FAMIGLIE E PERSONE CON DISABILITÀ NELL’EMERGENZA: l’esperienza di ascolto di Grusol Marche

Obiettivo di questo scritto è documentare quanto emerso, nel periodo marzo-giugno, dagli incontri e dai contatti con i familiari delle persone con disabilità in questi mesi di emergenza Covid.

Desideriamo far emergere i vissuti delle famiglie, in particolare dalla prospettiva dei familiari del gruppo di auto mutuo aiuto[1] (AMA), che ad oggi si compone di circa una quindicina di familiari del territorio dell’Ambito Territoriale Sociale (ATS) 9: genitori di età attorno ai 70 anni, con figli con disabilità di età media 40 anni. Di questi familiari: 2 usufruiscono di sostegni domiciliari (incluso TIS e lavoro), altri 2 non vivono più con i propri figli i quali abitano in comunità residenziali, il resto dei componenti usufruisce dei centri diurni. Di tutti questi nuclei, 4 sono monogenitoriali (mamme con figli adulti).

Il gruppo AMA continua a tenersi in contatto, da marzo con telefonate tra singoli, poi da maggio con incontri su piattaforma virtuale, una volta alla settimana. Il clima emotivo di questi mesi è significativo, ci si rispecchia tutti in questa base comune di isolamento in casa. Si passa dal subire questa situazione emergenziale di paura ad una riconversione quasi di riscatto, in cui si cerca insieme il coraggio di condividere l’esperienza individuale dandole forma in un pensiero collettivo. Con sorpresa, vediamo genitori quasi ottantenni scaricare l’app per collegarsi su piattaforma web, confrontarsi con gli altri in una modalità completamente nuova.

Queste sono le stesse situazioni familiari che:

– poco prima dell’emergenza, erano in attesa di capire se avrebbero usufruito dei “sollievi”, dopo un faticoso groviglio interiore per delegare un po’ della propria responsabilità genitoriale ad altri; con risvegli di paure legate ai primi anni di vita dei figli, alle malattie incontrate, a ferite ancora non cicatrizzate;

–  avevano appena terminato le riunioni annuali per i rinnovi dei piani educativi a febbraio, ritenuti per lo più atti burocratici più o meno sempre uguali;

– si definivano stanche e affaticate dalla loro quotidianità;

– dicevano di “vivere una vita parallela agli altri”, e di sentirsi “poco capite da chi la condizione di disabilità non la vive”.

Tutto questo non lo possiamo dimenticare, perché la pandemia arriva in ciascuna di queste case e porta chiaramente ulteriore affaticamento. Ricordiamo che i familiari dei centri diurni erano abituati a un servizio di 7 ore al giorno; un importante sostegno all’interno di  un carico assistenziale importante. Un servizio quindi per i figli ma funzionale ai genitori, dove non sempre rislutava chiaro ai familiari il progetto educativo individuale.

Portiamo alla luce, in questo documento i punti che riteniamo più importanti e significativi per una riflessione che ci riguarda tutti: comunità territoriali e servizi perché, da questo evento che ha investito le vite possiamo ricavarne preziosi spunti da cui ripartire. Nella consapevolezza che dal punto di vista di ciascuna storia di vita tutto è molto più complesso e delicato che la riattivazione dei servizi e la possibilità di uscire.

MARZO

L’epidemia da Covid-19 viene annunciata in Italia a fine febbraio. Ad inizio marzo chiudono le scuole.  Giorni nei quali regna, per tutti confusione mista a timore di cosa sarebbe potuto accadere e di quali regole adottare. Le famiglie che usufruivano dei centri diurni erano impaurite e tra di loro si chiedevano quali comportamenti tenere verso i figli: mandarli, non mandarli. Il 10 marzo[2] la Regione Marche chiude tutti i Centri diurni, anticipando di una settimana le disposizioni nazionali[3]. Emergeva dai familiari tanta paura del virus e la paura di non poter reggere a questo evento, specialmente per quei nuclei familiari costituiti da sole madri con figli adulti. Questa volta si era davvero soli in casa senza poter contare neanche su una rete esterna di sostegno.

La paura era sentita a più a livelli: paura di ammalarsi e nel caso a chi lasciare i figli, paura se i loro figli avrebbero retto questo isolamento e quali comportamenti potessero aspettarsi; non sono mancati racconti di madri che ci hanno detto di aver aumentato il dosaggio della terapia del figlio per renderlo più tranquillo. In quella prima fase non si sapeva ancora come i servizi territoriali si sarebbero organizzati in caso di malattia da Covid per questi nuclei. Il non avere informazioni chiare disorientava.

