Etnopsichiatria: una lezione agli studenti. di Davide Bruno

Quando eserciterete la professione vi accorgerete ben presto che vi sarà richiesto di esser veloci ed efficienti, tuttavia credo che un approccio più lento e riflessivo giovi, nell’ottica di una medicina centrata sul paziente, non solo a chi verrà a consultarvi, ma anche a voi(a).

Quando ero piccolo, nel paese dei miei nonni, all’interno della Sicilia settentrionale, c’era una donna che soffriva di “nervi”. “Ho avuto un attacco di nervi”, affermava fermandosi a parlare con le conoscenti che incontrava per strada, che immancabilmente annuivano in maniera comprensiva. Sebbene non avessi mai sentito parlare di una tale malattia nel posto in cui ero nato, vicino a Genova, avevo ben presto imparato che tale condizione consisteva in una costellazione di sintomi assai vari: irritabilità, problematiche a livello dell’apparato digerente, labilità emotiva, astenia, disturbi del sensorio fino alla perdita di conoscenza. La signora legava tale disturbo alle circostanze più varie: una volta aveva discusso col coniuge, in altri casi era stato un lutto a scatenare la crisi, più in generale si trattava di questioni che andavano sotto la comune denominazione di “dispiaceri”.

Quando più tardi studiai medicina, imparai cosa sono i nervi, la loro struttura, il decorso, la loro funzione. Tuttavia non compariva alcuna traccia del “nervosismo” né nel corso di anatomia, né di neurologia, né di psichiatria. La signora sembrava soffrire per la scienza di un male sconosciuto, sebbene non solo lei stessa e i suoi compaesani, ma addirittura io potessimo descriverne accuratamente la sintomatologia e, i più̀ esperti, addirittura consigliare i rimedi che spesso consistevano in un riposo prolungato e nella somministrazione di decotti. D’altra parte, né la signora né nessuno che potesse dirsi dotato di buonsenso in paese sarebbero ricorsi al parere di un medico, affidandosi invece al consiglio delle anziane del posto, alcune delle quali erano riconosciute come ‘esperte’ in questo genere di cose. Si suppone quindi l’esistenza, accanto alla medicina ufficiale, scientifica, di un secondo tipo di medicina, più antica, legata alla tradizione e al contesto sociale. Per la medicina occidentale, basata sulle evidenze sperimentali legate al metodo scientifico, che gli antropologi chiamano bio-medicina, siffatte teorie sono inspiegabili. Non si possono spiegare, infatti, perché non rientrano nei suoi paradigmi.

Facciamo adesso un passo indietro nel tempo, alla fine dell’800. Nel 1885 un giovane medico viennese vinse una borsa di studio presso il reparto di neurologia diretto all’Ospedale della Salpétrière, a Parigi, presso il Servizio di Jean Martin Charcot. Nel corso di neurologia sentirete il suo nome legato ad una patologia oggi al centro di diverse ricerche, la sclerosi laterale amiotrofica, che lui fu il primo a scoprire. Tuttavia il suo reparto era allora noto soprattutto per le ricerche sull’isteria. I medici di quel tempo erano attratti da queste pazienti che soffrivano di disturbi vari e spesso eclatanti: paralisi, afasia, cecità fino a vere e proprie manifestazioni simil-epilettiche. Nel cercare un’origine fisica, organica, del disturbo, i medici rimanevano spesso frustrati da sintomi apparentemente inspiegabili con le conoscenze scientifiche a disposizione e che parevano contraddire apertamente il corpus delle conoscenze anatomiche circa l’innervazione, ad esempio. Uno di questi medici era Sigmund Freud. Partendo dall’osservazione di quel che coglieva nelle isteriche, che postulò che sintomi incomprensibili dal punto di vista organico, diventavano spiegabili ricorrendo ad un altro punto di vista, ossia teorizzando l’esistenza dell’inconscio nel funzionamento della mente. Queste teorie diedero vita agli “studi sull’isteria” che Freud scrisse con Breuer[1], dove si cerca di rendere rappresentabile e quindi visibile qualcosa che non lo è e che, direbbero i matematici, ha le caratteristiche di un postulato, ossia di qualcosa che possiamo cogliere nelle sue conseguenze. La sfida di occuparsi dell’invisibile e dell’incomprensibile ha portato diverse critiche alla psicoanalisi, che perdurano tutt’oggi, per cui essa è vista come una disciplina che mancherebbe di basi scientifiche e sarebbe autoreferenziale, in quanto la metodologia su cui si basa si discosterebbe dal metodo scientifico stricto sensu. Questo discorso tuttavia ci porterebbe molto lontano, più di questo piccolo viaggio che abbiamo fatto a Parigi.

