La persona al di sopra dell’istituzione: progetti di vita, integrazione sociale, lotta alle disuguaglianze e diritti umani. di Roberto Mezzina

Introduzione. Una ridefinizione della deistituzionalizzazione

I processi di deistituzionalizzazione nel mondo, specie se intesi riduttivamente come de-ospedalizzazione, si sono spesso tradotti in effetti perversi di trans-istituzionalizzazione, anche attraverso soluzioni ‘a vita’, e comunque di lungo periodo, di tipo residenziale.

La mancanza di sincronicità nella chiusura o nel ridimensionamento (downsizing) delle istituzioni psichiatriche con l’incremento dei servizi basati sulla comunità ha generato tutta una serie di problemi, insieme col trasferimento di pazienti in unità psichiatriche in ospedali generali, case di cura, alloggi assistiti e carceri (Shen & Snowden, 2014). La “trans-istituzionalizzazione” è stata definita come l’atto di trasferire i pazienti dagli ospedali psichiatrici ad altre istituzioni, come rifugi per senzatetto, istituti di custodia e carceri. Recenti ricerche suggeriscono inoltre una tendenza rinascente in Europa verso la “re- istituzionalizzazione” dell’assistenza, segnata dall’aumento del numero di trattamenti involontari, così come le strutture residenziali e di alloggio assistito, istituzioni psichiatrico-forensi, istituti penitenziari e carceri, oltre ai manicomi preesistenti, sebbene più piccoli, e a strutture private anche ad alta sicurezza. Tale mancanza di sincronicità ha avuto come conseguenza collaterale la frammentazione dei servizi, la mancanza di garanzia della qualità dei servizi disponibili, i tagli finanziari e la carenza di personale.

D’altro canto sempre più viene riconosciuto, da un punto di vista etico e anche scientifico, che la persona deve essere il vero punto di riferimento di queste politiche, e che essa va posta ‘al di sopra dell’istituzione’ come finalità ultima di ogni azione di ridisegno o di trasformazione dei servizi.

I documenti di indirizzo sulla deistituzionalizzazione, a livello dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite, negli ultimi anni hanno definito una nuova centralità delle persone come soggetti titolari di diritti, e sancito in particolare il diritto alla libertà della persona (art 14), alla vita indipendente e alla partecipazione alla società (art 19 CRPD). Su questo l’OMS ha costruito il programma QualityRights, con un imponente sforzo formativo e di orientamento per buone pratiche, politiche e legislazioni che rispondono ai diritti umani (Funk & Bold, 2020). Rilevante ad esempio il toolkit, che prevede di istituire un comitato di valutazione/visita di strutture e servizi di salute mentale per verificarne la rispondenza a 5 articoli-core della CRPD e, dopo una valutazione partecipata con gli operatori, sviluppare un piano di miglioramento. A ciò si aggiungono vari strumenti formativi che riguardano ad esempio la costruzione di un progetto personale di recovery da parte dell’utente.1

Nelle linee guida dell’OHCHR, il Comitato sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite (Comitato sui Diritti delle Persone con Disabilità, 2022), la deistituzionalizzazione comprende processi interconnessi che dovrebbero concentrarsi sul ripristino dell’autonomia, della scelta e del controllo delle persone con disabilità su come, dove e con chi esse decidono di vivere. L’attenzione è rivolta all’individuo nella realizzazione dei diritti umani: servizi come supporti basati sulla comunità per la vita indipendente e la partecipazione sociale, e assistenza personale.

1 Nelle Asturie (Spagna), sono state ad esempio in questo modo valutate 28 strutture, 186 utenti dei servizi, familiari e operatori sanitari intervistati, con una gamma completa di servizi. Il progetto ha prodotto alcuni importanti risultati, tra cui una carta dei diritti per le persone con disabilità psicosociali e la creazione di una commissione per la salute mentale con il compito di consigliare il Ministero per lo sviluppo di un piano strategico.

In Europa, già nel 2012 le linee guida emanate dal gruppo di esperti dell’UE sulla transizione dall’assistenza istituzionale a quella di prossimità definiscono l’istituzione come “qualsiasi assistenza residenziale in cui i residenti sono isolati dalla comunità più ampia e/o costretti a vivere insieme, non hanno un controllo sufficiente sulla loro vita e sulle decisioni che li riguardano; e dove le esigenze dell’organizzazione stessa tendono a prevalere sulle esigenze individuali dei residenti” (European Union, 2012). Il quadro giuridico oggi include, come componenti chiave, il diritto di vivere nella comunità, l’accesso ai servizi e alle strutture tradizionali, l’affermazione della capacità giuridica riducendo la tutela, il collocamento e il trattamento obbligatorio e la fornitura di servizi basati sulla comunità. L’elaborazione di piani individuali, il sostegno anche ai prestatori di assistenza e alle comunità e lo sviluppo di una forza lavoro adeguata sono altre componenti di queste linee guida.

