Quali percorsi per i pazienti psichiatrici autori di reato? di Pietro Pellegrini

Intervento al Congresso SIEP “Amarcord 180” Prospettive per la Salute Mentale a quarant’anni dalla riforma. Sessione: Salute mentale e nuove vulnerabilità. Rimini 11-13 ottobre 2018

Cari colleghi,  ringrazio il presidente  SIEP Fabrizio Starace per l’invito al Congresso e vi parlo di una vulnerabilità, della dei pazienti psichiatrici autori di reato, solo in parte nuova.

Infatti, la nascita della moderna psichiatria si fa risalire al 1793 quando Pinel separò i malati di mente dai delinquenti. Libera i primi dalle catene e nell’ottocento si struttura un luogo di cura loro dedicato, il manicomio poi ospedale psichiatrico (OP). La separazione operata non poteva essere netta e definitiva e quindi nel tempo si è posto, per usare un linguaggio desueto, il tema dei folli rei e dei rei che divenivano folli. Nascono così in Europa, in Italia nel 1876 ad Aversa, i manicomi criminali, poi ridenominati Ospedali psichiatrici giudiziari, 6 in tutto il paese.

L’Italia, come sappiamo, con la 180 ha chiuso gli OP e molto più recentemente nel 2015 anche gli OPG. Questi ultimi non erano stati modificati dalla 180 e lo stesso Basaglia diceva: “Ora, dopo avere conquistato la riforma degli ospedali psichiatrici civili, il movimento che in Italia chiamiamo “Psichiatria democratica” comincia a chiedere l’abolizione del manicomio giudiziario. Sarà una lotta dura e difficile da portare a termine perché il manicomio giudiziario è una garanzia di un luogo dove si possono collocare un certo tipo di persone ritenute pericolose. Il manicomio giudiziario riguarda molto da vicino il carcere speciale, è una sorta di carcere speciale, e le carceri speciali rappresentano una sicurezza per lo stato”. (Basaglia F. Conferenze brasiliane, 21 giugno 1979, pag 62. Raffaello Cortina Ed.)

Non riepilogo tutti i passaggi da allora e mi limito a ricordare che nonostante le difficoltà,  si è avviato un lungo percorso (leggi 354/1975, 663/1986, Dl 23071999; DPCM 1 aprile 2008, sentenze della Corte costituzionale 139/1982, 253/2003, 367/2004) fino alle leggi 9/2012 e 81/2014 che ha portato ad una psichiatria senza OPG (Per approfondimenti Pellegrini P. “Per una psichiatria senza ospedali psichiatrici giudiziari” Franco Angeli, 2015; Pellegrini P. “Liberarsi dalla necessità degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari” Alphabeta Verlag, Merano 2017). Sembrava impossibile e invece siamo riusciti.

Secondo quanto previsto dalla Costituzione, la normativa mira ad assicurare il diritto alla salute a prescindere dallo stato giuridico della persona e quindi si inserisce in una logica di welfare pubblico universalistico fondato su una società orientata al recupero, all’inclusione, e non all’esclusione-abbandono. Un patto sociale nel quale la priorità è conferita alla cura della persona, alla sua salute rispetto alla tutela della comunità.

La chiusura degli OPG

La chiusura degli OPG, avvenuta anche per una mobilitazione della politica e l’interessamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che li definì “un autentico orrore indegno di un paese appena civile” (Discorso del 31 dicembre 2012), ha comportato un forte coinvolgimento dei DSM fino ad allora, salvo particolari sensibilità, rimasti in larga parte abbastanza indifferenti se non addirittura ostili, evitanti o deleganti rispetto al problema.

Come dicevo si è trattato di un lungo percorso e un passaggio importante si è avuto con il citato DPCM 1 aprile 2008, grazie al quale l’assistenza sanitaria negli istituti di pena e negli OPG è diventata una competenza delle Ausl e pertanto da allora, il coinvolgimento dei DSM è stato crescente ed inevitabile.

Per la chiusura degli OPG è stata essenziale la collaborazione tra diverse istituzioni, magistratura, prefetture, forze dell’ordine, enti locali, il lavoro di Stopopg ma certamente la spinta decisiva è stata quella del sistema di welfare in particolare dei DSM sui quali è ricaduto il maggiore carico organizzativo, economico e in molti casi il peso psicologico e la responsabilità per l’attuazione della legge. L’affidamento delle persone con disturbi mentali autrici di reato alla sanità è avvenuto dopo avere constatato in modo inequivocabile il fallimento terapeutico dell’OPG e i gravissimi limiti presenti negli Istituti di Pena, in larga parte non in condizioni di affrontare questi pazienti.

Tuttavia molti professionisti dei DSM hanno avanzato riserve, critiche rispetto al percorso intrapreso. Il timore della violenza, di dover fronteggiare la pericolosità, di riprendere una funzione custodiale e di controllo sociale, di essere invasi e sottomessi alla magistratura,  di ricreare nel territorio dei miniOPG (in particolare per quanto attiene la creazione delle REMS). A questi si aggiungono la questione della responsabilità professionale, di essere chiamati a rispondere per la posizione di garanzia di azioni commesse da pazienti in cura.

Timori fondati e che tuttavia sono stati affrontati nella convinzione che gli OPG andassero chiusi con decisione senza avere, come era accaduto per gli OP, una loro sopravvivenza anche come “residuo” e per questo la creazione delle REMS è stato a mio avviso decisivo.

Nelle REMS vi sono pazienti  (nell’80% dei casi conosciuti in precedenza) in larga misura sovrapponibili agli altri, mentre come previsto da diversi esperti, i pazienti più difficili da gestire sono risultati quelli con uso di sostanze, alto livello di psicopatia, antisocialità.  Sul piano giuridico il mix di misure provvisorie e definitive si è rivelato disfunzionale.