L’accostamento tra le situazioni della signora siciliana e delle pazienti di Freud non vuole certo essere una assimilazione sul piano psicopatologico, anche se molti psichiatri sono stati e sarebbero ancora tentati di farlo. L’attacco “di nervi” può essere per esempio conseguenza di un lutto, mentre nel caso dell’isteria tale legame è privo di consistenza. Certamente non sarebbe possibile escludere la presenza di una struttura isterica in chi soffre di “nervosismo”, ma esso può anche essere legato come abbiamo visto ad una reazione depressiva o di stampo ansioso, di modo che la crisi rappresenta un modo culturalmente codificato per esprimere il dolore psichico, che è invisibile, in una forma che può essere vista e compresa dall’entourage del soggetto. De Martino, un antropologo che studiò le società del Sud Italia e in particolare il tarantismo pugliese, coniò l’espressione di “crisi della presenza” per indicare la crisi dell’essere nel mondo dei soggetti quando sono sopraffatti dall’inspiegabile e dal dolore non altrimenti rappresentabile[2]. Le teorie cui si ricorre per spiegarla e i rimedi che vengono invocati per risolverla, tra cui la magia, permettono agli individui di tornare ad abitare il mondo, per usare una espressione che sarebbe cara alla psichiatria fenomenologica, passando da una posizione passiva, in cui si è agiti e sopraffatti, ad una attiva. Freud inscenò questo passaggio di posizione nel celebre episodio del rocchetto con cui giocava il nipote(b). La domanda a cui cercava di rispondere era infatti perché gli uomini fossero interessati, in una sorta di coazione a ripetere, a replicare momenti dolorosi della propria esistenza, in cui dominava il sentimento della morte.

Quando gli psichiatri americani stesero il DSM[3], si accorsero ben presto che c’erano delle situazioni psicopatologiche che non potevano essere comprese nei quadri cliniciche avevano descritto per la popolazione occidentale, tra cui il Susto e l’Ataque de nervios dell’America Latina. Quest’ultimo, ad esempio, ha caratteristiche non molto dissimili da quelle osservate nelle popolazioni mediterranee e include: irritabilità, stati ansiosi acuti, sentimenti di rabbia o disperazione, urla e grida incontrollabili, attacchi di pianto e tremori, sensazione di calore nel petto che si irradia al capo, aggressività̀ verbale e fisica, esperienze dissociative e talora gesti autolesivi. Decisero allora di aggiungere l’appendice delle cosiddette ‘sindromi determinate culturalmente’, attribuendo così alla cultura un ruolo di determinante patoplastico nelle manifestazioni legate alla sofferenza mentale degli individui. La cultura, cioè, veste i sintomi che noi osserviamo e che sono differenti a seconda della società considerata.

