Quel filo sottile e invisibile che lega tutti i diritti. di Orlando Quaglierini

Quando un’Associazione di genitori con figli con disabilità si fa promotrice di un’iniziativa sulle tematiche dell’immigrazione, sorge spontanea una domanda. Perché? Dov’è il nesso? Darò una prima risposta sintetica per svilupparla subito dopo.
Il nesso sta nel pensare che l’inclusione obbedisca ad una legge implicita non scritta, ovvero: O tutti o nessuno (slogan coniato a suo tempo da padre Bartolomeo Sorge). Proverò a declinarne ora le argomentazioni a sostegno.

Le persone con disabilità hanno dei bisogni specifici, particolari, per soddisfare i quali sono indispensabili interventi altrettanto specifici e particolari.
Per garantire tali interventi sono necessarie buone leggi, regolamenti ben fatti, competenze e risorse economiche adeguate. Ma le persone con disabilità hanno anche bisogni che non hanno niente di specifico, perché sono gli stessi che ha chiunque: alludo al bisogno di riconoscimento e del senso di appartenenza (riconoscimento inteso come bisogno di essere riconosciuti per quello  che siamo, il nostro ruolo sociale, quello che possiamo fare ognuno secondo le proprie possibilità e, soprattutto, quello che potremmo fare: il “potremmo” è una scommessa sul futuro, è un atto di fiducia, del gruppo  di  appartenenza nei nostri  confronti, ossia gruppo scuola, gruppo di amici, compagni di lavoro, di partito ecc).
La tutela di questi bisogni, a differenza dei primi, non la si può garantire con le leggi (per quanto buone), con la competenza (per quanto diffusa), con le risorse (per quanto ingenti). Questo perché tali bisogni affondano le proprie radici nelle relazioni sociali e nei rapporti interpersonali e, in quanto tali, né il singolo può rivendicarli come diritti esigibili, né alcuna Istituzione può garantirli. Tuttavia, proprio per la natura di questi bisogni, si può agire sul tessuto sociale al fine di promuovere, (soprattutto con le testimonianze. quei rapporti interpersonali che lo rendono più coeso e solidale.
Ma, ancora una volta, dov’è il nesso fra questa premessa e l’immigrazione?

La risposta potrebbe stare nell’ipotesi che la mancanza di riconoscimento e di senso di  appartenenza non siano patiti soltanto e in prevalenza dalle persone con disabilità, ma che sia un sentimento diffuso e condiviso da molti e che una delle cause sia da ricercarsi nel logoramento del tessuto sociale che ha alterato i rapporti interpersonali cambiandone i connotati, dove le relazioni sussistono, ma assumono le caratteristiche della diffidenza, della paura, del disimpegno e dell’indifferenza, tutti atteggiamenti che predispongono ad un ripiegamento egoistico e alla ricerca di soluzioni individuali (o di clan più o meno allargati) della serie “Salviamoci da soli!”.

Non ho né la presunzione né l’ingenuità di credere di aver compreso la causa di tutto questo, men che mai di averne trovato la soluzione; penso però di avere intravisto uno dei tanti bandoli di questa complessa e intricata matassa che necessita di una divagazione per essere spiegata.
Spesso la mia attenzione ricade sugli oggetti abbandonati in prossimità dei cassonetti, in particolare mi colpiscono i portainfance: quei sedili di sicurezza usati nelle auto per il trasporto dei bambini. Mi dico: il portainfance è progettato e costruito per essere resistentissimo, praticamente indistruttibile… e allora perché viene gettato? La risposta che mi do è semplice come l’acqua calda: a colui che lo getta non serve più e siccome non gli serve più, per lui non è più utile, e se non è più utile, per lui cessa di avere valore… è per questo che lo getta al pari di una cartaccia. Ma in fondo, si dirà, è un pezzo di plastica sagomata, perché farci tante storie… poi capita di leggere che l’azienda tale e l’azienda tal altra delocalizza, ovvero: fino al giorno prima si serviva delle maestranze del posto perché gli erano utili e quindi avevano un valore… quando scoprono che produrre altrove è più conveniente, quelle stesse maestranze non servono più, quindi non sono più utili e cessano di avere valore (tanto che l’interruzione del rapporto di lavoro viene comunicata con un SMS).