Un processo quella della chiusura degli OPG non accompagnato da un attento monitoraggio nazionale per cui mancano dati sistematici sui pazienti dimessi.

La dinamica tra REMS e Centri di salute mentale ha evidenziato numerose difficoltà segno del persistere di vecchie logiche ma anche i limiti delle risorse (si pensi al budget per finanziare alternative residenziali alle REMS) nonché carenze formative e strumentali.

Si rilevato anche il persistere di un atteggiamento che da un lato sostiene la recovery e dall’altro pratica ancora in molti SPDC il restraint. Vi è quindi una contraddizione interna alla psichiatria che da un lato sostiene una cura basata sulla libertà, il consenso, la responsabilità e la sicurezza (anche per lavoro, abitare e reddito, come richiesto stamane dalla rappresentante degli utenti) quindi sul pieno riconoscimento della persona con disturbi mentali come cittadino, portatore di diritti e doveri, e dall’altro mette in pratica azioni in un qualche modo coercitive, limitative della libertà e incentrate su luoghi chiusi applicate a persone che comunque sono sempre cittadini ma con diritti e doversi sostanzialmente diminuiti. In questo quadro le REMS finiscono con il rappresentare il luogo immaginario dove cura e custodia divengono un processo unitario, dimenticando la natura conflittuale e incompatibile dei due termini che hanno riferimenti costituzionali, normativi e operativi del tutto diversi. Non solo la custodia può soffocare ogni prospettiva di cura efficace ed adeguata alle odierne conoscenze scientifiche ma può creare danni ulteriori, rendere ancora più aggressivi o addirittura combattivi certi soggetti.

La cura deve avvenire sulla base di norme assolutamente chiare e trasparenti, leggibili e comprensibili da parte della persona. Questa invece nelle REMS si viene a trovare in confusivo limbo. La cura può avvenire solo nella volontarietà e con la partecipazione della persona, in tutti i quadri ed a maggior ragione in quelli, come l’uso di sostanze, che richiedono anche la costruzione di un’adeguata e protratta motivazione.

Senza questa nessun percorso è fattibile. Ripeto: senza chiarezza e trasparenza nelle relazioni nessuna cura è possibile. Si può fare solo custodia e se è questo ciò che serve alla magistratura e alla politica, o all’opinione pubblica la gestione dei luoghi e delle persone non deve essere sanitaria.

L’eventuale privazione della libertà, la sua limitazione, l’applicazione di misure e prescrizioni alla persona sono di competenza dell’autorità giudiziaria. Essa si fonda sulla necessità di prevenire nuovi reati, di operare un recupero sociale chiedendo alla persona precisi comportamenti e il rispetto di determinate norme la cui violazione è nell’esclusiva responsabilità della persona stessa e non di chi lo ha in cura. Questo anche se applicata a persone con disturbi mentali. La cura di questi ultimi, compito della psichiatria, ha precisi requisiti, condizioni, luoghi dove si deve realizzarsi e questi saranno indicati dallo psichiatra. Se il sistema è affidato ai sanitari, il mandato di cura deve essere valorizzato e tutelato al massimo grado. La misura giudiziaria deve facilitare il percorso di cura, abilitazione e inclusione sociale e non ostacolarlo.

Luoghi sanitari e sociali da utilizzare secondo le esigenze della cura e non della giustizia, in relazione all’intensità e alla durata degli interventi. Noi possiamo solo curare e se non possiamo farlo meglio chiudere.

Il persistere di logiche vecchie vede richieste della magistratura di permanenze in luoghi di cura di soggetti che non ne hanno bisogno e che dal prolungamento della degenza possono ricavare danni iatrogeni, perdere abilità e al contempo determinano un danno sociale in quanto non ne permettono l’utilizzo da parte di altri cittadini che ne hanno più bisogno. Quindi un doppio danno individuale e sociale. Il fatto che l’iter giudiziario sia in corso è dal mio punto di vista del tutto secondario.

La pericolosità sociale, la prevenzione di nuovi reati può essere migliorata dai percorsi di cura ma non può essere la finalità del lavoro degli psichiatri in relazione al fatto che i comportamenti sono sempre multideterminati, risentono di variabili biologiche, psicologiche e sociali, relazionali e situazionali e devono fare riferimento ad evidenze scientifiche e non alle mitologie o ad un’ipotetica psichiatria ideale tanto perfetta quanto inesistente. I disturbi mentali  non sono curabili con un singolo intervento, l’efficacia della terapia farmacologica è parziale (si pensi che il 25% delle schizofrenie è resistente ai trattamenti), l’efficacia a lungo termine è oggetto di discussione e di valutazioni controverse, per certi disturbi non esistono terapie farmacologiche (si pensi a forme di abuso/dipendenza) se non sintomatiche ed anche le psicoterapie ed interventi comunitari presuppongono motivazioni e tuttavia sono gravate da significativi tassi di recidiva.

La cura presuppone la responsabilità e nella psichiatria vi sono movimenti per riconoscere l’imputabilità abolendo l’art 88 del c.p. e tenendo conto del disturbo e della sua cura in fase di esecuzione della pena. Questo nella convinzione che il diritto al processo sia utile alla persona, alla comprensione della sua situazione e come sia dannosa un incomprensibile proscioglimento che apre scenari incerti e kafkiani, fondati sul rinvio e sull’attesa talora sine die. E tuttavia mentre una parte della psichiatria spinge per la responsabilizzazione un’altra parte, specie nella attività forense vi è stata la tendenza ad allargare il concetto di infermità mentale, giungendo ad includere seppure a certe condizioni anche i disturbi della personalità.