Per tornare all’isteria, potremmo dire che anch’essa è una sindrome culturalmente determinata, legata ad un determinato contesto socio-culturale, che non si osserva più, almeno nei modi in cui venne classicamente descritta, nelle nostre società. Alcuni autori considerano tali anche i disturbi del comportamento alimentare, diffusi nelle nostre società benestanti in cui la magrezza è considerata un valore tanto da rappresentare un ideale estetico. Altri ancora sottolineano quanto sia sempre più difficile in Occidente osservare quadri di sindromi psicotiche in cui non ci sia contemporaneamente un abuso di sostanze psicotrope, così diffuse da noi, che vanno dalla cannabis, alla cocaina, alle droghe sintetiche. Questo discorso introduce diversi temi cari alla psichiatria transculturale, tra cui il legame tra sintomatologia e cultura, ma anche la questione che gli stessi terapeuti appartengono ad una determinata società che presenta culture e sottoculture sue proprie, di cui il sapere medico fa senz’altro parte. La bio-medicina è infatti appannaggio delle nostre società occidentali e anche da noi, come abbiamo visto, si affianca ad un sapere popolare, tradizionale, direbbero gli antropologi, che non ha mai smesso di restituire un senso condiviso alle esperienze di dolore degli umani.

Tuttavia queste questioni non riguardano solamente la psichiatria, ma la medicina più in generale. Durante una riunione dell’équipe transculturale del servizio psichiatrico in cui mi trovavo un tempo a lavorare, arrivò un infettivologo piuttosto preoccupato: raccontò che molti dei suoi pazienti africani affetti da HIV non assumevano i farmaci, o lo facevano in maniera discontinua, non osservando per nulla le regole igieniche che venivano loro comunicate in ospedale, col pericolo di diffondere il contagio. Molti di loro erano infatti convinti che l’AIDS non esistesse, almeno per come veniva loro descritto dai medici, e che fosse invece la conseguenza di un’opera di stregoneria o di malocchio. Ci chiese quindi di affiancarlo per intervenire in maniera tempestiva, perché ‘la situazione è grave’, concluse. Riflettemmo insieme sul problema, che per molti versi noi psichiatri conosciamo bene: quanti pazienti non vogliono assumere il trattamento consigliato? Alcuni non riconoscono di esser malati, altri attribuiscono i sintomi psicotici a qualche ‘canna di troppo’, negando che il loro malessere provenga invece dall’interno. Di sicuro, pensammo in quell’occasione, era necessario occuparsi della questione, ma tutti eravamo scettici rispetto ai tempi necessari: le rappresentazioni mentali e gli affetti associati hanno bisogno di tempo per essere cambiati, al pari delle rappresentazioni culturali. Per capire meglio questo punto possiamo ricorrere ad un esempio etnografico.

In una ricerca sull’AIDS a Kumbo[4], nel Camerun nord-occidentale, Ivo Quaranta riferisce che esso viene tradizionalmente interpretato dall’élite degli anziani che detiene il comando come conseguenza della mancata osservanza dei tabù sessuali da parte dei giovani, spesso relegati a ruoli subalterni. Questi ultimi, da parte loro, individuano le responsabilità in assetti di potere che, con la complicità del mondo occidentale e degli Stati Uniti d’America in particolare, hanno come mira la sottrazione del diritto all’autodeterminazione loro e delle popolazioni africane più in generale. Gli occidentali, a mezzo della stregoneria o inviando armi biologiche impedirebbero alle società dell’Africa di essere padrone del proprio destino, per esempio. É quindi chiaro come, similmente al corpo indebolito nel suo sistema di protezione immunitaria, le persone intervistate dall’antropologo parlino di categorie sociali impoverite della propria capacità di ottenere e mantenere il potere, nonché il diritto all’auto-determinazione. A mezzo delle eziologie tradizionali (inosservanza del tabù dell’incesto, adulterio, stregoneria), riemerge un passato coloniale di sfruttamento e un presente di subalternità. Il corpo diventa in questa lettura una sorta di archivio, un significante che rimanda quindi alla storia individuale e collettiva, al qui e all’altrove, al passato e al presente.

