Legittimare la ricchezza. Riflessioni sul libro di Guido Alfani. di Maurizio Franzini

Maurizio Franzini riflette su una delle questioni centrali nel libro di Guido Alfani, As Gods among men. A history of the rich in the West: la legittimazione sociale dei ricchi o super ricchi. Dopo aver riassunto le tesi di Alfani sulle diverse modalità in cui si è cercato di favorire tale legittimazione nel corso dei secoli, Franzini si sofferma sulle due modalità oggi più ricorrenti: la filantropia e le imposte progressive, interrogandosi anche sul rapporto tra legittimazione dei ricchi e giustizia sociale.


Nel 14° secolo Nicole Oresme, straordinario intellettuale che – da quello che apprendo – scrisse di astronomia, di matematica, di scienza del moto, di economia e di altro, suggeriva alle città che volessero essere democratiche di bandire i ricchi perché costoro avrebbero conquistato il potere politico e ciò li avrebbe fatti apparire, in rapporto alle persone ‘normali’, come ‘un Dio tra gli uomini’, con la conseguenza di innescare rivolte sociali. Di ciò veniamo a conoscenza leggendo il libro di Guido Alfani, che tra i vari meriti ha anche quello di avere preso a prestito da Oresme le parole che danno il titolo al suo libro. Un libro… ricchissimo sui ricchi e Alfani in una breve presentazione tiene a sottolineare che si tratta, appunto, di un libro sui ricchi e non contro di loro.

I temi affrontati, con l’ausilio di encomiabili riferimenti a specifiche situazioni e personaggi su un arco temporale di sette secoli, sono moltissimi. Sintetizzo.

Nella prima delle tre parti del libro, Alfani affronta principalmente il tema di cosa si intenda per ricchezza e di come definire i ricchi o super ricchi. Nella seconda parte analizza i percorsi di creazione della ricchezza (soprattutto quella estrema) e la loro evoluzione nel corso dei secoli. Sono molte le questioni trattate in queste due parti che meriterebbero commenti e approfondimenti, ad iniziare dal rapporto (e le differenze) tra essere ricchi di patrimonio o di reddito o, ancora, di entrambi. Ma in queste brevi note intendo soffermarmi sul tema, cruciale, trattato nella terza parte: la legittimazione sociale dei ricchi nel corso dei secoli e, soprattutto, ai giorni nostri.

La legittimazione, nei secoli. Alfani parte ricordando che la presenza dei ricchi ha iniziato a essere un disturbo sociale nel Medio Evo. Ai ricchi – quando non erano nobili, considerati i prescelti da Dio – era chiesto di non apparire tali o almeno di non mostrare tutta Ia Ioro ricchezza perché l’eccesso di ricchezza era considerato peccaminoso in sé oltre che dannoso per il buon funzionamento di una società (cristiana) e delle sue istituzioni. Considerato che il problema veniva ‘risolto’ nascondendo le ricchezze, più che una legittimazione questa appare una rinuncia alla stessa.

Successivamente, a partire dal 15° secolo, la legittimazione venne a dipendere, per così dire, dai comportamenti sociali dei ricchi; essenzialmente dal contributo che davano per far fronte a vari bisogni ed emergenze. La ricchezza diventava il serbatoio da cui attingere, attraverso la tassazione o contributi straordinari, le risorse necessarie per fronteggiare crisi, carestie o guerre. Potremmo chiamare questa la legittimazione dell’assicuratore di ultima istanza. Uno dei primi interpreti di questo ruolo fu Cosimo de’ Medici ma la consuetudine si protrasse a lungo se è vero che all’inizio del XX secolo J.P. Morgan assunse il ruolo di salvatore delle banche americane dal fallimento.

