Non Autosufficienza: cosa vuol dire “Prestazione Universale”. di Tiziano Vecchiato

Si può rinunciare all’indennità di accompagnamento in cambio della “prestazione universale”? Ovvero di una determinata quantità di servizi, definita secondo i bisogni assistenziali di una persona.  Oggi il legislatore sa che non può mettere in discussione i diritti acquisiti e propone di scegliere quello che si ritiene più rispondente alle necessità personali. Ma la libertà di scelta sarà vantaggiosa o perdente?

La prestazione universale

 La prestazione universale è descritta dalla L. 33/2023 (leggi qui) , all’art.5 c2 come “introduzione, anche in via sperimentale e progressiva, per le persone anziane non autosufficienti che optino espressamente per essa, prevedendo altresì la specifica disciplina per la reversibilità dell’opzione, di una prestazione universale graduata secondo lo specifico bisogno assistenziale ed erogabile, a scelta del soggetto beneficiario, sotto forma di trasferimento monetario e di servizi alla persona, di valore comunque non inferiore alle indennità e alle ulteriori prestazioni di cui al secondo periodo, nell’ambito delle risorse di cui all’articolo 8. Tale prestazione, quando fruita, assorbe l’indennità di accompagnamento, di cui all’articolo 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18, e le ulteriori prestazioni di cui all’articolo 1, comma 164, della legge 30 dicembre 2021, n. 234”.

È quindi un’evoluzione della specie tradizionalmente chiamata “indennità di accompagnamento”. È stata introdotta oltre 50 anni fa come forma di “indennizzo” dell’incapacità istituzionale di garantire risposte ai bisogni e ai diritti delle persone con problemi di inclusione sociale.

Il riconoscimento della “indennità di accompagnamento” risale al 1968 (L. 28 marzo n. 406/1968 – Norme per la concessione di una indennità di accompagnamento ai ciechi assoluti). Poi è stata estesa agli invalidi civili totalmente inabili (L. 11 febbraio 1980, n. 18) e ulteriormente articolata dalla L. 21 novembre 1988, n. 508 “Norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti”. Interessante notare che già molti anni fa si prevedeva l’opzione: “Resta salva per l’interessato la facoltà di optare per il trattamento più favorevole” (art. 1 comma 5, L. 21 novembre 1988, n. 508). Nelle intenzioni della L. 33/2023 la possibilità di optare significa cercare di bilanciare le prestazioni economiche con i servizi. Da sempre la diffusa prevalenza di trasferimenti monetari senza servizi non garantisce aiuti adeguati alle persone che ne hanno bisogno e diritto. È un passaggio non facile, sul piano culturale e giuridico, perché negli anni ‘60 del Novecento l’idea di dare un’indennità riguardava molti ostacoli e barriere quotidiane che discriminavano le persone con disabilità nella mobilità, nella partecipazione e nell’inclusione sociale, senza poter offrire servizi degni di questo nome. Nei decenni successivi si è fatto molto per abbattere le barriere fisiche che avevano giustificato questo indennizzo.

La libertà di scelta sarà vantaggiosa o perdente?

Oggi il legislatore sa che non può mettere in discussione i diritti acquisiti e propone di scegliere quello che si ritiene più rispondente alle necessità personali. Ma la libertà di scelta sarà vantaggiosa o perdente? In una società con tante persone anziane c’è molto bisogno di servizi domiciliari. La domanda insoddisfatta è enorme (almeno un milione di persone nelle stime Pnrr che diventano 2 milioni stimati con indicatori epidemiologici). Sarà allora molto probabile trovarsi fra i perdenti che avranno scelto servizi, che però non riceveranno a causa della diffusa difficoltà di portarli nelle case delle persone. Conviene allora chiedersi prima di tutto quali saranno “i servizi garantiti dalla prestazione universale”. Riguarderanno le risposte garantite dai Leps (Livelli essenziali delle prestazioni sociali)? oppure riguarderanno le risposte garantite dai Lea (Livelli essenziali di assistenza sanitaria)? La prestazione universale riguarda i primi (Leps finanziati dall’assistenza sociale) e non i secondi (Lea “garantiti” dal fondo sanitario). In sostanza chi rinuncia all’indennità lo fa per ottenere maggiori risposte di assistenza sociale di tipo Leps, che però ora non riceve, o anche integrarle con quelle tipo Lea erogate e finanziate dal servizio sanitario nazionale?