Potremmo analizzare molte altre situazioni tipiche della nostra società dove il valore di oggetti, persone, rapporti umani ecc. sono strettamente legati alla volatile utilità contingente (usa e getta).
Naturalmente esistono splendide realtà che resistono… direi sussistono, nonostante la deriva che sta attraversando la nostra società post ideologica: basti pensare al variegato e diffuso mondo del volontariato, ai piccoli paesi dove il tessuto sociale ancora tiene. Ma non solo.
Sono reduce da un’esperienza ospedaliera dove ho avuto la conferma di quante persone straordinarie e meravigliose ci siano, e poi come dimenticarsi di quei preti (non tutti) che continuano ad andare come pecore fra i lupi, o di quei docenti (non tutti) che testardamente vogliono insegnare a coloro che non vogliono imparare…
Ma il punto è proprio questo: che tutto ciò è una forma di resistenza rispetto ad una società che per come è strutturata e per come funziona, tende a indurre e a favorire un atteggiamento dell’usa e getta applicato a persone e cose.

Eccolo il bandolo che ritengo di avere intravisto: penso che il clima sociale deteriorato induca e favorisca atteggiamenti e visioni  del mondo dove ritroviamo, in un tutto coerente (sebbene in  negativo), il portainfance improvvidamente gettato via, quando potrebbe essere usato per altre centinaia di volte, la delocalizzazione selvaggia e crudele che solo la cupezza dei nostri tempi giustifica e assolve come pratica legittima, la mancata inclusione sociale delle persone con disabilità che stenta a realizzarsi e spesso si limita ad un inserimento burocratico più come ossequio formale alle leggi che lo impongono, che non per convinzione di coloro che dovrebbero realizzarla,, promuovendo  riconoscimento e senso di appartenenza. E ci ritroviamo anche il comportamento dissennato nei confronti dell’ambiente, e il dramma umano delle persone extracomunitarie, dramma che conosce forme di abbrutimento spaventose, ahimè non nuove nella storia, ma che, nel terzo millennio, pensavamo di esserci lasciati alle spalle, e invece, eccole lì, riproporsi in tutta la loro asprezza e crudezza. Abbrutimento, dicevo, non solo delle persone extracomunitarie in quanto vittime, ma anche dei loro carnefici e abbrutimento anche di chi, me compreso, osserva da spettatore nel silenzio della normalità.
È come se il tutto fosse tenuto insieme da un filo sottile e invisibile, che ha certo delle cause, senza per questo, tuttavia, voler alludere ad un tessitore occulto. E se questo ha un fondamento, allora anche tutte le volte che una donna subisce un oltraggio maschilista, tutte le volte che un extracomunitario (così come un qualunque lavoratore che opera in condizioni di soggezione e ricatto) subisce un sopruso, tutte le volte che una minoranza, pur che sia, subisce un affronto, ognuno di questi atti, sebbene indirettamente, è un colpo inferto all’inclusione delle persone con disabilità e questo in virtù di quel filo sottile e invisibile che unisce il  tutto.

Questa è la conclusione che mi è suggerita dal pessimismo della ragione… Ma io voglio invece essere guidato dall’ottimismo della volontà… e allora mi piace pensare che questo intreccio di fili sottili e invisibili possa funzionare anche al contrario e in maniera virtuosa. E se questo accade, allora può avvenire che una qualunque vittoria ambientalista in una sperduta località del mondo o la celebrazione di una conquista dei diritti di una minoranza oppressa…, sebbene indirettamente, portino, attraverso rivoli oscuri e imprevedibili anfratti, acqua al mulino dell’inclusione delle persone con disabilità.
Ecco perché farsi promotori di un convegno sull’immigrazione, eccolo il nesso con un’Associazione di genitori con figli con disabilità, perché ogni conquista valoriale, incluso un passo avanti nell’accoglienza degli immigrati extracomunitari (starei per dire risarcitoria, considerato che sono secoli che li deprediamo), è anche un passo avanti per l’inclusione delle persone con disabilità.

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