Tornando nuovamente intorno al 15° secolo i ricchi meno avidi iniziarono a contribuire con la Ioro magnificenza allo splendore delle città. Dunque, il decoro urbano come base della legittimazione. E qui trovò modo di manifestarsi un precoce elogio dell’avidità. Alfani scrive che Poggio Bracciolini, nel 1428 in De Avaritia, affermò che le città dovevano disporre di molti individui avidi per costituire un granaio privato di danaro da cui attingere in caso di bisogno. Il fatto che il bisogno potesse essere aggravato dalle modalità di formazione di quel granaio non venne preso in considerazione e questa disattenzione sembra aver messo radici nei secoli. In ogni caso tra grandi ricchezze e responsabilità sociali, come ha scritto Cummings nella sua breve recensione al libro di Alfani, vi è una tensione che nel corso della storia si è cercato di alleviare imboccando vie tra loro diverse, ma forse neanche troppo, alla legittimazione. Tra di esse, le più recenti sono quelle della filantropia e della tassazione progressiva.

La filantropia. Alfani scrive che la filantropia si è affermata a partire dal 18° secolo quando iniziò a essere una sorta di dovere al quale i più ricchi adempivano in vario grado e non solo per generosità o benevolenza, ma anche per trarne vantaggi in termini di legittimazione e, nei tempi a noi più vicini, anche di benefici fiscali. Di interesse, al riguardo, è quanto emerge da una recente indagine condotta da J.F. Black e S. Davidai sulla percezione della filantropia da parte dell’opinione pubblica. È molto diffusa l’idea che essa segnali una sorta di meritorietà dei ricchi che la praticano in quanto predispone a ritenere – naturalmente senza prove certe – che la loro ricchezza sia il frutto del merito (qualunque cosa voglia dire).

Da alcune indagini generali sulla meritorietà della ricchezza (indipendentemente dalla filantropia) risulta che essa è riconosciuta da una minoranza della popolazione; vi sono, però, notevoli differenze tra paesi e sembra che laddove è più diffusa la filantropia è anche più diffusa la convinzione che la ricchezza sia meritata e frutto del duro lavoro, dal quale (questo potrebbe essere il sottinteso socialmente meritocratico) la società ha preventivamente tratto vantaggio.

Rispetto all’efficacia della filantropia come via di legittimazione sociale possono, però, sorgere alcuni problemi.

Ecco il primo. Se ciò che interessa ai super ricchi è (anche) convincere che le Ioro ricchezze e i Ioro redditi sono meritati può ben darsi che una volta acquisita la consapevolezza di questo successo essi riducano il proprio impegno nella filantropia. Questo sembra essere accaduto di recente negli USA, come riporta The Economist, attingendo anche a Forbes. Dunque, potrebbero aversi cicli di filantropia, con la conseguenza che si tratterebbe di una soluzione instabile. A indebolire l’efficacia legittimante della filantropia forse contribuisce anche il fatto che, essendo la filantropia volontaria, la legittimazione sarebbe ad personam e gioverebbe relativamente poco all’idea che i ricchi, in generale, sono ‘socialmente utili’.

Il secondo problema lo porta all’attenzione lo special report che a gennaio The Economist ha dedicato alla cosiddetta ‘filantropia effettiva’. Il problema, non di oggi, è quello dell’efficacia e dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse messe a disposizione dai filantropi. Il modello chiamato dallo stesso settimanale nel 2006 philanthrocapitalism in base al quale i super ricchi erano anche ‘investitori sociali’, in altri termini, gestivano direttamente i progetti a cui destinavano le proprie donazioni sembra avere qualche difficoltà e si rafforza l’idea di affidare totalmente la realizzazione di quei progetti a associazioni specializzate.

Il risultato potrebbe essere quello di rendere più visibile l’effetto della filantropia e quindi giocare a vantaggio della legittimazione dei ricchi, ma la contro-indicazione potrebbe essere che i ricchi non gradirebbero di perdere, almeno in parte, il controllo sulla destinazione dei fondi che conseguirebbe a questa soluzione e, come scrive anche Alfani, al controllo essi attribuiscono grande importanza. Con la probabile conseguenza di un prosciugamento dei fondi destinati alla filantropia. Anche per questi motivi assume particolare importanza la tassazione come via alla legittimazione.

Le imposte progressive e il potere dei ricchi. Una delle novità rilevanti del 20° secolo è stata la tassazione progressiva che richiede ai super ricchi di contribuire in modo proporzionalmente maggiore al bilancio dello stato. È utile ricordare che nel 1944 negli Stati Uniti la progressività era tale che sulla quota di reddito eccedente i 200 mila dollari gravava un’aliquota del 94%.