I limiti della riforma

Gli OPG sono stati chiusi mediante la legge 81/2014 attuata grazie al sistema di salute mentale di comunità parte del welfare pubblico inclusivo e universalistico. E tuttavia si è trattato di una riforma incompleta che ha lasciato invariato il codice penale relativamente a imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza. Come noto la legge 180 ha eliminato il concetto di “pericolosità a sé e agli altri” dai requisiti per l’effettuazione del Trattamento sanitario obbligatorio (TSO) mentre il codice penale è rimasto invariato dal 1930 in merito ad imputabilità e “pericolosità sociale”.

Non solo ma rimangono altre norme nei codici penale e di procedura penale che fanno pensare che la giustizia abbia come riferimento la legge 36/1904 e quindi un sistema custodiale, piuttosto che i DSM come delineati dalla 180 e dalle norme applicative successive. Un sistema unitario non si è realizzato in quanto non vi è stata l’approvazione dei decreti applicativi della legge 103/2017 (riforma Orlando dell’ordinamento penitenziario).

Tutta la riforma, come è già avvenuto dopo la 180, è finita nel silenzio. Vi è un sostanziale abbandono dei professionisti della salute mentale e della giustizia che si trovano nella condizione di dover per forza collaborare per risolvere tra difficoltà e incertezze, senza OPG, i tanti problemi quotidiani.

Come procedere?

Chiusi gli OPG in meno di 4 anni ci si domanda come procedere. Ora ci si chiede se si possa realizzare per la persona con disturbi mentali e autrice di reato, un sistema unitario e coerente con la legge 180?

Quale impatto per i DSM visto che la legge 81 prevede che le persone siano seguite prioritariamente con misure di sicurezza non detentive.  Che fare delle REMS? Come innovare la psichiatria forense italiana e l’attività peritale e di consulenza?

La giustizia ha come riferimento la 180? O fatta salva la volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti e una visione assai variabile dei TSO, la giustizia non tiene conto del modello organizzativo della psichiatria riformata e fa riferimento nelle procedure e prassi ad un modello asilare quando non chiaramente custodiale più in linea con la legge 36 /1904 e regolamento del 1909 che con la 180 (Si rimanda agli artt. 70, 73, 286, 312, 313 del c.p. e agli artt. 656,  679, 680, 686, 687 del c.p.p.).  Una condizione contraddittoria che finisce con il porre al centro l’operato professionale, in particolare dello psichiatra chiamato ad esercitare compiti di previsione, prevenzione e controllo, scientificamente, professionalmente e umanamente impossibili, per altro in assenza di un organizzazione e di strutture con compiti custodiali.

Si possono fare le riforme legislative e organizzative ispirate ad altri paesi (Inghilterra, Germania, Francia, Svezia, Finlandia) ma va tenuto presente che lì hanno altre normative e sono presenti gli OP e strutture per autori di reato, ed hanno dotazioni di posti letto ospedalieri e residenziali ben maggiori rispetto all’Italia. (In Gran Bretagna sono aperti gli ospedali psichiatrici e sono attive le “units sicure” ad alta, media e bassa sicurezza. Vi sono una serie di strumenti come i “Community orders” o i “Community treatment orders” i primi di natura giudiziaria i secondi di natura sanitaria, che impongono coattivamente scelte chiaramente di controllo al fine di evitare la restrizione della libertà e permettere alternative alla custodia. Inoltre per fare fronte alla pericolosità, anche solo presunta e in assenza di reati, sono possibili provvedimenti quali “l’imprigionamento per protezione pubblica” di durata potenzialmente indeterminata.)

Per il nostro paese che ha scelto di chiudere OP e OPG e di attuare una legge la 180 che si fonda sulla volontarietà e sul consenso informato (e le disposizioni anticipate di trattamento, di cui alla legge 219/2017) e quindi su un sistema di cura, occorre restare coerenti e chiedersi come dare piena applicazione, mediante formazione, strumenti, organizzazione, ad  un modello che sia incentrato su misure giudiziarie e interventi di cura nella comunità e sia ispirato alle pratiche “no restraint”.

O invece come previsto dall’ultima proposta presentata dalla Sen. Marin ed al. Disegno di legge 656/2018 (Senatore Marin ed altri “Modifica degli articoli 33, 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, in materia di accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”). Si deve estendere anche all’ambito ordinario e non solo agli autori di reato un obbligo di cura protratto? Infatti, il disegno di legge Marin ha alcuni punti rilevanti per il nostro discorso:

  1. a) modifica i requisiti per il TSO prevedendo che la prima condizione per un ricovero obbligatori “in condizioni di degenza ospedaliera solo in presenza di un disturbo mentale con manifestazioni di aggressività auto o eterodiretta” lasciando quindi presumere che un grave disturbo psicotico con deliri e allucinazioni e/o un’iideazione suicidaria pervasiva non possano essere ricoverati se non vi sono le manifestazioni di aggressività;
  2. b) “Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico dell’azienda sanitaria locale è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta motivata al giudice tutelare, nei termini di cui ai commi 1 e 2, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso. Il trattamento è disposto all’interno delle strutture residenziali psichiatriche per i trattamenti protratti.”
  3. c) La proposta di legge prevede che “le regioni devono individuare le strutture residenziali psichiatriche per i trattamenti protratti, che devono essere dotate di posti letto superiori a trenta, anch’esse all’interno delle strutture dipartimentali per la salute mentale, a garanzia della continuità terapeutica. In tali strutture pubbliche sono disposti dal giudice tutelare i trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera che si protraggano oltre il settimo giorno.”
  4. d) “Il sanitario di cui al comma 4 è tenuto a comunicare al sindaco, per i trattamenti sanitari obbligatori entro il settimo giorno, e al giudice tutelare, per i trattamenti sanitari obbligatori prolungati oltre il settimo giorno, sia in caso di dimissione del ricoverato che in continuità di degenza, la cessazione delle condizioni che richiedono l’obbligo del trattamento sanitario; comunica altresì la eventuale sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso”. Cosa significhi che il sanitario “comunica altresì la eventuale sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso” non è del tutto chiaro e fa ipotizzare che si alluda alle possibili violazioni, allontanamenti che andrebbero gestiti.