Sono differenze sostanziali e da non sottovalutare, per non rinunciare a un indennizzo che consente di comprare nel mercato quello che l’offerta pubblica non garantisce in modo adeguato. Per ora i Leps non prevedono risposte aggiuntive rispetto a quanto oggi erogato dai servizi sociali domiciliari. È una mancanza che potrà essere superata dichiarando un nuovo sistema di classificazione delle risposte garantite dai Leps. Quello attuale infatti è molto generico e non orientato in questa direzione.

Diritti che regrediscono in opportunità

Alla luce di queste preoccupazioni, va seriamente preso in considerazione il contesto organizzativo in cui potrà avvenire la negoziazione, tenendo conto che i contenuti della prestazione universale sono “negoziabili in sede progettuale”. Significa che potranno rivelarsi discrezionali visto che spesso gli accordi progettuali nei servizi alle persone non vengono rispettati. Lo spazio di negoziazione previsto dalla legge è definito “progettazione personalizzata”, un setting dove negoziare contenuti, tempi, modalità erogative. Ma questa dinamica è spesso sbilanciata: da una parte il potere di chi può aiutare e dall’altra la fragilità di chi chiede aiuto. Nelle negoziazioni sbilanciate il più debole può trovarsi costretto a subire quello che gli viene proposto vedendo “regredire i propri diritti in opportunità negoziali di tipo progettuale”.

La differenza non è di poco conto: i diritti non possono essere opportunità discrezionali. Le persone che vivono in condizioni di ridotta autonomia potranno cioè ricevere meno di quanto ricevono oggi, nei modi e tempi condizionati dalle risorse a disposizione. Chi propone accordi progettuali di solito promette flessibilità e personalizzazione. Ma quando si fanno accordi con poche risorse (quelle previste non sono adeguate alla sfida) la discrezionalità nell’utilizzarle indebolirà inevitabilmente il sistema di fiducia necessario perché l’impianto giuridico e professionale del decreto non fallisca.

Con progetti personalizzati

Sono considerazioni che nascono dalla lettura del recente decreto legislativo: «Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato». È stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 3 novembre 2023. Dovrà acquisire l’intesa della Conferenza unificata, il parere del Consiglio di Stato, i pareri delle Commissioni della Camera e del Senato per poi essere varato in concerto con i Ministri del lavoro e delle politiche sociali, dell’economia e delle finanze e della salute, per gli affari e le autonomie.

Un analogo decreto sarà emanato in attuazione della legge n. 33 del 23 marzo 2023 “Deleghe al Governo in materia di politiche in favore delle persone anziane”, che in particolare all’art. 5 prevede una Delega al Governo in materia di “politiche per la sostenibilità economica e la flessibilità dei servizi di cura e assistenza a lungo termine per le persone anziane e per le persone anziane non autosufficienti”. Non si può pensare che il futuro decreto sarà in conflitto con le previsioni di quello che stiamo commentando. Riguarda le persone con disabilità, anche quelle che al raggiungimento dei 65 anni potranno rivendicare il diritto alla continuità e alla portabilità dei diritti acquisiti. Con questa doppia chiave di lettura, vediamo alcuni passaggi del provvedimento per meglio capire le potenzialità e criticità. All’art. 2 opportunamente si “definisce di cosa si sta parlando”.