Dagli anni ’80 pressoché ovunque la progressività si è fortemente attenuata con beneficio economico dei ricchi che, peraltro, sono stati poco danneggiati dalle crisi dell’ultimo decennio. I super ricchi, con qualche eccezione, hanno mostrato di gradire queste evoluzioni talvolta ricorrendo all’argomento che non si fidano di come parlamenti e governi utilizzerebbero le ‘loro’ risorse. Da questo punto di vista la filantropia appare preferibile, sempre che sia consentito il controllo sulla destinazione delle risorse. Qualcuno (il miliardario americano, Foster Friess, sull’lnternational Herald Tribune del 17 febbraio 2012) ha trovato appropriato definire la filantropia una sorta di self-tax, una tassa su se stessi.

Non mancano, però, alcuni super ricchi che chiedono di essere tassati di più. In una recente lettera aperta ai leader mondiali, dal titolo “Proud to Pay” (“Fieri di pagare”) si legge: “Vi chiediamo di tassarci, noi i più ricchi della società… Questo non altererebbe in modo fondamentale ii nostro tenore di vita, non depriverebbe i nostri figli, né danneggerebbe la crescita economica delle nostre nazioni. Ma trasformerebbe la ricchezza privata, che è estrema e improduttiva, in un investimento per il nostro comune futuro democratico”. Parole, tra l’altro, in contrasto con la ricorrente narrativa del danno che subirebbe la crescita in caso di tassazione dei super ricchi.

Ma si tratta di eccezioni. L’avversione dei super ricchi alle imposte è decisamente prevalente e, anche di fronte alle ricorrenti crisi, rischia di indebolire la loro legittimazione. Si può fare questa affermazione anche alla luce del fatto che da innumerevoli sondaggi risulta che, in moltissimi paesi, è assai elevata – e da tempo – la quota di quanti vorrebbero che i ricchi pagassero più tasse. Ma le decisioni politiche sono, almeno finora, andate in altra direzione. Dico finora perché proprio di recente sono state avanzate proposte di segno opposto: quella di Biden negli Stati Uniti e di Zucman che, al G20 riunito in Brasile, ha presentato un progetto di tassazione uniforme anche se relativamente contenuta dei grandi patrimoni.

Alfani si chiede se il prevalere delle preferenze dei ricchi sia da ricollegare al loro crescente potere politico. Già alcuni anni fa, con riferimento agli USA, L. Bartels (Unequal Democracy: The Political Economy of the New Gilded Age, Princeton University Press, 2008), M. Gilens (Affluence and Influence: Economic Inequality and Political Power in America, Princeton University Press, 2012) e anche altri hanno documentato il forte impatto delle preferenze dei ricchi sulle decisioni politiche. L’ipotesi principale è che ciò dipendesse dalle donazioni ai partiti e dalle specificità del sistema elettorale americano. Studi più recenti raggiungono, però, risultati analoghi in paesi con caratteristiche istituzionali diverse, in particolare la Germania, ma anche un gran numero di paesi europei.

Oltre a ciò, c’è il fenomeno del coinvolgimento diretto dei ricchi, anzi dei miliardari, nell‘attività politica. Secondo uno studio recente, piuttosto sorprendente, oltre l’11% dei miliardari del mondo (che sono circa 2000 secondo Forbes) ha avuto incarichi politici (in genere assai influenti e spesso plurimi) o si sono candidati per averli. Si tratta di una percentuale molto alta in rapporto ad altre élite non economiche. Le differenze tra paesi sono comunque rilevanti e in generale i ricchi che fanno politica si collocano a destra.

Ma in questa situazione viene da chiedersi: come pensa, la maggioranza dei ricchi, di legittimare la propria ricchezza se si oppone, e con successo, all’adozione di una misura come l’incremento delle imposte, che gran parte della società vede come necessaria? Non teme che possano verificarsi quelle rivolte sociali paventate da moltissimi nel corso dei secoli, da Tommaso d’Aquino a Thomas Piketty, come ci ricorda Alfani?

