Con la flat tax crescerà il popolo dei finti lavoratori autonomi. di Marco Leonardi, Andrea Dili

La flat tax proposta dal governo non è altro che l’aumento a 100 mila euro della soglia per l’accesso al regime forfettario previsto per i professionisti. Con molti rischi: dagli effetti negativi sul lavoro dipendente alla possibile crescita dell’evasione.

Come cambia il regime forfettario

Sotto il nome di flat tax, Lega e Movimento 5 Stelle hanno annunciato una proposta di legge che altro non è che l’incremento fino a 100 mila euro della soglia massima dei ricavi o compensi per l’accesso al regime forfettario previsto per i soggetti che esercitano attività di impresa o arti e professioni.
Quali sono i possibili effetti del progetto sui professionisti, che costituiscono circa un terzo dei soggetti che beneficiano dell’attuale regime?
Una riforma fiscale limitata a questo intervento rischia di generare un duplice effetto:

  • uno sbilanciamento del sistema fiscale, con i lavoratori autonomi tassati in maniera proporzionale e i dipendenti con aliquote progressive;
  • e di conseguenza una alterazione significativa della composizione dell’occupazione in Italia, con un travaso di lavoratori dipendenti nelle (false) partite Iva.

Nel 2016, infatti, il governo Renzi ha delineato un regime forfettario in base al quale per i professionisti che conseguono compensi annui fino a 30 mila euro e che allo stesso tempo sostengono modesti oneri per dipendenti (massimo 5 mila euro) e con un capitale fisico limitato (meno di 20 mila euro al 31 dicembre dell’anno precedente) viene prevista – in luogo dell’Irpef e delle relative addizionali regionali e comunali – l’applicazione di una imposta sostitutiva del 5 per cento per i primi 5 anni di attività e del 15 per cento per gli anni successivi. Tali aliquote si applicano su imponibili determinati forfettariamente nel 78 per cento dei compensi percepiti nell’anno. Diversamente dal regime ordinario, inoltre, non sono dovute né Iva né Irap.

Il forfait, combinato con il blocco delle aliquote contributive al 25 per cento (sempre stabilito nella legge di stabilità 2016, variando una legge vigente che le avrebbe portate al 33 per cento al pari del lavoro dipendente), rende estremamente conveniente la partita Iva nei primi 5 anni, favorendo in particolare i giovani e le start up. Il limite a 30 mila riduce la distorsione nel prelievo che l’aliquota ribassata al 15 per cento comporta rispetto agli altri redditi, in primo luogo di lavoro dipendente.

Il progetto di legge attuale, che estende la soglia del regime dei minimi a 100 mila euro annui, avrebbe costi stimati sostenibili (dai 700 ai 900 milioni di euro annui), ma gli effetti rischiano di essere potenzialmente devastanti per la composizione della forza lavoro, nonché per il rispetto degli obblighi fiscali.

Gli effetti della flat tax

Nelle tabelle 1 e 2 confrontiamo la situazione di un lavoratore dipendente con quella di un professionista a partita Iva che applichi il sistema proposto dalla maggioranza di governo, partendo da tre livelli di reddito lordo da lavoro dipendente. Nella tabella 1 si suppone che resti invariato il costo per l’azienda e quindi si vede come cambierebbe il netto per il lavoratore, nella tabella 2 si mantiene invariato il netto e si vede l’effetto per l’azienda.

Tabella 1

Tabella 2

Di fatto, quindi, si determina un incentivo a “sostituire” il lavoratore dipendente con quello a partita Iva, sia per il lavoratore (che nell’ipotesi di un reddito lordo da dipendente di 50 mila euro godrebbe – a parità di costo per il datore di lavoro – di un incremento del proprio reddito netto superiore al 50 per cento), sia per l’azienda (che nella medesima ipotesi potrebbe diminuire il proprio costo del lavoro di circa il 30 per cento).

Ovviamente, non si può escludere che in alcuni casi la trasformazione sia già avvenuta con l’attuale limite di 30 mila euro, ma a questo livello di reddito il risparmio fiscale può essere compensato dai vantaggi della condizione di lavoratore subordinato (ferie, malattia, maternità e altri diritti), che il Jobs act degli autonomi ha solo in parte esteso.

Se però si innalza la soglia a 100 mila euro, la convenienza della partita Iva aumenta, all’aumentare del reddito, in maniera più che proporzionale. Il vantaggio potrebbe essere distribuito fra azienda e lavoratore in modo tale da compensare la perdita dei diritti riconosciuti al lavoratore dipendente.

In base ai dati delle dichiarazioni dei redditi 2016, i contribuenti con reddito in prevalenza da lavoro dipendente fino a 100 mila euro sono stimabili in 3,6 milioni e non si può escludere una migrazione di massa dal lavoro dipendente alle partite Iva, che potrebbe interessare persino il pubblico impiego.
Il fenomeno potrebbe essere ulteriormente favorito dalle nuove regole del mercato del lavoro, che limitano l’utilizzo dei contratti a termine, e dal proposito di cancellare il bonus da 80 euro per destinare le risorse al cosiddetto reddito di cittadinanza.

Gli altri rischi

A complicare il quadro è il fatto che la migrazione rischia di fondarsi su meccanismi assai prossimi all’elusione fiscale. Un forfait così ampio, infatti, costituisce un rischio per la compliance per molteplici motivi. In primo luogo, si annacqua il cosiddetto contrasto di interessi: i soggetti che aderiranno al regime forfettario non avranno interesse a richiedere l’emissione di fatture di acquisto che non potranno in ogni caso dedurre. In secondo luogo, con il fine di abbattere l’imposta complessiva, si favorisce la frammentazione dei ricavi su più posizioni.

Considerato poi che il regime non prevede l’applicazione dell’Iva, si determina una distorsione della concorrenza nei settori dove la clientela è costituita da consumatori finali o pubbliche amministrazioni. I soggetti con compensi inferiori ai 100 mila euro non potranno sempre scegliere il modello forfettario: vuoi per motivi di mera convenienza (più è alta l’incidenza dei costi di struttura più rimane conveniente il regime ordinario Irpef), vuoi per i limiti imposti in termini di costo del lavoro e spese per investimenti. Senza considerare che ne sono escluse associazioni professionali e società. Un regime forfettario così ampio finisce dunque per penalizzare proprio le strutture più organizzate, disincentivando la costituzione di studi professionali integrati e multidisciplinari.

In conclusione, ridurre le tasse delle partite Iva può essere una buona idea. Ma la realizzazione di politiche economiche attraverso la leva fiscale non può passare da iniziative scollegate ed estemporanee, prive di un disegno complessivo, coerente e organico, senza rischiare di determinare effetti controproducenti inaspettati.


-MARCO LEONARDI È professore ordinario di economia politica al dipartimento di economia, management e metodi quantitativi dell’Università Statale di Milano. Phd. in economia alla London School of Economics, è stato visiting scholar presso il Massachussetts Institute of Technology di Boston e l’Università di Berkeley. I suoi principali interessi scientifici riguardano l’economia del lavoro e in particolare temi legati a disoccupazione, disuguaglianza e redistribuzione.
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-ANDREA DILI è dottore commercialista con studio in Roma e presidente di Confprofessioni Lazio. Insegna in master postuniversitari presso l’Università di Roma Tre. È autore di testi e articoli su temi economici, fiscali e societari.
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Fonte: Lavoce.info

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