Noi, le piante e l’intelligenza. di Paola Bonfante

Sono comparse sulla terra 450 milioni di anni fa. Dominano il nostro pianeta con la loro imponente biomassa: 450 gigatonnellate di carbonio contro le minimali 0,06 degli umani. Dipendiamo da loro per l’ossigeno che producono e per il cibo che ci danno. Sono le cruciali mediatrici della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, e questo valore è strettamente legato al cambiamento climatico. Sono le piante le attrici che – in ipotetico triangolo – legano la salute umana con la salute dell’ambiente nel contesto del One Health, la cui visione olistica è attualmente alla base di molte agenzie internazionali e nazionali.

Molti dei Sustainable Developmental Goals hanno direttamente o indirettamente identificato le piante come target di azioni specifiche. Importanti progetti europei come From Farm to Fork si fondano su un incrocio di ricerca, tecnologia, management il cui obiettivo è mantenere alta la produttività delle piante coltivate, pur riducendo drasticamente l’uso di pesticidi e fertilizzanti. La politica spesso usa il green come bandiera. Diamo spazio alla natura; usiamo un approccio rigenerativo. Nei paesi ancora fuori dalla guerra, questi sono gli imperativi per le generazioni più giovani e sensibili all’ambiente.

Per tutti questi motivi, da alcuni anni le piante sono finalmente uscite dal cono d’ombra in cui la plant blindness, la dispercezione per cui molti esseri umani tendono a non notare le piante in un determinato ambiente, le aveva confinate. Anche in Italia i non specialisti guardano alle piante con rinnovato interesse e rispetto. Tuttavia, a differenza della ricerca scientifica e dei testi universitari, dove l’obiettivo è capire i meccanismi, nella comunicazione stampata, nel web o nella pubblicità, lo spazio dato alle piante e al mondo, che ruota attorno a esse, mostra due letture dominanti. C’è una visione utilitaristica, per la quale le piante nei campi, nei boschi e nei giardini, sono viste non solo come sorgenti di cibo “naturale” che richiama il buon tempo antico, ma anche di bellezza, grazie a profumi e colori che allietano la vita. Grazie all’architettura contemporanea che sostiene boschi verticali, tetti verdi e orti urbani, le piante diventano le compagne della vita degli umani anche nell’ambiente urbano. Da sempre elementi ornamentali nella storia umana, dalle antiche civiltà del Mediterraneo al Liberty del XX secolo, le piante nel nostro XXI sono diventate ora attrici reali, come fossero dei mattoni, una parte integrante dell’architettura. L’altra lettura dominante guarda invece alle piante attraverso una lente antropomorfica, che permette la costruzione di sentimenti e relazioni: in questa narrazione le piante si arricchiscono di sfumature “new age” diventando portatrici di doti taumaturgiche e di benefici psicofisici. È il potere del verde.

In questo contesto si pone un dibattito che vede contrapposti divulgatori e ricercatori con competenze diverse: le piante sono intelligenti? Google indica decine di titoli di libri sull’argomento, che spaziano dalla vita segreta delle piante, alla loro sensibilità, alla loro capacità di avere intenzionalità e memoria, identificando anche una nuova disciplina, la neurobiologia delle piante illustrata in un saggio da Brenner e colleghi nel 2006. Alcuni di questi libri introducono elementi estremi: le piante non solo apprendono, ma anche “parlano” all’essere umano facendo rivivere elementi di un vitalismo/animismo arcaico.

Tuttavia, se un’analisi simile è condotta usando un motore di ricerca scientifico (plant intelligence) i risultati sono molto limitati: lavori sull’intelligenza delle piante pubblicati su riviste scientifiche con un buon valore di impatto sono pochi. Sono, inoltre, per lo più, lavori di riflessione teorica, con pochi dati sperimentali. Negli ultimi anni, alcuni di questi lavori sono stati scritti da filosofi o da psicologi, ma certamente le scuole di biologia vegetale che indicano le direttive attuali in un settore così fondamentale per il bene dell’umanità, non sviluppano tale domanda.