Nel frattempo i familiari venivano contattati da parte dei coordinatori della cooperativa; alcuni sono stati contattati anche da assistenti sociali dell’ASP. La paura del contagio in questo periodo è la paura prevalente a cui si risponde con forte protezione verso la propria famiglia. L’isolamento in casa è vissuto come un rifugio sicuro, meglio quello che rischiare la salute di sé e dei figli. Si sopporta la fatica assistenziale continuativa e la noia di stare in casa in una routine tutta da riprendere. Non si chiede aiuto neanche ad altri figli, se non in alcuni casi per la spesa. Ognuno cerca di cavarsela da sé, sperando che la situazione non duri per molto.

In questa fase di nuovo assetto anche organizzativo e familiare abbiamo sperimentato come alcune famiglie non erano state informate dei numeri telefonici messi a disposizione del proprio Comune, numeri dei negozi e supermercati per la spesa a domicilio, del numero della protezione civile, di come reperire farmaci anche salvavita a domicilio. Il bisogno era quello di informazioni pratiche e di capire dove reperirle. Di questi familiari in due situazioni abbiamo sperimentato, dopo circa 15 giorni di isolamento, affaticamento e stress. Alcuni genitori già con problemi di salute pregressi si sentivano impotenti e preoccupati di fronte al proprio figlio, al quale di colpo era finito un “tirocinio di inclusione” e sospeso educativa domiciliare (AEI) e si stava lasciando andare all’apatia e alla mancanza di motivazione per alzarsi la mattina. Oppure chi  – per chiusura del CSER – prova un senso di inadeguatezza personale di fronte a un tempo così lungo con il figlio in casa, senza stimoli esterni. Mancava quello spazio di libertà personale che questi genitori avevano riconquistato da tanti anni con la frequenza di un diurno quotidiano e mancava, poter dare almeno qualche stimolo ai propri figli e non vederli lasciarsi andare di giorno in giorno.

Significativa è stata a riguardo l’ordinanza n. 16[4] della Regione, che permetteva  spostamenti a “soggetti con disturbi psichici”.  Per alcuni familiari è stata la possibilità concreta per riprendere energia vitale, anche solo portando il figlio in macchina per il paese. Qui si è sperimentata la paura nei confronti dei carabinieri, nonostante si portasse con sé oltre l’autocertificazione anche il permesso rilasciato dai servizi territoriali e la preoccupazione di non essere capiti anche dai vicini di casa, o il doversi incontrare con sguardi poco comprensivi, dovendosi preparare a saper rispondere, come rispondere, cosa mostrare, con tutte le difficoltà di spiegare a chi la situazione non la vive.

Questa possibilità di uscire ha abbassato il livello di congelamento emotivo di chi ha disabilità intellettiva, sperimentando che una passeggiata all’aria aperta anzi faceva bene alla salute, che il virus non era ovunque. È stato anche il primo modo per prendere confidenza con la mascherina, passando prima dalla sciarpa, poi dal foulard, restando in macchina mentre il proprio genitore faceva la spesa e poter osservare che se gli altri sconosciuti o conosciuti indossavano la mascherina non era per malattia, ma per precauzione. Questa esperienza di pandemia ha sollevato in alcune persone con disabilità e loro familiari una paura latente, quella della malattia (la mascherina chirurgica e il guanto simboli dell’ambiente ospedaliero) e l’angoscia della perdita dei propri cari con cui alcuni fanno i conti da tempo. In questo periodo ciò che registriamo è che le situazioni familiari sono diverse tra loro anche per una ragione anche pratica: avere o non avere un giardino, un cortile in cui fare un giretto, o lasciare il proprio figlio oppure avere solo una terrazza da cui affacciarsi.

Siamo a metà marzo e nel nostro territorio per alcuni giorni vengono sospesi i servizi di educativa territoriale, per mancanza di dispositivi di protezione degli operatori. Chi ne usufruiva si trova a non avere più quel sostegno aumentando dunque le difficoltà interne alla famiglia. Questi servizi riprenderanno – con precedenza ai casi considerati urgenti – ma con fatica e lentezza anche per dover riallacciare fiducia con le stesse persone con disabilità e famiglie impaurite dal contagio. Le famiglie non hanno chiaro dove si può andare con l’operatore: stare in casa in una stanza senza familiari, uscire dove, distanziati quanto.

Per chi ha figli con disabilità complessa gli atti di normale quotidianità, come il fare la spesa, andare a prendere il pane. Atti e gesti che permettevano a questi nuclei e alle stesse persone con disabilità di muoversi dentro alla propria comunità,  diventano atti complicati da gestire per la difficoltà di potersi spostare non sapendo con chi lasciare i propri figli.