Non sappiamo se il sopracitato disegno di legge andrà avanti o come i molti tentativi di cambiare la 180 finirà in nulla. Certamente è un segno dei tempi e degli orientamenti politici attualmente rappresentati al governo.

Lo stato di applicazione della legge

In questi anni tra psichiatria e magistratura si sono sviluppate buone pratiche, come auspicato dal Consiglio Superiore della Magistratura (“Disposizioni urgenti in materia di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di cui alla legge n. 81 del 2014. Questioni interpretative e problemi applicativi” 19 aprile 2017) , che si sono realizzate anche nella Regione Emilia Romagna (DGR  Regione Emilia n. 767/2018, Protocollo Operativo tra Magistratura, Regione Emilia Romagna e Ufficio Esecuzione Penale Esterna per l’applicazione della legge 81/2014 sottoscritto il 30 maggio 2018).

La legge 81 si sta realizzando, come previsto, nella comunità. A giugno 2017, nella Regione Emilia Romagna a fronte di 24 ospiti nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) vi erano 203 persone con misure giudiziarie nel territorio delle quali circa il 70%, in strutture residenziali.

Residualità della misura di sicurezza detentiva, regionalizzazione, numero chiuso nelle REMS, assenza di contenzione e un orientamento alla recovery sono i punti chiave della riforma.

Il numero chiuso delle REMS non sta scritto in nessuna norma ed è a mio avviso paragonabile al “mi no firmo” di Basaglia di fronte al registro delle contenzioni, un atto di rigore professionale dei Direttori delle REMS e dei DSM ove operano.

A questi occorre aggiungere le pratiche “no restraint” (Secondo la Relazione semestrale sull’attività svolta dal Commissario Unico per il Superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari Franco Corleone 19 febbraio -19 agosto 2016: 17 REMS su 26 (allora aperte) non hanno effettuato contenzioni fisiche). Infatti, la legge non può realizzarsi in un quadro di custodialistico o né di disinvestimento o abbandonico o in un contesto sociale di emarginazione.

In assenza di un sistema informativo nazionale, i dati forniti da Corleone (2018), a settembre 2017 indicano che le persone in REMS erano 604 di cui 335 con misure di sicurezza definitive mentre quelle con misure provvisorie erano 265 (44% del totale).

Vi è poi il tema della crescita delle persone in lista di attesa. Secondo il 13° Rapporto di Antigone sono “313 le misure di sicurezza richieste (..) di cui 218 provvisorie” (Belardettti, 2017) pari a circa il 72% del totale e   tendono ad aumentare in modo significativo sia nelle liste di attesa sia tra gli ospiti delle REMS (circa i 2/3 nelle REMS della Regione Emilia Romagna).

La misura di sicurezza provvisoria, applicabile “in qualunque stato e grado del procedimento” sulla base di un giudizio di pericolosità sociale e talora senza valutazione psichiatrica, viene ad assumere il significato di  una misura di custodia cautelare che ha un forte impatto sulle REMS (Per avere un raffronto le persone con misure di sicurezza detentiva provvisoria sono il 44% degli ospiti delle REMS mentre i soggetti con misura di custodia cautelare in carcere sono il 34,6% del totale dei detenuti contro una media europea del 22% (13° Rapporto di Antigone http://www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/). Infatti, si tratta di persone che ancora non sono state ben diagnosticate, quindi possono essere imputabili per i quali vale la presunzione di innocenza. Una condizione che rende molto difficile il mandato di cura e per altro appare del tutto evidente che un mandato custodiale sia del tutto inattuabile nell’attuale assetto organizzativo dei DSM.

Se in OPG vi era il tema dell’“ergastolo bianco”, in REMS la persona rischia di subire una detenzione preventiva kafkiana senza garanzie di tempi e di procedure, tanto maggiore se vi sono carenze della difesa spesso correlate con  le condizioni di povertà ed emarginazione.

Inoltre nelle REMS si sta determinando un “effetto accumulo” di pazienti con misure giudiziarie di lunga durata o con problemi sociali rilevanti (senza fissa dimora, clandestini, irregolari, persone sole, povertà estreme) che per il quadro normativo e le difficoltà del sistema sociosanitario si trovano senza prospettive.

Il determinarsi di una condizione custodiale rischia di stravolgere il ruolo dei sanitari e di creare una situazione che contrasta gravemente con il percorso di cura poiché non determina chiarezza, fiducia, certezza dei tempi, responsabilizzazione reciproca.

Infine resta aperto il tema della qualità della cura della salute mentale negli Istituti di Pena essenziale per la definizione di un sistema unitario.

La concezione della cura

La psichiatria può esercitare solo il mandato di cura e ogni altra impostazione pone in crisi il sistema, specie se lo spinge verso forme di custodia/coercizione che aprono interrogativi sulla loro liceità, fattibilità, sicurezza ed efficacia. La prolungata limitazione della libertà non è una condizione della cura ma contrasta con essa e pertanto ogni sforzo viene fatto per prevenire i TSO e ridurre al minimo la loro durata.