Secondo l’ultimo World Mental Health Report dell’OMS, la deistituzionalizzazione comporta contemporaneamente l’aumento delle dimissioni, la riduzione dei ricoveri e l’aumento dell’assistenza nella comunità (WHO, 2022). Quest’ultimo punto è legato al costruire una rete di servizi di salute mentale e assistenza sociale coordinati e collegati a livello di comunità che possano promuovere la risposta ai bisogni e la realizzazione dei diritti di cittadinanza catalizzando risorse e opportunità.

La Guidance per i servizi incentrati sulle persone e basati sui diritti ha altresì messo in evidenza alcuni esempi di programmi e servizi residenziali per la crisi e per la recovery (WHO, 2021).

Il diritto all’abitare e i rischi di risposte istituzionali

In questo ambito, la questione dell’abitare va vista come dunque un diritto della persona. Disporre di un luogo di ‘vita indipendente’, non solo inteso come house (la casa come edificio) ma come home (la propria dimora), dovrebbe permettere a ciascuno di realizzare il diritto alla sua sfera privata, ma che può anche essere spazio per relazioni, e per ogni scelta quotidiana e di stile di vita (Borg et al. 2006). L’accesso alle opportunità e le modalità con cui realizzare tutto ciò non è automatico, ma richiede una battaglia per la realizzazione dei diritti sociali, che comprendano sia la titolarità del luogo di vita che l’individuazione dei giusti supporti a forme diverse di bisogno. Tali supporti non dovrebbero dunque pregiudicare livelli di scelta e di libertà, e introdurre forme pervasive di controllo e gestione della vita quotidiana.

Per altri versi, l’ambito della residenzialità viene legata alla costituzione di un setting terapeutico- riabilitativo e allo svolgimento di interventi e programmi relativi. In quanto tale, essa non è esente da rischi di violazioni dei diritti umani, istituzionalizzazione (con induzione di passività e dipendenza), segregazione sociale, e anche malpractice (vedi recenti inchieste in Gran Bretagna, The Independent, 11 Novembre 2023).

In Italia, il diritto all’abitare, inizialmente identificato nelle realtà più avanzate come parte dei diritti sociali e del riconoscimento della condizione di cittadinanza per persone con disturbo mentale e disabilità psicosociali, si è spesso confuso con i trattamenti in luoghi deputati alla riabilitazione. Tale tema è peraltro fortemente discusso anche in altri paesi nel ‘dopo manicomio’, laddove nella residenzialità si comprendono anche veri e propri reparti di lungodegenza, o comunque strutture dove le persone sono sottoposte a trattamenti anche obbligatori a medio e lungo termine.

Dopo la legge di riforma, fino alla chiusura finale degli Ospedali Psichiatrici, in assenza di un approccio per funzioni trasversali ai Servizi, nel nostro paese si è evidenziata una continua crescita della componente di servizio – prevista dal PONSM 1998-2000 – rappresentata delle ‘strutture residenziali’. Esse sono diventate talora, in carenza di interventi e progetti riabilitativi, perfino luoghi di esclusione delle persone e di sequestro delle contraddizioni dei Servizi (riguardanti ‘l’utente scomodo o difficile’; Mezzina, 2023). Ciò ha comportato la moltiplicazione di soluzioni residenziali caratterizzate da grande eterogeneità (de Girolamo et al. 2002) e che ha portato all’attuale classificazione in 3 livelli delle strutture residenziali psichiatriche (SRP) nel 2013 (poi recepita nei LEA del 2017). Tali pratiche risultano spesso complicate da forme vecchie e nuove di tutela che privano l’utente di potere decisionale e a volte ne ledono diritti fondamentali. Si è quindi definito un campo di nuovo tipo di istituzionalismo, spesso delegato ad un sociale che gestisce e amministra la cronicità, su cui ora si focalizza l’attenzione per una ‘nuova deistituzionalizzazione’.

Occorre quindi domandarsi fino a che punto l’ambito della residenzialità sia risposta a bisogni reali ovvero sia un artefatto prodotto da carenze sistemiche. Talora il loro sviluppo è stato inversamente proporzionale a quello dei servizi territoriali e ad una loro capacità di intervento e di presa in carico, complessiva e longitudinale. Tali servizi, e in particolare i CSM, dovrebbero restare titolari della presa in carico, responsabili e garanti dei percorsi e della continuità di cura anche sul lungo periodo e attraverso le soluzioni residenziali, introducendo però componenti riabilitative adeguate.