APRILE

Il clima emotivo è cambiato. C’è sempre tanta paura ma anche una nuova abitudine appresa, in cui ciascuno si è risistemato, l’incoraggiamento reciproco è “resistere”. I messaggi tra famiglie erano sempre sul “resistere, ce la faremo”. Le famiglie si sentivano tra loro, anche per scambiarsi quanto i coordinatori dei servizi dicevano loro. Le chiamate erano inerenti al volere o meno il servizio di educativa domiciliare, ma ancora con poche certezze di quale operatore sarebbe andato: un educatore del diurno? Un operatore conosciuto o sconosciuto? Per cosa fare? Passeggiate dove? Ancora non è caldo, in casa no per paura del contagio… quante ore? Le famiglie erano in difficoltà, non sapevano cosa rispondere.

La vita in casa si era assestata in una nuova routine: dopo un primo mese di chi prova anche a stimolare il figlio a livello motorio, cognitivo ci si adagia in una situazione temporale che non prevede fine breve. Chi lavora  in smart working con il figlio seduto in carrozzina accanto per metà della giornata; chi mantiene una possibilità di uscita anche piccola per comprare il giornale in edicola lasciando il figlio in casa nel tempo del tragitto perché sa che la letture del giornale può fare la differenza di umore; chi esce solo in macchina facendo giri a vuoto col solo obiettivo di prendere aria, di cambiare la maglia e salire in macchina; chi inventa tanti dolci da cuocere; chi gioca a carte per tanti pomeriggi di seguito col proprio figlio; chi si addormenta sul divano e si lascia andare all’apatia dei giorni mentre il figlio in camera ritrova giochi con cui impegnare le giornate come vecchi puzzle; chi tutto il giorno segue ogni serie televisiva spostandosi solo dal divano alla sala da pranzo e al letto; chi racconta di aver dovuto reggere a crisi nervose del figlio senza sapere come fare, a chi chiedere aiuto.

Quello che emerge è un clima abbastanza apatico per tutti, con pochi o nulli stimoli esterni. Un mondo fuori che entra poco o quasi niente, anche telefonicamente. Alcune persone con disabilità non ricevono chiamate da nessuno, chi riesce invece tenta di farle. Solo due persone con disabilità di questi, hanno mantenuto relazioni sociali a distanza; persone che prima dell’emergenza avevano una rete sociale fatta di impegni extra ai servizi. 

MAGGIO

I coordinatori dei servizi nel chiamare le famiglie iniziano a ipotizzare una possibile ripresa dei diurni, con una proposta ancora incerta e vaga sulle modalità. Di nuovo smarrimento: le famiglie non sanno cosa rispondere, non hanno sufficienti elementi per decidere, in una situazione emotiva in cui domina per tutti ancora la paura del contagio. La domanda dei servizi è se si è disposti a riprendere il Centro, magari in gruppetti e per alcune ore al giorno oppure se si preferisce qualche ora di domiciliare. Ma anche qui non si dà la certezza a tutti che gli operatori siano conosciuti, non si parla di cosa fare nello specifico.

Le emozioni che emergono sono angoscia, preoccupazione, confusione, paura, disorientamento e stanchezza. “Sono confusa, mi viene da piangere, tanta malinconia e solitudine. Non si può andare avanti così”. Gli unici due bisogni chiari verbalizzati sono di protezione della salute e di socialità per i figli, che sono rimasti per più di due mesi non solo isolati fisicamente ma anche con pochissimi scambi telefonici.

Alcuni lamentano con grande dispiacere il non aver avuto una telefonata da parte degli educatori, con i quali i figli avevano un rapporto quotidiano. Le persone del Centro sono ricordate come il “gruppo di amici” e la possibilità di ricevere videochiamate sarebbe stata vissuta dai familiari come il tentativo di far sentire il proprio figlio una “persona con pari dignità umana”. L’assenza del mondo fuori casa, sollecita un confronto nuovo, quello di rimisurarsi con il livello di fiducia verso l’esterno che per alcune persone con disabilità complessa è rappresentato solo o quasi dalle relazioni che si intrecciano attraverso gli educatori dei servizi di cui usufruiscono. “Se tutto questo calore umano non c’è stato in questi mesi, come posso rifidarmi?”  Ci si sente insicuri, fragili, soli, scoraggiati, sconfortati.  Emerge dunque:

– bisogno di sentirsi compresi nella loro confusione di non riuscire a prendere una decisione sul servizio, con un forte carico di responsabilità;

– bisogno di sentir riconosciuto un trattamento dei figli al pari degli altri (giustizia), “essere chiamato per nome da chi lo conosce, essere riconosciuto, essere appartenente ad una comunità”;

– bisogno di avere autonomia/autodeterminazione di pensiero: riprogrammare la vita con una certa stabilità per il genitore e per il figlio.