Mentre la psichiatria sta operando per il “no restraint”, l’abolizione delle contenzioni, le “porte aperte”, la giustizia, al di fuori delle affermazioni di principio, nelle prassi fatica ad abbandonare un’idea di psichiatria  manicomiale secondo la legge 36/1904. In altre parole pensa ancora in termini di contenitori, magari più belli, confortevoli degli OPG o delle carceri ma pur sempre dei luoghi separati, dove la privazione della libertà tende ad essere il fine. Una concezione del tutto inidonea alla cura del malato psichiatrico.

Infatti, se in forza di un provvedimento giudiziario una persona si trova non solo con una limitazione della libertà ma inserita in un percorso sanitario da lei non richiesto, è necessario un processo di chiarificazione e di definizione delle condizioni per l’intervento diagnostico terapeutico. Una situazione clinica assai difficile in quanto si tratta di prendersi cura in modo proattivo di chi non esprime domande e per farlo occorre accogliere in modo non giudicante, ascoltare, capire, motivare, iniziare a definire una base comune, le norme di rispetto reciproco, assicurare il “minimo vitale” con il sostegno ai bisogni di base. Questo per attivare la responsabilità e la cooperazione anche attraverso l’investimento sulle potenzialità della persona dando vita fin da subito ad un processo di “capacitazione”. Un lavoro che si fa abitualmente nel territorio dove la cura può avvenire solo attraverso lo sviluppo della relazione intesa come un processo non lineare ma costituito da un insieme di movimenti che con pazienza, lentamente portano ad una condizione di fiducia e sicurezza come costruzione condivisa in grado di produrre una possibile riduzione della sofferenza e un cambiamento di prospettive. In questo la relazione diviene unica, irripetibile e creativa, capace cioè di ridefinire e costruire in termini nuovi, differenti modalità di funzionamento mentale, affettivo e relazionale. Le menti funzionano attraverso connessioni e questo processo in parte empatico e profondo non è codificabile solo in termini cognitivi, né è ben prevedibile.

L’alta personalizzazione degli interventi di cura deve partire dal punto di vista dell’utente il quale è portatore di una sua lettura del disturbo, del reato ed ha idee sulla cura, sulla pena e sulla vita. L’incontro inizia con l’avvicinamento, l’accoglienza non giudicante, l’ascolto e la comprensione della difformità di vedute, delle scelte alternative e ciò significa gestire i rischi, i conflitti e le violazioni fissando i riferimenti minimi per l’incontro mantenendo aperta la relazione di cura e cercando di attenuare i danni, favorire la maturazione e la resilienza nell’ambito della umana pietas. Questo consente le narrazioni congiunte, le nuove rappresentazioni del dolore, della sofferenza e avvicinano a quei dilemmi esistenziali e filosofici, vita/morte, essere/non essere, forme di vita che spesso i pazienti gravi portano all’attenzione di chi si prende cura di loro. Co-esistenza, interazione che si realizzano nell’ambito di un destino comune.

Perché questo lavoro profondo possa realizzarsi, occorre che lo psichiatra (e tutto il gruppo di lavoro)  si senta libero, in grado di entrare nel mondo del possibile cambiamento dell’altro e di sé; se questa trasformazione creativa, transizionale è  parte della cura, o è la cura, occorre tenere conto delle condizioni per la sua difficile e incerta realizzazione. In questo quadro di riferimento va collocata la questione delicata della responsabilità spesso utilizzata o vissuta come riferimento per atteggiamenti difensivi, remissivi, di disinvestimento, fatalisti, sottilmente custodiali, tutti quanti anti-terapeutici.

Va ricordato con forza che la chiusura degli OPG tramite percorsi di comunità (e non le REMS) richiede una revisione del concetto di responsabilità tenendo conto dell’estrema difficoltà e complessità del lavoro di cura, del rapporto rischi/benefici, dell’efficacia reale delle pratiche. Ai fini degli esiti positivi in medicina è indispensabile la partecipazione attiva della persona e del suo contesto. Senza responsabilizzazione non vi è riabilitazione in psichiatria ma nemmeno sicurezza sociale.

Verso nuovi concetti

La conoscenza e la collaborazione tra giustizia e psichiatria sono essenziali per gestire al meglio i percorsi, definire nuovi scenari, elaborare idee e prassi innovative.

Sul piano organizzativo la REMS deve diventare sempre più parte integrante del DSM e della comunità, idealmente superare se stessa. REMS “no restraint”, luoghi aperti senza i muri e i sistemi custodiali ereditati dall’OPG, parte del territorio che alla logica del posto-letto, del “dove lo metto” sostituiscono una concezione orientata ai percorsi, alla responsabilizzazione reciproca. REMS a loro volta superate mediante Progetti terapeutico riabilitativi individualizzati con Budget di Salute (Pellegrini, 2017).

Sotto il profilo delle prassi l’applicazione della legge 81/2014, prevedendo la cura e al contempo azioni per fare fronte alla pericolosità sociale quindi per la sicurezza-prevenzione dei reati, ha reso evidente come si debba passare da una visione lineare ad una binaria.

Semplificando al massimo secondo la precedente prassi consolidata, il giudice, sentito il perito, dispone, la psichiatria “esegue” la cura e il paziente obbedisce e in un qualche modo vi si sottomette. Una cura di norma fondata sulla terapia farmacologica e al più psico-educativa comportamentale e adattativa. Una cura applicata dall’esterno, ad una persona che passivamente la subisce, nella presunzione che vi siano psicofarmaci in grado di curare il disturbo mentale  mentre i dati scientifici indicano molta cautela (Breggin, 2018) e una limitata efficacia sia a breve e ancor più a lungo termine.

