Culle piene solo con misure strutturali. di Elisa Brini, Emmanuele Pavolini, Stefani Scherer

La legge di bilancio prevede varie misure per le famiglie. La novità che potrebbe incidere sulla natalità è la decontribuzione per le lavoratrici madri. Riguarda però solo donne con almeno tre figli, mentre servirebbero riforme universali e strutturali.

Legge di bilancio 2024: investimento in natalità

Il governo, nella legge di bilancio 2024, ha annunciato nuove misure a sostegno di famiglie, lavoro femminile e natalità, ulteriormente in calo (Istat). Secondo quanto si legge nel testo diffuso il 24 ottobre, gli interventi principali riguardano (a) un aumento del bonus per l’asilo nido per le famiglie con Isee inferiore ai 40 mila euro, col dichiarato obiettivo di coprire quasi totalmente le spese per il nido per i figli successivi al primo; (b) una riduzione dei contributi previdenziali per le lavoratrici madri di tre o più figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (senza tetto al reddito, ma nel limite massimo annuo di 3 mila euro). In via sperimentale per tre anni a partire dal 2024, la decontribuzione è estesa anche alle lavoratrici madri di due figli.

L’intervento per il bonus asilo nido sarà sostenuto da un aumento di 240 milioni di euro nel 2024 del fondo destinato alla misura, che si estenderà fino al 2029 con importi crescenti. Lo sforzo previsto dalla legge di bilancio appare rilevante se si tiene presente che Istat riporta una compartecipazione ai costi delle famiglie per le rette del nido nel 2019 pari a circa 280 milioni di euro.

Mirando ad alleviare i costi legati alle spese per crescere figli, facilitando la conciliazione tra famiglia e lavoro e aumentando gli incentivi a lavorare per le (pluri-)madri, il governo intende promuovere la natalità e la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Le scelte si muovono lungo un asse già sperimentato da molti paesi europei, dove sono state introdotte politiche pubbliche che permettono alle donne di combinare lavoro e maternità anche con l’obiettivo di invertire la bassa fecondità. Con una maggiore attenzione ai servizi educativi e ai loro costi, la bozza della legge di bilancio continua la strada intrapresa dalla precedente legislatura verso un welfare dedicato alle famiglie con figli più universale e attento a offrire un pacchetto di sostegni più integrato tra servizi educativi all’infanzia (si pensi alle risorse che il Piano nazionale di ripresa e resilienza riserva ai nidi) e trasferimenti monetari (si pensi all’introduzione dell’Assegno unico per le famiglie). Questi sforzi, però, avvicinano realmente il traguardo?

La rilevanza dell’istruzione e cura nella prima infanzia

Dell’importanza dei nidi, o meglio dell’istruzione e cura della prima infanzia, si è occupata un’ormai vasta letteratura. Sono documentati gli effetti positivi della disponibilità (e costi) di tali servizi sul lavoro delle madri, soprattutto per coloro che hanno più bisogno. Ci sono meno evidenze di ricerca sulle conseguenze sulla fecondità, ma studi internazionali indicano effetti positivi, soprattutto sulle prime nascite. E ci si può aspettare anche un effetto indiretto tramite l’aumento del lavoro femminile (rilevante non solo per l’autonomia delle donne, ma spesso indispensabile per il bilancio familiare) e la migliore conciliazione. In questo senso anche la decontribuzione potrebbe avere effetti sulla fecondità, seppur di modesta entità e di durata temporanea.

Non solo costi ma anche possibilità di accesso e qualità

La manovra mira a ridurre i costi dei nidi. Tuttavia, la misura rischia di avere un effetto limitato se i posti al nido non ci sono, una questione centrale anche nell’impostazione del Pnrr. I tassi di copertura dei servizi per l’infanzia sono notevolmente inferiori in Italia rispetto alla media europea: 26,3 per cento rispetto al 47,2 per cento europeo per la fascia 0-3 secondo Eurostat e con notevoli disparità regionali. Attualmente, la copertura dei servizi alla prima infanzia nel Centro-Nord è quasi doppia di quella al Sud. Precedenti studi si riferiscono per lo più a contesti dove l’accesso ai servizi all’infanzia è più diffuso, come in Svezia. Tuttavia, l’esempio il contesto tedesco, fino a pochi anni fa con un livello di copertura più basso dell’Italia per i servizi dedicati ai bambini sotto i tre anni, suggerisce che attraverso un massiccio investimento è possibile ottenere un’inversione dell’abbassamento delle nascite, pur partendo da una situazione di copertura medio-bassa.

Nascite successive alla prima. Una soluzione incompleta?

La legge di bilancio si concentra sull’abbassamento dei costi di cura formale e sulla decontribuzione per le lavoratrici madri dal secondo figlio in poi, probabilmente basandosi sull’idea che in Italia tutti abbiano almeno un figlio, e che quindi la bassa natalità sia dovuta alla mancata nascita di secondi e terzi figli. Tuttavia, con un tasso di childlessness ormai alto e in crescita, questa prospettiva non è (più) proponibile. In Italia, la percentuale di donne senza figli è raddoppiata, passando dal 10 per cento per le nate negli anni Quaranta al 21 per cento per quelle nate negli anni Settanta. Spesso, l’assenza di figli è l’esito non intenzionale della decisione di ritardarne la nascita. Uno studio pubblicato dal governo nel 2019 rivela che le motivazioni per ritardare o rinunciare alla nascita di un figlio sono spesso di natura economica e lavorativa (nel 41 per cento dei casi). Investire non solo nelle nascite dal secondo figlio in poi, ma anche nella transizione al primo figlio potrebbe essere una scelta più efficace dell’attuale.

Il bisogno di interventi universali e strutturali

Una vasta letteratura documenta l’importanza di una solida prospettiva economica e lavorativa per incoraggiare la natalità, accanto alla diminuzione dei costi per le rette dell’asilo nido, ma la vera opportunità di questa manovra potrebbe essere la decontribuzione per le lavoratrici madri.

Tuttavia, gli incentivi sono pensati strutturalmente solo per le madri con almeno tre figli (in via sperimentale per due anni per quelle con due) e, soprattutto, sono limitati a coloro che sono assunte a tempo indeterminato, una categoria minoritaria: analizzando i micro-dati Rfl Istat poco più di un terzo delle donne in età riproduttiva (18-45 anni) ha un lavoro dipendente a tempo indeterminato (l’1,28 per cento ha 3 figli). Si tratta di un target troppo limitato per poter incidere significativamente sulla natalità del paese.

Più in generale, ipotizzare che possano essere sufficienti interventi verso specifici bisogni di conciliazione e di cura dei (potenziali) genitori rischia di non dare i risultati sperati rispetto alla natalità. Vi è un problema di fondo in Italia, più accentuato rispetto a molti altri paesi del Centro-Nord Europa, che riguarda il livello di precarietà che caratterizza la presenza dei giovani nel mercato del lavoro, con i suoi effetti sulle prospettive di medio-lungo periodo.

Incentivare il lavoro delle madri è importante, per la parità di genere, per il benessere economico delle famiglie e per la fecondità, ma per ottenere risultati significativi in termini di natalità sono necessarie riforme universali e strutturali, anche rivolte al tema della precarizzazione del lavoro e non solo misure che, per quanto promettenti, presentano una durata e un target troppo limitati.

* Questo articolo viene pubblicato in contemporanea su Menabò di Etica ed Economia.

fonte: https://lavoce.info/archives/102647/culle-piene-solo-con-misure-strutturali/

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