In un quadro in cui sono in generale carenti le valutazioni di esito, in Italia si iniziano a raccogliere dati nelle SRP relativi ad aspetti importanti della qualità delle cure, e a problematiche relative all’inerzia e passività istituzionali, come le attività giornaliere, l’attività fisica, la prospettiva di uso del tempo, oltre al ruolo delle relazioni interpersonali e dell’alleanza terapeutica (de Girolamo et al. 2020; Zarbo et al. 2023a,b). Altri aspetti rilevanti, come vedremo, sono stati indagati attraverso altri strumenti come il QuIRC (Martinelli et al. 2022).

Qui vanno poste a nostro avviso con chiarezza alcune questioni:

(a) una ridefinizione della riabilitazione come pratica sul territorio, (b) una maggior attenzione al ruolo dei determinanti sociali, (c) un allargamento del campo di ricerca dai fattori individuali a quelli collettivi ed ambientali, (d) la realizzazione di programmi e politiche, spesso ancora viste come sperimentali nonostante le evidenze, che siano maggiormente orientate nella direzione dell’integrazione sociale.

Riabilitazione: verso un nuovo razionale

Com’è noto, la questione della riabilitazione va posta e realizzata ben oltre i luoghi istituzionali. Un importante riferimento in questo ambito proviene dalle linee guida NICE (NICE, 2020), per cui i servizi di riabilitazione debbono essere sviluppati nella loro dimensione comunitaria e territoriale per le persone con psicosi complessa dovrebbero essere incorporati in una rete completa di servizi su base territoriale, fornire un approccio orientato alla ripresa che abbia un’etica condivisa e obiettivi concordati, un senso di speranza e ottimismo e che miri a ridurre lo stigma, e che si traduca in un’assistenza individualizzata e incentrata sulla persona, attraverso la collaborazione e il processo decisionale condiviso con l’utente e i carer coinvolti. Tali servizi devono essere offerti in un ambiente che sia il meno restrittivo possibile, aiutando le persone a passare da un sostegno più intensivo a una maggiore indipendenza attraverso il percorso di riabilitazione, pur riconoscendo che alcuni possano richiedere un supporto a lungo termine. Qui vengono distinti l’assistenza residenziale, l’alloggio supportato e il servizio mobile flessibile (floating outreach). Benché tengano conto di un modello ‘gradualista’ basato su un continuum di strutture e interventi residenziali a seconda dei livelli di disabilità (Ridgeway and Zipple, 1990), l’aspetto più rilevante è che le linee guida NICE pongono con chiarezza, al centro del processo, la costruzione di un progetto personalizzato, esteso sia agli aspetti clinici che a quelli psicosociali.

Inoltre si individua la necessità di organizzare un servizio che, nel pubblico, si occupi di riabilitazione psichiatrica, in collaborazione con vari partner anche del no profit, rivolti ad una popolazione target, ovvero persone adulte con ‘psicosi complessa’. Si pone il problema della territorialità delle cure, e quindi l’obiettivo di recuperare, attraverso lo sviluppo uniforme di tali servizi, l’utenza collocata “fuori zona”, in particolare in strutture e istituzioni private. Inoltre vengono proposti strumenti di valutazione idonei come il QUIRC (al cui sviluppo abbiamo contribuito nell’ambito dell’iniziativa europea DEMoBiNC), il quale comprende una serie di domini-chiave investigati sulla struttura nel suo complesso, nell’ipotesi che essi rappresentino dei proxi di esito in termini di qualità della vita e di recovery (Killaspy et al. 2011, 2012). Oltre agli aspetti terapeutici e ambientali, vengono considerati il rispetto dei diritti umani, l’interfaccia sociale, l’orientamento alla recovery e l’autonomia. Successivamente tale strumento ha richiesto una versione adattata all’abitare assistito e quindi più idonea al contesto italiano (QuIRC-SA) (Killaspy et a. 2016). Un primo studio che lo ha utilizzato, sia pure su un campione di 48 strutture e un numero limitato di utenti (n=161), ha mostrato risultati significativi. Il campione è segnato da lunga durata di malattia nonostante l’età media relativamente giovane, e da inattività lavorativa, mentre viene riportata una sostanziale equivalenza sul piano della gravità sintomatologica e del funzionamento sociale tra gli ospiti dei tre livelli istituzionali di SRP. I dati sulle strutture mettono in luce le difficoltà di dimettere nei tempi previsti dai LEA e di transitare tra i vari livelli, di reinserire le persone al lavoro, di garantire un’alta interfaccia sociale a partire dal coinvolgimento delle famiglie. Dal punto di vista dell’ingegneria istituzionale va considerata le debolezza in particolare delle strutture residenziali ‘estensive’ (SRP2), in termini di soddisfazione, qualità della vita, orientamento alla recovery, mentre appare accettabile, almeno nei limiti del campione considerato, il rispetto dei diritti umani (Martinelli et al. 2022). Tutto ciò segnala la particolare rigidità e sclerosi del sistema, che fa fatica ad uscire da una dimensione di chiusura e di autoreferenzialità.