Non si può superare l’OPG senza prendere atto che è variato non solo il ruolo della psichiatria ma anche quello della giustizia. Questa ha competenze specifiche e autonome, possibilmente coordinate con la cura, e deve sviluppare una propria relazione con la persona tale da dare un senso alla misura adottata, alle azioni necessarie alla rieducazione e prevenzione di nuovi reati. Limitazioni della libertà, prescrizioni o dinieghi senza spiegazioni e tempi comunicati direttamente alla persona oggi non sono accettabili. Occorre abbandonare un modello autoritario impositivo a favore di uno collaborativo che preveda una forte responsabilizzazione della persona rispetto alle misure giudiziarie. E’ lei che ne deve rispondere e non lo psichiatra.

In altre parole, la giustizia deve sviluppare un “suo” patto con la persona in relazione al reato e alle misure conseguenti. Questo è essenziale anche con la persona con disturbi mentali, prosciolta e a maggior ragione se l’imputabilità è ancora da definire, per confrontarla con realtà e tramite impegni specifici prevenire reati e sostenere al massino i percorsi di cura. L’impostazione prevista dalla legge 309/90 art. 94 è quella che si  può applicare anche nella salute mentale.

“Il patto di cura” ha un’altra base giuridica, un’altra chiave di lettura e deve fondarsi sul consenso.

Si tratta di due patti, di due percorsi autonomi e specifici con possibili punti di contatto e convergenza, specie negli obiettivi. Nessuno dei due percorsi può sostituire e nemmeno parzialmente vicariare l’altro.

E’ interesse di tutti che la persona si curi e non commetta altri reati, si attenga alle prescrizioni. Quindi la persona nella comunità si trova al centro di un percorso che vede due polarità, quella giudiziaria e quella psichiatrica.

Il passaggio da categorie rigide e dicotomiche (sano/malato, imputabile/non imputabile) a processi basati su dimensioni interagenti nella complessità (modello biopsicosociale) dovrà portare a risposte sempre più articolate. Non più un doppio binario che dà vita a percorsi alternativi e mutuamente escludentesi, ma un doppio patto con al centro la persona nella comunità che tiene conto non solo delle specifiche competenze psichiatriche e giudiziarie ma anche dei diversi bisogni, a partire da quelli di base, per un programma di cura e il progetto di vita.

Se in caso di non imputabilità l’infermità contiene il reato e questo ne è la espressione, una visione basata sulla complessità riconosce sempre ambiti di autonomia al reato e al disturbo che potranno vedere aree di sovrapposizione ma solo eccezionalmente sono pienamente coincidenti.

Vissuti psicologici si intrecciano con condizioni psicopatologiche, relazionali, sociali, di vita i quali vengono ad assumere a seconda dei casi il ruolo di fattori di rischio, protezione, precipitazione. Questi connotano la pericolosità non come dato obiettivo ma dinamico, dipendente dalla persona e dalle sue relazioni, comprese quelle di cura e giudiziarie.

Quindi si ha un continuum di vissuti dal normale al patologico, uno spettro sul quale operare. E trattandosi di un vissuto con una componente cognitiva importante, diviene fondamentale agire perché la persona possa sperimentare la capacità di modulare, articolare, controllare la propria attività mentale e il proprio comportamento.

Questa azione di responsabilizzazione è essenziale sia sul piano clinico-riabilitativo che giudiziario dove sarebbe molto più utile al paziente una pena chiara che un ambiguo e talora incomprensibile  proscioglimento.

Un orientamento alla recovery nel quale fin da subito sono presi in considerazione i determinanti sociali della salute (reddito, alloggio, formazione lavoro) e i fattori culturali, religiosi e spirituali della persona in quanto fondamentali per la diagnosi e la cura ma anche per la comprensione del reato, della espiazione e la possibile riparazione.

Cure e misure di comunità si possono fare solo nella libertà mentale, con il consenso e la partecipazione attiva della persona. Questa ha bisogno di tempo, di comprendere ed essere compresa nell’ambito di relazioni di fiducia, sempre difficili da costruire, strutturalmente fragili, labili, molto esposte al rischio di fallimento. Una condizione operativa molto delicata, dove occorre chiarezza, sensibilità, attenzione ai dettagli, dove la parte patologica è nell’ambito di un funzionamento mentale e relazionale di insieme, dove il reato e la violazione sono presenti nel mondo interiore, ingombranti, inquietanti, corpi che cercano spazio, parole, senso. Un male che cerca di definirsi, ferite lancinanti in attesa di medicazione, buchi non colmabili, devastazioni e terremoti che aspettano i primi soccorsi, l’accoglienza, l’incontro, il riconoscimento per come sono e aperture di un dialogo.  Il male evitabile, quello che può derivare dalla psichiatria, dal sociale o dalla giustizia va evitato, quello inevitabile va affrontato. Comprendere tutto questo è nell’interesse dell’azione giudiziaria i cui tempi e modi rischiano di segnare le esistenze delle persone (e anche degli operatori) a volte in modo patogeno, confuso e talora kafkiano.

Prospettive future

Con la legge 180 la persona con disturbi mentali ha pieni diritti e doveri e quindi non è pensabile come sottoposta ad una costante tutela da parte di qualcuno, lo psichiatra in particolare. Per questo sarebbe necessario un adeguamento coerente della normativa in tema di imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza.

Nelle prassi è essenziale che si consolidi l’idea di un doppio patto con la persona, concertato tra psichiatria e giustizia, uno per la cura e l’altro per la sicurezza. La consultazione preventiva, la perizia o una doppia perizia/perizia di equipe, una relazione con il DSM per la condivisione dei rischi/benefici e delle responsabilità devono essere preliminari all’adozione di misure giudiziarie.