DAL 17 MAGGIO A OGGI, 4 GIUGNO

Da metà maggio, si sperimenta un’altra fase ancora. Per chi invece usufruisce di progetti come il Dopo di Noi e il servizio di AEI, si vive una condizione di ripresa certa. I figli si sperimentano assieme agli educatori con il mondo fuori e le nuove regole sociali, c’è uno scambio e una riprogettazione con i servizi.

Nella  delibera regionale[5] che stabilisce le modalità di riapertura dei Centri diurni e nel Piano territoriale di riattivazione dei servizi[6], si prevede, per il nostro ATS, il riavvio il  3 giugno. I familiari che usufruiscono dei centri diurni hanno certezza che le cose possano ripartire. Si sperimentano però ancora informazioni poco chiare da parte dei servizi. Alcuni genitori in questa fase vengono ricontattati dalle UMEA. A chi viene detto erroneamente che se il proprio figlio non tollera la mascherina sarà difficile rientrare, lascia sfiducia che la vita di prima non potrà mai tornare.

Le chiamate dei servizi sono volte a conoscere chi è disposto a fare il tampone in vista della riapertura del Centro, con il dire che farlo subito significa poi essere sicuri di rientrare. C’è smarrimento perché non a tutti viene detto come riaprirà il servizio (giorni, orari, operatori), con quali modalità si faranno i trasporti, se si ha diritto a servizi alternativi. In attesa che i diurni ripartano, alcune famiglie richiedono l’attivazione di un supporto domiciliare. Un accordo con coordinatore del Centro e con educatore – che questa volta sarebbe stato certo fosse un riferimento conosciuto dalla persona con disabilità – permette alle famiglie di sperimentare un riavvio, almeno nel proprio immaginario e in quelli dei figli.

Concordate le modalità di attivazione dei domiciliari, concordati giorni, orari e obiettivi, il giorno prima dell’avvio viene loro comunicato dalla cooperativa che il servizio non può partire perché non autorizzato. Delusione e scoraggiamento. Passati quasi 15 giorni, lo smarrimento diventa rabbia. La questione della fiducia nei servizi torna di nuovo, non si capisce dove la macchina si sia inceppata, chi bisogna chiamare, di chi è la responsabilità. C’è chi ci ripensa, chiudendosi di nuovo nelle proprie paure. Nel frattempo non si sa ancora la data di riapertura del servizio diurno, alcuni serbano paure per il tampone da fare, avendo esperienza di come sia difficile far fare delle visite mediche ai propri figli, visite che sono sempre fonte di ansie e difficoltà pratiche di gestione.

Dal punto di vista sociale, si vive un cambiamento. In questo periodo le famiglie iniziano ad uscire con i propri figli, piccole uscite per acquisti, ma non tutti riescono a tollerare la mascherina e si scontrano con quei negozianti che non li fanno entrare senza il dispositivo o che fa entrare solo il genitore lasciando fuori la persona con disabilità. Tristezza, delusione, senso di ingiustizia. Bisogno di informazioni anche su questo e di sapere cosa poter rispondere e come “difendersi” da sguardi di persone in fila al supermercato o da chi minaccia la multa.

Anche tornare al bar vicino casa portando con sé il proprio figlio diventa difficile, ci sono misure da prendere e regole sociali nuove con cui misurarsi e con cui far misurare i figli che non le comprendono. Il bar non viene più vissuto come il luogo dello scambio sociale come prima. C’è chi preso dalla paura del contagio sommato alla fatica e allo sforzo fisico che implica uscire con il figlio adulto e intollerante alla mascherina, rinuncia ancora a riprendere ad andare al supermercato. Ci si rimisura con la società, con i suoi permessi e i suoi divieti, con delle regole nuove per tutti, ma che per chi vive una situazione difficile già senza Covid, diventa quasi un carico di responsabilità ulteriore per il quale serve ancora forza e grinta.

  [1] Gloria Gagliardini, Gruppo Solidarietà e Auto Mutuo Aiuto: il racconto di un’esperienza, in Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2017.

[2] Ordinanza Presidente della Giunta Regionale 4 del 10 marzo 2020.

[3]  Il decreto legge “Cura Italia” (n. 18 del 17.3.2020) art. 47 e 48.

[4] Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale 16 del 26 marzo 2020.

[5] DGR 600 18 maggio 2020.

[6] DGR 567 12 maggio 2020.

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