Il problema è come agganciare questi rilievi al miglioramento di qualità o a una trasformazione istituzionale più complessiva. Il citato programma Quality Rights dell’OMS, per indagare sul rispetto dei diritti umani, nel basare la valutazione su un gruppo di stakeholders che interagisce con la struttura, gli utenti e gli operatori, intende realizzare un piano di miglioramento condiviso, ma a sua finalità non è evidentemente la trasformazione radicale o il superamento dell’istituzione in sé.

Il ruolo di determinanti sociali di salute, vulnerabilità e disuguaglianza

Al di là del tema del diritto all’abitare indipendente, per affrontare il secondo aspetto sancito dall’art 19 della CRPD, ossia il diritto alla partecipazione alla comunità, occorre costruire legami, relazioni, scambi con il contesto sociale, curando l’aspetto comunitario di ogni soluzione abitativa (e dunque il capitale sociale). Ciò è in relazione con qualità della vita e anche con esiti abilitativi, come dimostrato dagli studi preliminari del QuIRC (Killaspy et al. 2012).

Sappiamo che i ‘determinanti di salute’, ossia i fattori che potenziano o minacciano lo stato di salute di individui e comunità, sono collegati a scelte individuali, o a caratteristiche sociali, economiche e ambientali che spesso sfuggono al controllo degli individui (Marmot, 2005; CSDH, 2008). I fattori di rischio per molti disturbi mentali comuni sono fortemente associati alle disuguaglianze sociali, per cui maggiore è la disuguaglianza, maggiore è il gradiente di rischio. Pertanto, risulta di fondamentale importanza intervenire per migliorare le condizioni della vita quotidiana (WHO and Calouste Gulbenkian, 2014). Tra i fattori principali da considerare, vi sono la scarsa qualità e instabilità abitativa, e le caratteristiche negative dell’ambiente costruito; e lo scarso accesso all’assistenza sanitaria.

I determinanti sociali dovrebbero essere inquadrati come il risultato di disuguaglianze strutturali nei nostri sistemi istituzionali piuttosto che come vulnerabilità dei pazienti (Alegrìa et al. 2018). Essi predispongono gli individui e le popolazioni a cattive condizioni di salute fisica e mentale, all’aumento del rischio di molte malattie fisiche e mentali, a decorso e ad esiti peggiori di tali malattie quando si verificano (Compton & Shim, 2015).

Le disparità di accesso sono ancora una realtà nella maggior parte dei paesi europei, in cui l’assistenza in salute mentale continua a dipendere da elevati pagamenti ‘di tasca propria’ (out-of-pocket’), con relative disuguaglianze sanitarie e sociali. Il rapporto della Commissione Europea (Kluge, Azzopardi Muscat and Lazeri, 2023) mostra anche una mancanza di investimenti nella prevenzione e nell’assistenza alla salute mentale in più di 10 paesi europei. I disturbi psicotici sono distribuiti in modo diseguale in base alla posizione sociale. Le persone di status socio-economico più basso sono in generale più colpite da problemi di salute mentale. Stigma e discriminazione sono spesso inerenti a molte di queste disuguaglianze.

Il capitale sociale gioca qui un ruolo importante, essendo costituito dalle risorse disponibili per gli individui e per la società attraverso le relazioni sociali, e dalle caratteristiche dell’organizzazione sociale, come la partecipazione civica, le norme di reciprocità e la fiducia negli altri, che facilitano la cooperazione per il reciproco vantaggio. Il capitale sociale può influenzare la salute mentale in modi diversi, attraverso le sue componenti “strutturali” – connessione, appartenenza a organizzazioni – o “cognitive” – fiducia, senso di appartenenza e valori condivisi. Una review sistematica (Silva, Loureira and Cardoso, 2016) ha mostrato come la grande maggioranza (12 su 14, 86%) degli studi che valutano gli aspetti “strutturali” del capitale sociale ha riscontrato un’associazione statisticamente significativa tra le misure di basso capitale sociale e la cattiva salute mentale. Associazioni positive statisticamente significative sono state trovate in 24 (82,8%) dei 29 studi che hanno valutato la relazione tra le misure di svantaggio economico del vicinato e il disagio psicologico, la depressione e il suicidio. Studi longitudinali hanno suggerito (Alegrìa et al. 2018) che l’esposizione persistente a condizioni abitative di scarsa qualità può avere effetti negativi sulla salute psicologica di giovani (Katz et al. 2018) e adulti (Pevalin et al. 2017).