Per il funzionamento delle REMS è fondamentale che fin da subito la persona ospite (basta con il termine internato!) possa utilizzare tutti gli strumenti di cura e abilitazione del Dipartimento di Salute Mentale e non quelli della sola REMS, di per sé assai limitati. Quindi la misura di sicurezza detentiva deve essere presso il “Dipartimento di Salute Mentale al cui interno opera la REMS”. Il regolamento penitenziario è inapplicabile nelle REMS ed occorre valorizzare il metodo basato sul consenso e la pianificazione delle cure. I confini non possono essere quelli fisici della REMS ma il perimetro è quello della cura. Questo renderebbe più semplice ed efficiente il rapporto con la Magistratura, che verrebbe interpellata solo per i pernottamenti esterni. Va valorizzata la persona mediante la sua presenza alle udienze, affinchè la giustizia possa realizzare il proprio “patto”. In questo quadro andrebbero garantiti i diritti, abolita l’immatricolazione e prevista la non iscrizione nel casellario giudiziario relativa alla misura di sicurezza.

Quale futuro per le REMS?

Se ad oggi siamo riusciti a chiudere gli OPG anche attraverso le REMS e senza la loro creazione come pure una parte della psichiatria italiana aveva proposto temendo la creazione di tanti piccoli OPG,  temo non saremmo giunti al risultato, alla rivoluzione gentile come ha detto il Commissario Corleone. E tuttavia una serie di elementi stanno mostrando con una forte evidenza la necessità di un superamento delle REMS e di un definitivo distacco dal sistema giudiziario. Le REMS sono parte dei DSM ma ammissione e dimissioni sono decise dall’autorità giudiziaria e questo rappresenta una distorsione non accettabile per un sistema a gestione sanitaria. L’obbligo a permanere in luogo di cura (che sia conseguente a arresti o detenzione) non può in alcuna maniera prescindere dai bisogni sanitari. Occorre una normalizzazione delle REMS e quindi la rimozione/abbattimento di ogni dispositivo custodiale  e al contempo dare una lettura che per la cura non è necessaria la REMS. Essere nel percorso “REMS” significa poter utilizzare tutti i necessari dispositivi di cura del DSM e del sistema di welfare e di comunità. Restano ovviamente i principi di riferimento: regionalizzazione, numero chiuso, assenza di contenzioni.

Sono quindi possibili diverse prospettive:

  1. a) La prima è quella di non avere più strutture per l’esecuzione di misure di sicurezza; queste devono essere effettuate nelle articolazioni dei DSM o a domicilio; quindi solo posti REMS/o percorsi giudiziari nelle normali strutture, la soluzione diffusa, molecolare nelle strutture o a domicilio sostenute da PTRI con budget di salute, in modo tale che si realizzi il doppio patto per la cura e la prevenzione di nuovi reati, senza più strutture dedicate, ma con la casa della persona come riferimento primo per la cura.
  2. b) La soluzione a) non sarà facile e in caso si proceda al mantenimento delle REMS credo sia necessaria una loro normalizzazione a comuni residenze attraverso la rimozione/abbattimento di ogni dispositivo custodiale e sarebbe utile il loro utilizzo solo per le misure definitive.
  3. c) Il tavolo 11 degli Stati Generali per l’Esecuzione Pena prevedeva che “se si vuole valorizzare l’aspetto sanitario della R.E.M.S. (abbandonando l’approccio custodialistico dell’O.P.G.) occorre dar vita ad uno specifico ordinamento “sanitario”, che non si riferisca per relationem a quello penitenziario.

In merito al rapporto tra il nascente ordinamento “sanitario” delle R.E.M.S. e l’ordinamento penitenziario occorre abbandonare il modello della specialità per specificazione (rinvio sistematico all’ordinamento penitenziario, salvo diversa previsione), bensì optare per il modello della specialità reciproca (il regolamento R.E.M.S è del tutto autonomo e solo con riguardo ai profili di cui all’art. 13, 24 e 27 Cost. vige una disciplina simile a quella prevista dall’Ord.pen.).

A tal proposito, deve anzitutto essere prevista una clausola generale per cui al modello organizzativo delle R.E.M.S. non si applica l’Ordinamento penitenziario. Si deve poi modificare, ovunque si faccia riferimento alla persona ospitata nelle R.E.M.S, il termine “internato” in “paziente psichiatrico giudiziario”.

Quali conseguenze derivano da questa nuova impostazione e quali obiettivi deve perseguire il nascente Ordinamento?

