In difesa della sanità pubblica. di Nerina Dirindin

Vorresti vivere in un Paese in cui se tuo figlio avesse improvvisamente bisogno di un trapianto di cuore potresti essere costretto a lasciarlo morire, nonostante la medicina sia assolutamente in grado di salvarlo? Perché esistono Paesi che consentono tali drammatiche situazioni? Non sarebbe preferibile adottare sistemi di protezione sanitaria che eliminino all’origine la possibilità di trovarsi di fronte a un tale rischio? Pare non sia così facile. Soprattutto perché chi prende le decisioni occupa posizioni molto meno svantaggiate di quella di John Q.

Proviamo a spiegarci con un esempio. Se ognuno di noi non conoscesse la propria condizione economica e di salute (compreso il fatto di nascere figlio di un milionario o di un diseredato, in un Paese sviluppato o in un Paese povero, con una buona dotazione di salute o con disabilità fisiche e cognitive) e dovesse esprimersi a favore di uno dei tanti sistemi di welfare che esistono, è molto probabile che si esprimerebbe a favore di un sistema che tratta tutti alla stessa maniera, indipendentemente dalla condizione economica e sociale del singolo. Il rischio di trovarsi concretamente in una posizione drammatica renderebbe infatti ogni individuo immediatamente consapevole della necessità di minimizzare la probabilità di trovarsi in un Paese che non si preoccupa di chi non può pagarsi le cure mediche. Il caso John Q non sarebbe possibile.

Facciamo un altro esempio. Se ogni cittadino italiano fosse costretto a considerare il rischio concreto di dover risiedere (o nascere) in una regione con un servizio sanitario mal organizzato è molto probabile che voterebbe a favore di politiche di welfare che si propongano di migliorare le condizioni generali dei servizi pubblici in tutte le regioni italiane. Guarderebbe probabilmente con minor favore le politiche volte a sanzionare chi è inefficiente perché, pur considerandole un incentivo al miglioramento della qualità dei servizi, si renderebbe conto che penalizzano i cittadini delle regioni meno mature aggiungendo, alla bassa qualità dei servizi, anche il peso delle maggiori imposte (necessarie per coprire i disavanzi). Un tema delicato e difficile da dipanare, ma che spesso viene affrontato con la prospettiva di chi sta meglio e non di chi sta peggio.

Chi non si preoccupa di chi sta peggio è perché sa di non appartenere a quella categoria. Se un qualunque individuo non avesse la certezza di non essere svantaggiato, perché completamente ignorante rispetto alla propria posizione di partenza, è molto probabile che preferirebbe salvaguardare il proprio futuro dichiarandosi a favore di sistemi che non sono indifferenti ai bisogni di chi sta peggio e alla necessità di garantire a tutti gli stessi servizi. […]

La malattia può colpire tutti e se, oltre alla sofferenza, devi anche affrontare costi catastrofici (o anche solo rilevanti) è possibile che il bilancio familiare non regga: i sistemi sanitari devono essere strutturati in modo da garantire a tutti, indistintamente, le cure necessarie. Se coperti dal velo di ignoranza, tutti vorremmo vivere in un Paese che adotta politiche sanitarie che non lasciano soli coloro che potrebbero aver bisogno di cure mediche: il Servizio sanitario nazionale risponde a tale requisito.

È la soluzione migliore.

 Quanto potrebbe costare un ricovero?

Nel 2016, il SSN ha erogato oltre 72.000 ricoveri ad alto costo, ovvero con tariffa superiore a 20.000 euro per caso di ricovero (di cui 13.600 con tariffa superiore a 50.000 euro).

Fra gli altri, sono stati erogati:

• 16.051 ricoveri per interventi su valvole cardiache, con cateterismo (tariffa: 24. 675 euro);

• 12.623 ricoveri per interventi su valvole cardiache, senza cateterismo (tariffa: 20.487 euro);

• 5.113 ricoveri per trapianti di midollo osseo (tariffa: 59.806 euro);

• 103 ricoveri per trapianto di cuore (tariffa: 62.602 euro);

• 7.469 ricoveri per ricoveri su neonati gravemente immaturi (tariffa: 30.738 euro);

• 1.154 ricoveri per trapianto di fegato (tariffa: 62.648 euro).