Può essere interessante cercare di trovare una spiegazione su questa diversa percezione. Tutto parte dalla definizione di intelligenza. Se intelligenza è la capacità di un individuo di affrontare e risolvere i problemi, promuovendo la propria fitness individuale, senza dubbio le piante sono intelligenti, esattamente come lo sono tutti gli organismi viventi. Ogni cellula vivente, dal batterio Escherichia coli all’alga unicellulare e agli individui multicellulari, come un delfino o una Ginkgo biloba, possiede una membrana cellulare che separa l’ambiente interno da quello esterno. Grazie a essa, la cellula si interfaccia con il proprio ambiente, ne riconosce gli stimoli, li decodifica, li interpreta, e mette in atto delle risposte regolando il proprio metabolismo. Le piante quindi rispondono agli stimoli esterni e si adattano a un ambiente mutevole. Colonizzano tutti gli ambienti, dai deserti agli oceani, quindi la loro capacità di adattamento è straordinaria, come ben dimostrato dalla loro storia evolutiva.

Tuttavia, questa è la caratteristica insita nella definizione biologica di vivente: un individuo che non si adatta al cambiamento perisce. Un eccellente esempio è dato dalla cosiddetta “catastrofe dell’ossigeno“: l’estinzione di massa delle primitive forme di vita anaerobica della Terra causata dall’accumulo di ossigeno che si creò nell’atmosfera terrestre con la comparsa dei cianobatteri circa 2 miliardi di anni fa. Nelle nostre condizioni attuali, i batteri rappresentano il gruppo di viventi di maggiore successo nel nostro pianeta come plasticità metabolica e capacità di occupare ogni nicchia, superando meglio di tutti gli altri le difficoltà della vita sulla terra. Una definizione strettamente biologica di intelligenza (capacità di adattamento) porterebbe a mettere i batteri in testa alla classifica degli organismi più intelligenti.

La capacità di adattamento delle piante si realizza anche attraverso una serie di movimenti: sono sessili per natura, ma in grado di muovere alcune parti del loro corpo, grazie alla tipicità della cellula vegetale e alla sua capacità di richiamare e perdere acqua, acquisendo e perdendo turgore. Le piante rispondono quindi alla luce incurvandosi verso la sorgente luminosa (fototropismo); spingono le loro radici verso il basso (gravitropismo) e il fusto verso l’alto (gravitropismo negativo); piante come Mimosa pudica e alcune piante carnivore rispondono al contatto scattando rapidamente (tigmonastia), altre lo fanno lentamente, avvolgendosi intorno a un sostegno come le rampicanti, che hanno imparato a sfruttare i supporti disponibili (tigmotropismo). Il vantaggio evolutivo per queste piante è che esse risparmiano le risorse necessarie per costruirsi un solido tessuto meccanico che ne sostenga il peso, anche se devono, come nel caso di Parthenocissus tricusposata, produrre dei cuscinetti adesivi, delle vere e proprie ventose. Sono le piante rampicanti ad avere affascinato Charles Darwin, che nel suo saggio I movimenti e le abitudini delle piante rampicanti, tradotto in italiano già nel 1878, individua nelle radici una sorta di cervello delle piante. Proprio per questo Darwin, insieme al figlio Francis, è citato come il primo ad aver parlato di intelligenza delle piante con la sua root-brain hypothesis.

Le molteplici e differenziate risposte delle piante all’ambiente da una parte si possono riassumere – come in una facile divulgazione – dicendo che le piante posseggono i sensi come gli animali, dall’altra – e non c’è contraddizione – si possono spiegare attraverso una serie di eventi genetico-molecolari-fisiologici che permettono di chiarire la risposta fenotipica (l’incurvarsi della pianta verso la luce, per esempio). In questo caso, il processo parte dai recettori che catturano la luce blu, il cui segnale porta alla sintesi di proteine specifiche, oltre che dell’auxina, l’ormone vegetale che controlla la distensione cellulare, fino ad arrivare all’organo bersaglio, che è il tessuto epidermico del fusticino. Qui, le cellule si distendono in modo irregolare (si accumula più auxina nella parte in ombra) in modo tale da incurvarsi verso la luce. Quindi tutti i movimenti sia quelli più rapidi quanto quelli più lenti sono sempre riconducibili a processi di percezione di uno stimolo attraverso recettori che attivano specifiche vie di segnalazione. Nelle piante, un ruolo cruciale di secondo messaggero è svolto dal calcio che, cambiando la sua concentrazione all’interno della cellula, regola svariati processi, come anche nelle interazioni tra piante e microorganismi. L’approccio riduzionistico permette quindi ai ricercatori di spiegare molti dei processi che le piante realizzano nelle loro risposte all’ambiente senza la necessità di coinvolgere meccanismi cognitivi, di intenzionalità o di apprendimento.