  1. una nuova denominazione delle attuali R.E.M.S. da modificarsi in SERVIZI PSICHIATRICI PER PAZIENTI GIUDIZIARI (S.P.P.G.), soprattutto se il legislatore opterà per la creazione di “misure giudiziarie di cura e controllo” per soggetti non imputabili infermi di mente;
  2. un forte accento sulla tutela dei diritti fondamentali del paziente psichiatrico giudiziario e sulla centralità della persona;
  3. il “trapianto” (con le necessarie modifiche) di tutti gli istituti previsti dall’ord.pen. che consentono la restituzione (anche parziale) della libertà (a titolo di esempio i permessi di necessità, i ricoveri, il lavoro esterno, la semilibertà e le licenze);
  4. la centralità del Programma Terapeutico Individuale (P.T.I.), che il paziente può conoscere e condividere attraverso il c.d. “consenso informato”. Tale Programma sarà parte integrante del provvedimento giudiziale che dispone il ricovero e dunque conosciuto e condiviso dall’autorità Giudiziaria, ferma restando l’autonomia del sanitario in merito alla scelta terapeutica;
  5. una completa riformulazione ex novo della normativa dei colloqui visivi, delle telefonate e dell’uso “controllato” di internet, che seguirà la regola generale della “non limitazione salvo casi eccezionali” (esigenze terapeutiche, cautelari e di controllo, tramite provvedimento dell’A.G. sentito il dirigente sanitario);
  6. gli strumenti per far fronte alle acuzie e alla gestioni di pazienti che necessitano livelli di alta intensità terapeutica. A tal proposito occorre che gli S.P.P.G. si organizzano per proporre trattamenti differenziati a pazienti acuti, sub-acuti e persistenti;
  7. la caratterizzazione degli S.P.P.G. come strutture di permanenza temporanea, aperte verso l’esterno e proiettate verso percorsi di reinserimento sociale, onde evitare che si trasformino in cronicari ad alta contenzione psicofarmacologica o in contenitori residuali della marginalità sociale.
  8. l’esclusione dell’applicazione della normativa riguardante il Trattamento Sanitario Obbligatorio all’interno degli S.P.P.G. “.
  9. d) C’è chi ha proposto di articolare REMS secondo livelli di intensità di cura e (sicurezza) e creare anche presidi altamente specializzati per la valutazione e la definizione del programma di cura. Sarebbe un modo per dare un riferimento alla psichiatria forense italiana.
  10. e) Nell’attività ordinaria si vedono altri moviemtni. Il primo è quello della contaminazione di tutto il sistema dei DSM a partire da quello residenziale investito di un nuovo mandato custodiale e di controllo fondato sulla crisi del patto sociale. Questo si sostanzia anche in una spinta verso l’apertura di altre REMS con un aumento del numero dei posti (lo scorso anno, la magistrata Paola Di Nicola (2017) ne richiedeva 200 in più) in un processo espansivo che probabilmente non avrebbe limiti nella domanda (se non quelli economici) e potrebbe portare, come in Inghilterra, anche a 6000 posti; un sistema che verrebbe ulteriormente spinto all’ampliamento anche dalla proposta Marin che prevede cure obbligatorie nelle residenze. Infine vi è il rischio di una progressiva trasformazione delle REMS in Mini OPG e di una lesione dei diritti degli utenti. REMS sempre più in difficoltà a dimettere dove si accumulano poveri, misure provvisorie, persone abbandonate e autori di reati gravi. Dalla cura si passa ad una funzione di controllo del disagio sociale.

I posti nelle REMS sono ormai dedicate per la  metà a misure provvisorie ed assumono di fatto una natura di carattere custodiale. Un mandato del tutto improprio per la sanità. Non solo ma si associano pazienti con reati importanti e quindi programmi complessi, ed altri magari ancora nemmeno ben diagnosticati o di utenti che hanno commesso reati lievi ma non hanno aderito o hanno violato i programmi di cura o non hanno la capacità di stare in giudizio. Quindi la REMS, talora con sollievo di famiglie contesto e in certi casi anche dei servizi, svolgono la funzione di controllo sociale, liberano per un tempo dal disagio, da soggetti dediti alla microcriminalità, ma niente affatto motivati alla cura. In altri termini sono l’appendice dell’Istituto di Pena ove sarebbe destinata la persona. Questa spesso si vede costretta a permanenze in REMS che non risultano giustificate sulla base del quadro clinico e del programma di cura ma si giustificano sulla base di un ambiguo mix giudiziario-psichiatrico che finisce con l’avere basse garanzie, quando non viola palesemente i diritti. Si  ricrea una condizione dove il patto di cura e quello della sicurezza diventano confusivi, e la funzione della REMS è di mero contenimento, limitazione della libertà.

Al contrario il DSM devono operare per la cura e l’inclusione. In questa ottica gli utenti devono essere responsabilizzati rispetto ai loro programmi di cura e al rispetto dei limiti loro imposti dalla giustizia. Questo deve realizzarsi nel contesto ritenuto dai clinici più idoneo e a mio avviso non vi debbono più essere strutture sanitarie con finalità di eseguire misure di sicurezza. Infine va tenuto conto del persistere dello stigma della REMS è molto elevato e viene drammatizzato ogni evento avverso rendendo molto più difficile il lavoro degli operatori e l’ìnclusione sociale.

La maggior parte degli utenti è già nel territorio e quindi è auspicabile il superamento delle REMS e se la persona deve restare in carcere, assicurare in quella sedi gli interventi di cura possibili e appropriati alla situazione.

Attraverso una Consensus Conference nazionale si potrebbe arrivare alla definizione di buone pratiche, coinvolgendo le famiglie,  la società civile, gli enti locali, la comunità.

La posizione di garanzia dello psichiatra va superata riconoscendo le evidenze scientifiche e cioè l’umana impossibilità di prevedere e prevenire le condotte di altre persone, assicurando in relazione alla grave difficoltà del compito, “il privilegio terapeutico” e forme di responsabilità istituzionali.

Bibliografia

Belardetti A.,”Pazzi criminali liberi”. Nelle Rems non c’è posto La Nazione, 11 giugno 2017 http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/qpazzi-criminali-liberiq-nelle-rems-non-ce-posto

Breggin P. (2018) La sospensione degli psicofarmaci, Fioriti Ed.

Ceretti A. Natali L. (2009) Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Ed. Milano

Corleone F. (a cura di) “Manicomi criminali. La rivoluzione aspetta la riforma” QCR 1/2018, Pacini Ed.

Di Nicola P. Vademecum per tentare di affrontare e (risolvere) il problema dell’assenza di posti nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) Diritto Penale Contemporaneo, 13 dicembre 2017, https://www.penalecontemporaneo.it/d/5750-vademecum-per-tentare-di-affrontare-e-risolvere-il-problema-dellassenza-di-posti-nelle-residenze-pe

Pellegrini P.  (2017)  Liberarsi dalla necessità degli ospedali psichiatrici giudiziari, Alphabeta Verlag, Merano

*Intervento al Congresso SIEP “Amarcord 180” Prospettive per la Salute Mentale a quarant’anni dalla riforma. – Sessione: Salute mentale e nuove vulnerabilità. Rimini 11-13 ottobre 2018

fonte: www.stopopg.it

 

 

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