Temi di approfondimento per la ricerca epidemiologica

Qui non possiamo non allargarci a riconsiderare la “questione sociale” della psichiatria, oggi più che mai rappresentata dalle condizioni di vita, e di riproduzione sociale, dalle disuguaglianze, dalle vulnerabilità sociali.

E’ possibile quindi porre sotto una luce nuova anche la questione della ricerca epidemiologica in questo campo. Come è stato correttamente sostenuto (Gibson et al. 2021), appare necessario colmare il grande divario esistente tra gli approcci di popolazione (più comunemente incentrati sull’affrontare i rischi e i punti di forza nell’ambiente sociale) e l’attenzione dei ricercatori sulla valutazione di approcci specializzati e in gran parte individuali. Nel nostro caso, occorre in altre parole andare oltre il focus esclusivo su malattia e trattamenti, sulla ‘bontà e utilità’ delle strutture residenziali come setting terapeutico-riabilitativi, perdendo di vista i determinanti sociali e l’accesso ai diritti sociali degli utenti. Per una ricerca ‘ecologica’, occorre infatti ad esempio domandarsi come impattano i determinanti sociali di salute sul diritto all’abilitazione e alla riabilitazione, (art. 26 della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità), mentre è noto l’impatto reciproco della salute mentale sui determinanti sociali, in quanto una cattiva salute mentale può aggravare le scelte personali e influenzare le condizioni di vita che limitano le opportunità (WHO and Calouste Gulbenkian, 2014).

In riferimento al tema qui citato dell’accesso ai diritti sociali, occorre dunque chiedersi com’è nel dettaglio la configurazione dell’utenza delle SRP a 23 anni dalla chiusura finale di tutti i manicomi nel nostro paese. Chi sono i residenti, a che classe sociale appartengono, da che famiglie essi discendono? Quali ne sono le caratteristiche socioeconomiche? Da quale ambiente di vita gli utenti ospiti provengono (da strutture istituzionali, dalla strada, da una casa)? Quanti sono ‘homeless’ primari e/o secondari?

Altre domande riguardano le SRP in sé. Tra gli aspetti illuminati, almeno in parte, dall’uso del QuIRC, vi sono la sua dimensione e integrazione nel territorio (Martinelli et al. 2022). Occorre dunque chiedersi: quanti ospiti ha la struttura, e che rapporto c’è tra la sua dimensione, le sue caratteristiche di gestione, la qualità della vita e la soddisfazione? Dove è collocata la struttura, in quale situazione di integrazione sociale col territorio? Cosa sappiamo della rete sociale che è così rilevante per gli esiti (Terzian et al. 2013) e del capitale sociale di quel territorio?

Dal punto di vista più generale, un approccio ecologico non può non includere il ruolo dei sistemi sanitari per la salute mentale, a partire dalla relazione che c’è con tra le SRP e i servizi territoriali. Si interrompe in qualche modo la presa in carico territoriale e la continuità terapeutico-riabilitativa? Viene posto un livello di integrazione e di corresponsabilità nel piano di cura ovvero si tratta di una delega, di un vero ‘passaggio’ in carico alle SRP?

Gli interventi multilivello

Data la notevole evidenza dei legami tra i determinanti sociali e gli esiti della salute mentale, gli interventi multilivello per affrontare il ciclo dei determinanti sociali, volti a eliminare le disuguaglianze sociali sistemiche, come l’accesso a opportunità educative e lavorative, cibo sano, alloggi sicuri e quartieri sicuri, sono cruciali (Alegrìa et al. 2018). Un framework proposto (Bell, Donkin e Marmot, 2013) incorpora i livelli individuale, familiare, sistemico esempio, salute, istruzione), sociale (ad esempio, norme sociali) e macro (ad esempio, politico, economico). Tra gli esempi di programmi che vengono citati (Alegrìa et al. 2018):

  • Housing First, per migliorare i risultati abitativi, ridurre i tassi di ospedalizzazione ospedaliera e un uso più stabile dei servizi sanitari per le persone senza fissa dimora e con problemi di salute mentale, ma non per i sintomi clinici.
  • Le politiche sociali che mirano alla stabilità abitativa. Gli interventi basati sulla comunità che costruiscono fiducia e sicurezza nel quartiere, mitigano la violenza e la criminalità o migliorano la deprivazione sociale esistente nel vicinato, possono anche ridurre le disuguaglianze di salute
  • Communities That Care, una strategia di costruzione/mobilitazione della comunità volta a ridurre l’uso di sostanze, la violenza e altri comportamenti problematici tra i giovani a livello di comunità, che utilizza coalizioni di stakeholder.
  • L’uso di operatori sociali di comunità (CHW), anche del terzo settore, come espressione della stessa comunità, utili per le attività di sensibilizzazione, di aggancio alla comunità e di gestione dell’assistenza.