La legittimazione vista dai ricchi. Un’ipotesi potrebbe essere la seguente: la prevalente strategia dei ricchi è cercare di contrastare le eventuali reazioni al loro scarso contributo al bilancio pubblico radicando nell’opinione pubblica (e nella classe politica) idee che in vario modo possono contribuire alla loro legittimazione.

La prima idea è quella del duro lavoro (che è anche l’elisir dell’American Dream). I super ricchi tendono a enfatizzarlo. Ad esempio, questo è quanto disse sull’origine della propria ricchezza Michael Bloomberg. Al riguardo suscitano quanto meno curiosità gli studi diretti a rilevare quanto sono lunghi i periodi di vacanza dei super ricchi (e in genere sono molto lunghi) e quante volta al mese essi (meglio, alcuni di essi) si dedicano a partite di golf. Forse non per tutti i super ricchi la strada è stata quella del duro lavoro e si può aggiungere che, non sorprendentemente, i super ricchi non sono tutti uguali.

La seconda è che siano dotati di grande (e non facilmente sostituibile) talento, quello che sarebbe indispensabile per realizzare innovazioni benefiche per tutti.

La terza è che, anche per il motivo appena detto, sono essenziali per la crescita economica da cui, di nuovo trarrebbero vantaggio tutti.

La frequenza con cui si afferma che tassare e ridimensionare i super ricchi potrebbe avere effetti assai negativi sulla crescita – per la loro fuga all’estero, per l’indebolimento dell’incentivo a usare i loro talenti innovatori e altro – potrebbe essere considerata una prova del successo di queste idee.

Entrare nel merito della loro fondatezza non rientra tra gli obiettivi di queste note, ma abbiamo avuto altre occasioni anche sul Menabò, per esprimere molto più di un dubbio al riguardo. In ogni caso, le idee, di cui si è appena detto, insinuano e diffondono il sospetto che i ricchi, anche estremi, siano indispensabili per il benessere sociale. Tutto ciò non è irrilevante per la loro legittimazione. Una legittimazione basata più sul timore (di essere condannati al malessere se i ricchi vengono ridimensionati) che sul consenso e che perciò forse meriterebbe un altro nome.

In sintesi, il sospetto è che la combinazione del potere politico dei ricchi e delle diffuse idee sulla loro insostituibilità (magari con il contributo marginale della filantropia) possa spiegare in buona misura quanto è accaduto negli ultimi decenni e che non era facile pronosticare in una democrazia ben funzionante e vocata alla giustizia sociale.

Legittimazione e giustizia sociale. L’ultima riflessione, prima di concludere, si riferisce proprio al rapporto tra legittimazione sociale della ricchezza e giustizia sociale. Quand’anche si arrivasse a una ragionevole tassazione progressiva, si sarebbero fatti passi avanti importanti sulla strada della giustizia sociale? Il forte sospetto che la risposta debba essere sostanzialmente negativa nasce dalla considerazione che nel mercato le ricchezze spesso si formano violando principi di giustizia sociale largamente condivisi. Con la mortificazione del lavoro (o di una sua notevole parte), con l’erezione di barriere all’ingresso nei mercati che consentono di rendere pressoché permanenti alcuni vantaggi, con l’appropriazione gratuita dei remunerativissimi dati personali, con la generazione di esternalità negative (specie ambientali) che sono rilevanti anche dal punto di vista dell’efficienza. La tassazione non è un rimedio a questa violazioni della giustizia. Sono, invece, necessarie politiche che incidano sul funzionamento dei mercati rendendoli meno inclini a generare disuguaglianze ingiuste; tuttavia, per attuare tali politiche occorre, da un lato, neutralizzare il potere di interdizione politica dei ricchi (quando c’è) e, dall’altro, liberarsi dell’idea che questi ultimi (anche se magari non tutti) sono così potenti e insostituibili – come gli dei? – da poter reagire a quelle politiche con effetti devastanti per il benessere di tutti.

fonte: https://eticaeconomia.it/legittimare-la-ricchezza-riflessioni-sul-libro-di-guido-alfani/

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