in danno di persona portatrice di minorazione fisica, psichica e sensoriale, essendo (omissis) affetto sin dalla nascita da una grave forma di autismo che lo rende del tutto non autosufficiente». Ulteriore aggravante, la minore età dello studente. L’educatrice viene quindi condannata.

L’educatrice ricorre in Appello al quale, recentemente, è seguito il ricorso in Cassazione. Da questi risulterebbe che l’accusata non ha pronunciato «mi fai schifo», ma «che schifo» e il resto degli atteggiamenti si configurerebbe come «intendimento dell’imputata di segnalare delle regole di convivenza» al bambino. Quindi alla Corte non spetterebbe «stabilire se la metodologia didattica utilizzata dall’imputata sia stata adeguata, né se possedesse titoli per potere gestire con tali modalità il piccolo e sfortunato» bambino.
Per un cittadino poco pratico di Sentenze, come il sottoscritto, la scelta appare pilatesca: se non spetta al tribunale, che può nominare i periti necessari per comprendere se la condotta di una persona è stata appropriata, a chi spetta? Curioso, per lo stesso motivo, che non spetti neppure alla Corte stabilire se una persona possieda i titoli per svolgere una funzione. Probabilmente si tratta di meccanismi interni al nostro sistema giuridico. Ma ne sfugge la logica ai non addetti ai lavori.

Venendo alla Sentenza della Corte d’Appello del 26 maggio 2023 e al ricorso del 5 ottobre 2023, risulta che secondo i giudicanti i fatti starebbero come narrati e il comportamento dell’educatrice sarebbe stato dettato dalla necessità di educare, ma vediamo perché il fatto non sussiste, cioè perché l’imputata non avrebbe compiuto alcun reato.
Primo, è stato acclarato che l’imputata non ha pronunciato «mi fai schifo», bensì «che schifo» e non c’è un tono ingiurioso, sebbene l’alunno «non sarebbe stato, in ogni caso, in grado di percepirne il disvalore educativo e giuridico».
Secondo, la condotta dell’imputata non è stata considerata inopportuna in quanto la Corte non è in grado di stabilire se la condotta è stata didattica oppure no.
L’assoluzione è con la formula dubitativa, ma certe dichiarazioni del tribunale invitano a pensare. In primis, che una persona potrebbe essere ingiuriata se non in grado di percepire il disvalore educativo e giuridico. Se anche così fosse, qual è il ruolo della scuola? Quale responsabilità detiene colui che opera per educare? Che cosa ne è degli alunni che assistono a un tale comportamento? Così potrebbero sentirsi autorizzati a ingiuriare ogni volta che fossero convinti che l’altra persona non è in grado di intendere la loro ingiuria. Dubito che una società attraversata da questi comportamenti abbia un futuro roseo.

Il tribunale parla di «piccolo e sfortunato bambino», usando un linguaggio penoso, ovvero tutt’altro che obiettivo come ci si aspetterebbe da una Corte di Giustizia. La concezione della giustizia non può essere così obsoleta da identificare una persona con disabilità come «sfortunata». La disabilità non è sfortuna: è un fatto della vita e in quanto tale deve essere considerata con decenza e non con patetismo.

In un altro passaggio si parla del malessere del bambino nel rapporto con la scuola come «inevitabilmente collegato frequentazione della scuola, ancorché non necessariamente presupponente l’esistenza di condotte maltrattanti ai suoi danni». Qui sembra si sostenga che il problema del bambino sia l’andare a scuola e non l’essere accolto dignitosamente. La scuola, secondo la Sentenza, dovrebbe abdicare di fronte alle potenzialità educative e relazionali per cui nasce.
Quale bambino vorrebbe andare a scuola? Andandoci, anche in base all’accoglienza ricevuta, prosegue, intraprende, il suo cammino pedagogico, inclusivo, relazionale. Non posso pensare a una giustizia che non riconosce il diritto dovere dell’istituto scolastico di accogliere e instradare per preparare alla vita.

Prima di chiudere ancora una nota sul linguaggio: nella Sentenza di Primo Grado si parla di una persona «portatrice di minorazione», nonché di «affetto sin dalla nascita da una grave forma di autismo», avvalendosi di un vocabolario erroneo, quantunque forse legittimo, poiché legato al lessico della giurisprudenza. Tuttavia discutibile nella sostanza in funzione della sua vetustà.
Questo è un altro segnale poco incoraggiante in ordine alla preparazione del nostro apparato giuridico in merito alla materia disabilità.

Ce n’è abbastanza. Rispetto la legge. Nulla contro le legittime assoluzioni. Ma le parole sono importanti. I concetti rappresentano i punti di vista. I punti di vista creano la cultura, dalla quale pure provengono. E la cultura che queste Sentenze trasmettono non mi piace per nulla.

L’Autore è Direttore responsabile di «Superando.it». Il presente servizio è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Una scuola, i tribunali e la disabilità ci va di mezzo”, e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

fonte: https://www.superando.it/2023/10/24/ma-la-cultura-che-quelle-sentenze-trasmettono-non-mi-piace-per-nulla/

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