Innovazioni e soluzioni trasformative

Se la chiave è la persona, la sua soggettività, i suoi diritti, dobbiamo guardare a programmi innovativi che puntano alla personalizzazione dei progetti, all’interno di visioni orientate alla recovery e alla realizzazione di progetti di vita, coniugando l’attenzione anche agli ambienti di vita e alle modalità dell’abitare; e pure utilizzando strumenti di programmazione economica integrata e partecipativa. Linee di lavoro della sanità e del welfare, quali l’integrazione dei servizi, la logica di lavoro intersettoriale, la coproduzione con gli stakeholders, la mobilitazione del territorio, delle sue organizzazioni (nella visione di comunità ‘che curano’), hanno creato un nuovo quadro di riferimento e di senso per un agire orientato alla salute mentale di comunità.

Alcuni modelli innovativi sono descritti nel rapporto realizzato da un gruppo di lavoro per l’ISS (Scattoni et al. 2023). Tra essi qui ricordiamo:

  • Il già citato Housing First si basa sulla comprensione del bisogno dell’utente; un supporto che dura per tutto il tempo necessario; l’accesso ad appartamenti indipendenti; la separazione del trattamento dal diritto alla casa; l’auto-determinazione del soggetto; la definizione di un programma di supporto condiviso tra servizio sociale e utente (orientato alla recovery); la riduzione del danno (Tsemberis, 2010). Alcune esperienze hanno evidenziato come la persona possa venire reinserita nel mercato del lavoro grazie al processo di miglioramento dell’auto-stima e all’empowerment che avere un proprio alloggio può determinare. I progetti del Network Housing First Italia (NHFI), nato nel 2014 a Torino, constano di oltre 30 aderenti attivi in 12 Regioni e 25 città come Torino, Milano, Trento, Udine, Pisa, Trieste, Padova (Molinari & Zenarolla, 2018).
  • Altre modalità e tipologie di esperienza di abitare supportato sono indicate nel documento sopra citato, tra cui la domiciliarità innovativa, sperimentata in ambiti diversi (i servizi per anziani). Sono state realizzate in varie parti d’Italia soluzioni sperimentali di coabitazione per persone parzialmente non autosufficienti, altrimenti destinate a case di riposo o altre tipologie di strutture Tali soluzioni, finanziate con fondi ad hoc, sono attuate in alloggi di civile abitazione, attraverso contratti di locazione e servizi centralizzati (es. pulizie, servizi alla persona, pronta reperibilità), in funzione delle specifiche capacità residue delle persone. Il Budget di Salute (Starace, 2012) è di solito lo strumento che completa la realizzazione dell’inserimento delle singole persone in tali contesti, utilizzando meccanismi amministrativi di finanziamento come il FAP – fondo per l’autonomia possibile, applicato anche in salute mentale (FVG).
  • Una forma di co-housing supportato e sostenibile è stato messo in atto in Italia, in contesti cittadini vitali e prossimi ai servizi commerciali ed ai servizi sanitari Questo tipo di progetto offre, oltre la casa, bene primario e con caratteristiche importanti come quella che deve stare in zone centrali o vicini al centro delle città, il fattore convivenza come elemento positivo di salute), l’accompagnamento, la durata per un tempo illimitato (Magnano San Lio, 2021) – vedi box.

BOX – Il progetto della Comunità S. Egidio e dell’ASL RM 4

(Magnano San Lio, 2023)

A Civitavecchia, la Comunità di Sant’Egidio ha offerto da alcuni anni l’opportunità di dimorare in normali appartamenti per 2-6 persone, senza limite di tempo, e supporta e orienta le attività della vita quotidiana degli ospiti a persone in condizioni di disagio e difficoltà personale e sociale. Il programma comprende:

-automutuo aiuto, responsabilizzazione, compartecipazione economica secondo possibilità.

-rete di supporto sociale: coinvolgimento del condominio, negozianti, etc.

-inclusione nella comunità: frequenza di associazioni, pratica di attività sportiva, attività lavorative e di volontariato, frequenza aperta e flessibile del centro diurno del DSM.

-occupazione e lavoro (borse lavoro del CSM, inserimenti lavorativi in una cooperativa multiservizi, agricoltura sociale, ricerca di un lavoro nel pubblico e nel privato).

-tempo libero (laboratori di teatro, pittura, musica, grafica, sartoria, ceramica, palestra; sport; gite, soggiorni vacanze, feste, cinema e spettacoli, volontariato).