Fonte: elaborazione dati Ministero della salute, Rapporto Sdo, 2016

 […]

Uno dei luoghi comuni più abusati nel dibattito sul sistema sanitario italiano è il costo – considerato eccessivo e insostenibile – della nostra sanità pubblica e la conseguente necessità di contenerne la spesa e introdurre forme alternative di finanziamento, sostitutive o integrative di quelle pubbliche.

I dati disponibili mostrano invece, ormai da molto tempo e senza alcuna possibilità di smentita, che la spesa sanitaria pubblica dell’Italia non può essere considerata eccessiva né rispetto agli altri Paesi dell’Europa continentale, né rispetto alle dinamiche degli ultimi anni, né rispetto al finanziamento annuale dello Stato. I dati OECD indicano per il 2017 una spesa sanitaria pubblica nettamente inferiore a quella dei Paesi con i quali è ragionevole confrontarsi: 6,6% del PIL, tre punti in meno di Germania (9,6%) e Francia (9,5%) e molto meno di Svezia (9,1%), Olanda (8,2%) e Regno Unito (7,6%). Solo Spagna e Grecia hanno una spesa inferiore alla nostra (rispettivamente 6,3% e 5,1%) oltre a molti Paesi dell’Est. Persino i Paesi con un sistema sanitario affidato in maniera rilevante al finanziamento privato spendono, per la sanità pubblica, molto più di noi (7,7% in Svizzera).

Nonostante il basso livello di spesa, l’Italia occupa i primi posti fra i Paesi sviluppati quanto a livelli di efficienza in termini relativi rispetto ai Paesi con i migliori risultati. Ormai da tempo, tutti gli studi sulla performance complessiva dei sistemi sanitari moderni confermano il giudizio positivo sull’Italia. Dal rapporto dell’OMS del 2000 (che colloca l’Italia al secondo posto al mondo, dopo la Francia), alle analisi dell’OECD del 2010 (l’Italia è superata solo da Francia e Islanda) fino alle recenti valutazioni di Bloomberg (che pongono l’Italia al quarto posto al mondo), tutti gli studi concludono con un giudizio più che positivo, soprattutto rispetto alle risorse impiegate. Alcuni lavori possono essere considerati parziali (quanto a variabili considerate) o eccessivamente sintetici, ma pare innegabile che il nostro sistema sia uno dei pochi che riesce a produrre buoni risultati con poche risorse.

Non solo il livello, ma anche la dinamica della spesa pubblica non è di per sé motivo di preoccupazione. L’insieme degli strumenti di governance introdotti da oltre un decennio fra lo Stato e le Regioni, puntualmente fatti rispettare dal Ministero dell’economia, hanno consentito un significativo rallentamento della dinamica della spesa, tanto che attualmente questa può essere considerata ai limiti del tollerabile. Con le restrizioni imposte alla sanità pubblica negli ultimi anni la spesa, rispetto al PIL, è passata dal 6,8% del 2011 al 6,6% del 2017; e la percentuale è destinata a ridursi ulteriormente (per il 2020 è previsto il 6,3%). Lo stato della finanza pubblica e gli spazi di miglioramento sono comunque tali da richiedere una continua attenzione al contenimento delle inappropriatezze e delle inefficienze.

Infine, la spesa sanitaria pubblica non può essere considerata eccessiva neanche rispetto al finanziamento annuale. Secondo la Corte dei Conti, nel 2017, «tutte le Regioni si trovano in sostanziale equilibrio finanziario una volta contabilizzate le entrate fiscali regionali a copertura della spesa sanitaria». Inoltre, tra il 2009 e il 2016, le Regioni in Piano di rientro sono passate da una perdita di oltre un miliardo a un avanzo di circa 750 milioni. Nello stesso periodo sono stati riassorbiti i disavanzi che derivavano da esercizi precedenti per poco meno di 2 miliardi. Sono dati che danno la misura del lavoro svolto da Regioni e Amministrazione centrale per riportare il sistema in equilibrio.

L’articolo è parte del libro
È tutta salute. In difesa della sanità pubblica
(Edizioni Gruppo Abele, 2018)

FONTE: VOLERELALUNA

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