A titolo esemplificativo proponiamo due definizioni:

  • 2 c.1 lett. m) il Progetto della persona con disabilità “partendo dai suoi desideri aspettative e preferenze, è diretto ad individuare, in una visione esistenziale unitaria, gli interventi, i servizi, i sostegni, formali e informali, per consentire alla persona stessa di migliorare la qualità della propria vita, di sviluppare tutte le sue potenzialità, di poter scegliere i contesti di vita e partecipare in condizioni di pari opportunità rispetto agli altri”.
  • Alla lettera o) dello stesso articolo si aggiunge il «budget di progetto»: “insieme delle risorse umane, professionali, tecnologiche, strumentali ed economiche, pubbliche e private, attivabili anche in seno alla comunità territoriale e al sistema dei supporti informali, da destinare al progetto di vita”.

Infine, l’Art. 28 c. 2 completa il quadro: “La predisposizione del budget di progetto è effettuata secondo i principi della co-programmazione, della co-progettazione con gli enti del terzo settore, dell’integrazione e dell’interoperabilità nell’impiego delle risorse e degli interventi pubblici e, se disponibili, degli interventi privati”. Sono esempi che fanno immaginare un reticolo di attenzioni, condensate in un testo di 38 articoli dove l’espressione “progetto” ricorre 83 volte, a riprova dell’enfasi dedicata a questo tema. Non sarà facile gestire negoziazioni e accordi dove sono coinvolti anche portatori di interessi pubblici e privati che offrono servizi. Potranno confondere i mezzi con i fini, il co-progettare con il co-promettere, il concordare al ribasso rendendo insicura e arbitraria la tutela dei più deboli.

Serve un diritto gentile

Diventa allora necessario ripartire da un “diritto gentile”. Se al centro c’è realmente la persona, l’aggettivo “gentile” non equivale a “debole” ma a “forte ed esigente” proprio per essere gentile con chi ne ha più bisogno, e perciò diritto. Parte dalla conoscenza e dalla comprensione delle condizioni umane. Ascolta e si interroga sui diritti da garantire, sulle condizioni vitali necessarie, sapendo che le ricadute positive delle norme non sono scontate perché non dipendono solo da come sono scritte.  Paolo Zatti, che oltre dieci anni fa ha avviato questa grande ricerca, ricordava già nel 1998 che: «è ambigua la tendenza a proporre disegni di legge di complessa e troppo minuziosa struttura, di difficile approvazione, di problematica gestione: con i risultati d’impotenza e di crescente forza dei fatti che tutti conosciamo». La struttura del decreto in effetti è complessa, minuziosa, puntigliosa e per questo rientra nei rischi appena descritti. Gli approcci chiari e luminosi nascono da una cultura illuministica e spesso si condannano a non dare buona prova di sé in ambito sociale.

Avviene quando separano la verità giuridica dalla verità esistenziale, invece necessarie per qualificare le scelte di cui stiamo parlando. La stessa idea di NA (Non Autosufficienza) utilizzata nelle due deleghe incoraggia una lettura negativa delle persone che vivono in questa condizione, sottovalutando le capacità che ogni persona ha a disposizione. La ragione è costituzionale perché anche chi è classificato NA, ieri come oggi, può rivendicare il diritto di avere doveri e di esercitarli “aiutandosi”, con le capacità e la dignità riconosciutegli dalla Costituzione. Il danno può avvenire maneggiando i diritti progettuali, tecnicamente a scadenza, che facilmente possono degradare in opportunità burocratizzate, fatte di prestazioni povere di umanità.

È il rischio della personalizzazione, quando espone i più deboli al potere di chi promette ma poi non garantisce risultati esistenziali, erogando prestazioni e non soluzioni. Può così vincere il prestazionismo remunerato che non umanizza la vita delle persone. Ma a chi conviene?

 

 

fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2023/12/cosa-vuol-dire-prestazione-universale/

Tiziano Vecchiato, Fondazione Zancan.

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