Dal 1° ottobre 2012 al 1° ottobre 2023, gli ospiti sono stati 57, con un’età media di 45,8 anni. La loro provenienza è disparata, sia da strutture istituzionali (SPDC: 3; struttura residenziale psichiatrica – casa di cura psichiatrica, comunità terapeutica, etc: 19, REMS: 1) che dal carcere (5) o dalla strada con senza dimora (16); 13 soggetti provenivano da casa propria.

Il programma è inclusivo rispetto alla nazionalità: oltre a 42 italiani, vi sono stati 4 gli stranieri comunitari (Romania) e 11 extra comunitari (Bosnia. Algeria, Bangladesh, Albania, Benin).

Di tale campione, sono tornate in famiglia 5 persone, restano attualmente in 13 appartamenti di co-housing 46 persone, 6 sono decedute.

Nel 2023 il progetto è stato identificato come Best Practice dal Ministero della Salute – Agenas, nel contesto del programma PONGOV cronicità.

E’ stato stipulato allo scopo un nuovo protocollo di intesa.                                                                                                              

La trasformazione della residenzialità a Trieste

Crediamo sia utile ripercorrere il percorso fatto a Trieste nel processo di superamento dell’ospedale psichiatrico. Esso ha compreso l’impiego di soluzioni abitative e riabilitative che si sono evolute in stretto rapporto con la rete dei servizi, in modo sinergico alla presa in carico realizzata dai Centri di Salute Mentale aperti sulle 24 ore nei percorsi di cura e di inclusione sociale. Dai primi gruppi-appartamento si è passati a piccole comunità residenziali e a nuclei di convivenza supportati, alla sperimentazione di modalità transizionali abilitative orientate alla recovery e poi, negli ultimi anni, a soluzioni di abitare supportato personalizzate e finalizzate alla vita indipendente. Tale processo si è completato nel 2016 con la chiusura delle ultime 3 piccole residenze nel comprensorio di San Giovanni destinate a persone con alta disabilità, tornate a vivere in normali abitazioni in affitto con il dovuto sostegno. La progressiva riduzione dei posti letto residenziali si è avvalsa della metodologia del budget di salute collegata al progetto terapeutico abilitativo personalizzato.

I dati indicano come la riconversione delle risorse dalle strutture agli ambiti di vita delle persone e ai loro contesti abbia avuto una serie di ricadute sul sistema complessivo, che rafforzano i progetti individuali di presa in carico delle persone con bisogni complessi (Ridente e Mezzina, 2016).

Il Progetto Personalizzato / budget di salute si declina sugli assi principali non solo dell’abitare, ma anche del lavoro e della socialità, a partire dai bisogni espressi dalle persone e dalle necessità individuate collaborativamente. Si tratta di una modalità di progettazione e di finanziamento innovativa nel mix pubblico/privato che lo scenario complesso della crisi del welfare e dell’integrazione socio-sanitaria ha generato e che sposta risorse economiche intorno alla persona. I partner, rappresentati da operatori del privato sociale (cooperative sociali A e B), co-gestiscono i singoli progetti e contribuiscono alla co- progettazione proponendo le azoni e le modalità concrete di realizzazione degli stessi progetti.

La sperimentazione di nuove modalità di abitare supportato e di residenzialità, permanenti e transizionali, si è resa possibile anche grazie a questo strumento. Tra esse, ricordiamo la casa per la recovery, operante dal 2015 (Casadio et al 2018 Oliveria et al. 2018). L’esperienza in gruppo di 6 giovani, con problemi di psicosi, coabitante per sei mesi, ha la finalità di favorire i percorsi individuali di recovery, anche attraverso la riduzione o la revisione dell’uso dei farmaci. I vari sotto-sistemi (gruppo della casa, gruppo familiari, operatori del privato sociale, operatori del DSM), dialogano tra loro sulla base dei principi della massima trasparenza e condivisione delle decisioni, che vedono sempre i giovani utenti come protagonisti. L’uscita dalla casa coincide con la costruzione di un progetto personalizzato, che può essere sostenuto con budget di salute.

Contemporaneamente, lo sviluppo di moduli di supporto flessibili per la domiciliarità ha permesso di realizzare una rete supportata, con soluzioni di coabitazione e di mutuo aiuto che mettono in comune le risorse per la quotidianità (cuoche, pulitrici, badanti), a volte anche con l’impiego di peer, o di familiari in supporto ad altri, che possono anche rappresentare punti di riferimento, sulla base della convivialità, per altri utenti che vengono ospitati. Tra essi, appartamenti transizionali sono stati realizzati negli alloggi messi a disposizione dalla LR n. 15, che restavano di proprietà pubblica, e quindi non potevano essere case “delle persone”. Pertanto essi sono stati utilizzati come soluzioni transitorie per percorsi progressivi, a volte in uscita dalla residenzialità a tipo comunità sulle 24 ore, altre per facilitare la fuoriuscita da lunghe permanenze nei CSM. (Mezzina e Ridente, 2015).