La medicina transculturale cerca di muoversi in questa complessità, attraverso un’opera di comprensione e di mediazione continua tra i diversi livelli dell’individuale, del familiare e del collettivo; nonché tra il qui e ora, il passato e l’altrove. La mediazione linguistica a cui si fa ricorso perché il paziente possa parlare la lingua di origine, se lo desidera, materializza quest’opera di legame e lo sforzo di comprensione richiesto al clinico. Certamente si potrebbe obiettare che un buon medico debba sempre trovare il tempo per capire i pazienti e le loro teorie: tutti abbiamo delle teorie che riguardano la malattia e la sofferenza. Sono certamente d’accordo, ma con i pazienti stranieri diventa ancora più importante, proprio perché è più alto il rischio di incomprensioni e la tentazione di metter fuori dalla porta ciò che non ci risulta immediatamente comprensibile e a portata di mano. Quando eserciterete la professione vi accorgerete ben presto che vi sarà richiesto dalle amministrazioni da cui è governata la nostra professione di esser veloci ed efficienti, tuttavia credo che un approccio più lento e riflessivo giovi, nell’ottica di una medicina centrata sul paziente, non solo a chi verrà a consultarvi, ma anche a voi, che avrete il tempo di gustare quell’incontro e ciò che di nuovo può insegnarvi, un po’ come si fa in un ristorante slow-food.

L’alterità, soprattutto in tempi di crisi sociale ed economica, evoca spesso reazioni di messa a distanza, se non di aperto razzismo, a livello individuale e collettivo. Le gerarchie che vengono evocate, tra individui, popolazioni e culture, permettono di affermare il potere da parte di chi lo detiene, attribuendo all’altro l’origine del malessere individuale e collettivo. In tal modo non solo si cercano di mantenere gli equilibri di potere, specialmente in periodi in cui essi sono messi in discussione, ma anche di consolidare in modo posticcio un’identità che si sente fragile e minacciata. Alcuni studi mostrano infatti che quanto più le differenze sono minime, tanto più vengono stigmatizzate ed amplificate: quanto più siamo vicini, tanto più risulta minaccioso. In realtà siamo tutti fatti di molte parti, come dimostrano gli studi di biologia, di psicologia e di antropologia culturale. Tutti abbiamo preso in prestito qualcosa da altri, più o meno vicini nel tempo e nello spazio. Riconoscere ed accogliere l’alterità, negli altri e in noi, non solo è un gesto di civiltà, in opposizione allo stato di natura, ma è anche la conseguenza di un atteggiamento di onestà intellettuale, da parte di chi, come voi, ha studiato.

 

Note

  • a) Il presente testo rappresenta la traccia di una lezione – “ La salute mentale nei pazienti migranti” – che si tiene in data odierna agli studenti di medicina dell’Università di Firenze, nell’ambito di un’attività didattica elettiva (vedi programma).
  • b) Per Freud il gioco serviva a esorcizzare eventi particolarmente spiacevoli, infatti è celebre nella letteratura freudiana l’episodio del “gioco del rocchetto”. Egli osservò giocare un bambino di diciotto mesi con un rocchetto, durante il quale questi lo lanciava lontano facendolo sparire sotto al letto e poi lo ritraeva verso di sé. Attraverso questa azione Freud suppose che il bambino stava rielaborando, attraverso la ripetizione, un evento spiacevole, ovvero l’allontanamento da parte della madre. Ripetendolo, il bambino cambiava la sua posizione da passivo, cioè da colui che veniva abbandonato, ad attivo, cioè colui che abbandona; come se quel rocchetto fosse la madre, di cui lui, in un certo senso, si vendicava.

Bibliografia

  1. Freud S. Studi sull’isteria (con Breuer). Al di là del Principio del Piacere, Tr. It, Bollati Boringhieri
  2. De Martino E. Sud e Magia. Milano: Feltrinelli, 1959.
  3. APA. DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Tr. It.. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2014
  4. Quaranta I. AIDS, sofferenza e incorporazione della storia a Nso. Antropologia 2013; 3: 43-74

Dell’Autore vedi: Bruno D.  Alle frontiere della 180. Storie di migranti di psichiatria pubblica. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.

fonte: saluteinternazionale.info

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