L’intelligenza è infatti associata a un complesso di facoltà psichiche mentali, che permettono di elaborare modelli astratti della realtà, fare previsioni, esprimere giudizi, avere consapevolezza di sé e apprendere. La definizione di intelligenza non è pertanto strettamente legata a un organo, ma certamente la neurobiologia dimostra come molti dei comportamenti cognitivi siano associati al funzionamento del sistema nervoso, del cervello e della complessa rete di neuroni. La neurobiologia ha anche identificato come precise funzioni (il linguaggio, per esempio) corrispondano all’attività di specifiche aree cerebrali. Parlare di neurobiologia vegetale sembra pertanto essere una metafora insidiosa e potenzialmente fuorviante, visto che per certo le piante non posseggono anatomicamente tali sistemi, avendo avuto una storia evolutiva del tutto lontana da quella dei metazoi. Inoltre l’intelligenza (nell’essere umano come negli animali) ha anche un’importante componente emotiva, basata sulla capacità di mettersi in relazione con l’altro da sé, attuando comportamenti altruistici o cooperativi.

Questi aspetti emotivi sono colti da Susanne Simard, una famosa ricercatrice canadese, nel suo libro L’albero madre (2023). Partendo da rigorosi studi in cui dimostrava il passaggio di carbonio marcato da una pianta donatrice a una ricevente, messe in connessione grazie al micelio di un fungo micorrizico, ora la ricercatrice racconta di una foresta in connessione (il WWW dei boschi), di una comunità in cui vige la cooperazione, e dove le piante madri nutrono i loro piccoli (i germogli nati dai suoi semi) attraverso la rete sotterranea che i funghi simbionti costruiscono nel suolo. Tale visione è diventata molto popolare e di successo e risponde certamente al nostro bisogno di vedere un disegno “buono” nella natura, attribuendo valori positivi al mondo vegetale. Tuttavia, questa narrazione è fortemente criticata in quanto i lavori su cui si poggia mostrano debolezze sperimentali, e spesso non hanno avuto un corretto referaggio.

Al di là dei commenti tecnici, la critica maggiore è sempre quella di un eccesso di antropormorfizzazione. Il tema del WWW degli alberi rimane pertanto aperto e richiede sicuramente una più accurata sperimentazione. Non ci sono dubbi: oggi le piante attirano attenzione da settori diversi. Oltre alla divulgazione, i ricercatori delle scienze cognitive si pongono interrogativi carichi di valore filosofico: come si chiede il filosofo Emanuele Coccia (in La vita delle piante, 2018) le piante sono il respiro, il pneuma del mondo? Dall’altro lato, i biologi vegetali scendono sempre più in profondità nel decifrare la complessità dei meccanismi che controllano l’operatività delle piante. Tuttavia, se fate loro una domanda sull’intelligenza nel mondo vegetale, pensano – per lo più in accordo con Karl Popper e con il suo principio di falsificabilità – che al momento l’attività cognitiva e di apprendimento delle piante non sia sperimentalmente dimostrata. Se si valuta come attualmente il concetto di rigenerazione alla base della forestazione e dell’agricoltura sia importante per le politiche europee, e non solo, il problema dell’intelligenza delle piante appare non come un ozioso dibattito, ma assume rilevanza politica. La governance penserà al WWW delle piante che si parlano e comunicano con l’essere umano grazie alla loro intelligenza o seguirà le visioni più riduzionistiche dei ricercatori (Eckert et al, 2023)?

fonte: https://www.scienzainrete.it/articolo/noi-le-piante-e-lintelligenza/paola-bonfante/2024-02-16

Crediti immagine: Martin Sanchez/Unsplash

Paola Bonfante Dottore in scienze biologiche presso l’Università di Torino (1970), professoressa di Biologia vegetale all’Università di Torino (1984-2017), è ora professoressa emerita (2018). E’ stata direttore del Dipartimento di Biologia Vegetale (2006-2011), responsabile del Centro di Studi di Micologia sul Campo del CNR (Istituto di Protezione delle Piante di Torino) (1995-2009), Coordinatrice del Dottorato in Biologia e Biotecnologia dei funghi, e poi del Dottorato in Scienze Biologiche e Biotecnologie (2000- 2013). È stata componente del comitato scientifico del CNR (2012-2016), membro dell’Accademia delle Scienze di Torino (2000), dell’Accademia dell’Agricoltura di Francia (2017) e dell’Accademia dei Lincei (2011). Ha vinto il premio per la biologia vegetale dell’Accademia dei Lincei nel 2010, nonché il premio della “French food spirit-science” di Parigi (2010). È membro del gruppo 2003 per la ricerca scientifica in qualità di ricercatrice italiana highly cited.
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