Conclusioni

In via di sintesi finale, ci preme sottolineare alcuni punti principali, che sono pure contenuti nelle raccomandazioni del documento per il CSS su cui abbiamo lavorato (Scattoni et al. 2023). Va impostata una politica di graduale riconversione della spesa verso forme di abitare assistito e di supporto nei percorsi di vita quotidiana, mentre va potenziata la capacità di presa in carico di lungo periodo da parte dei DSM delle persone con bisogni complessi. E’ necessario attuare un passaggio dal sistema delle rette per il posto in struttura, ad una quota di investimento economico sul capitale umano costituito dal soggetto, ingaggiato in un percorso abilitativo che favorisce l’evoluzione del suo orizzonte esistenziale. Ciò è facilitato dallo strumento “budget individuale di salute”, e richiede leggi, regolamenti, politiche idonee, ed una governance dei processi individuali e collettivi realizzata da tutti i partner e gli stakeholder. Va quindi realizzata una ‘co-produzione’ col Terzo Settore per i progetti di inserimento abitativo, in termini di co-progettazione e co-gestione, senza alcuna delega globale, che vanno coniugati ad altri aspetti di reinserimento socio-lavorativo.

L’ottica va spostata dalle strutture ai percorsi di cura, tenendo distinti gli aspetti alloggiativi e di vita quotidiana dai trattamenti, che possono essere anche forniti dai servizi che operano dall’esterno, sul territorio.

La riabilitazione psicosociale va inserita sistematicamente nelle attività dei CSM e di tutti i servizi di salute mentale, come attivazione precoce di risposte finalizzate alla ripresa e al reinserimento delle persone, anche attraverso strutture dipartimentali dedicate o gruppi di lavoro funzionali. Il progetto personalizzato è alla base della programmazione, ponendo la soggettività dell’utente, la ripresa personale e l’inclusione sociale al centro del processo che può anche comportare il suddetto ‘budget di salute’. E’ altresì indispensabile garantire il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in particolare relativamente alla restrittività degli ambienti abitativi, prevedendo pieno consenso e possibilità di scelta per il soggetto e libertà di movimento e circolazione ‘verso e nella’ comunità.

Il diritto alla vita indipendente e alla partecipazione alla società (art 19 della CRPD) sono diritti umani particolarmente rilevanti per il tema dell’abitare. Per garantire a persone con disabilità psicosociali la prospettiva di una casa propria, dove ricevere gli eventuali supporti, si richiedono allora politiche e programmi che pongano al centro la ricostruzione della cittadinanza e la risposta ai bisogni fondamentali e ai determinanti sociali di salute mentale. Nel valutare la qualità dei programmi e dei progetti, dei trattamenti e delle cure, vanno quindi considerati insieme nel loro complesso la realizzazione dei diritti, la recovery personale, gli esiti clinico-riabilitativi, la costo economia, la costo efficacia delle soluzioni diversificate che si adottano. Va infine sostenuta e incoraggiata la sperimentazione di modalità e programmi innovativi nella area della residenzialità.

Per quella che è stata definita come ‘nuova deistituzionalizzazione’, ovvero la trasformazione e il superamento di forme di residenzialità ‘pesante’ passive e alla fine cronicizzanti, vanno allestite soluzioni che si fondano sul diritto all’abitare e ad una vita il più possibile autonoma e indipendente, in contesti adeguati capaci di incrementare l’integrazione sociale e il capitale sociale delle persone ospiti. Contemporaneamente, va riconsiderata una visione della riabilitazione psichiatrica che si estenda ben oltre i luoghi residenziali o semiresidenziali e che rappresenti un asse centrale del lavoro dei servizi di salute mentale, in integrazione e ‘co-produzione’ con il terzo settore. Vanno riguardati gli aspetti complessivi della riabilitazione, inclusi i fattori ambientali e i determinanti sociali, per ridurre le disuguaglianze e realizzare la condizione di cittadinanza auspicata dal quadro normativo della riforma.

E’ necessario pertanto vincolare la ricerca con la pratica; i livelli amministrativi con le ipotesi di cura; la co-progettazione sistemica di enti, istituzioni e servizi con la soggettività e il diritto alla scelta di coloro che ne devono essere considerati i veri protagonisti; infine, la presa in carico dei servizi territoriali, anche attraverso l’asse abitare, con il percorso di recovery e inclusione sociale.

Autore:

Roberto Mezzina, psichiatra, Trieste,

International Mental Health Collaborating Network, World Federation for Mental Health

Congresso SIEP, Bologna 26 novembre 2023 Sezione: Residenzialità e progetti innovativi

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