Il tempo della pace sulle droghe. di Patrizio Gonnella

Il 2022 avrebbe potuto essere l’anno della svolta, l’anno nel quale si sarebbe dovuto avviare un dibattito pubblico, generalizzato, ampio e trasversale sulle droghe. Un dibattito che avrebbe potuto coinvolgere i ragazzi, le famiglie, le scuole, i partiti, i servizi pubblici, la società. Così non è stato, a causa della contestabile decisione della Corte Costituzionale di negare
l’ammissibilità del referendum sulla cannabis, che nella fase della raccolta delle firme tanto entusiasmo giovanile aveva prodotto. Aldilà dei contenuti specifici del quesito referendario, la campagna elettorale sarebbe stata unica nel suo genere, favorendo uno straordinario dialogo inter-generazionale. Chissà se le posizioni rigidamente proibizioniste, nonché ispirate a logiche di tipo meramente repressivo e punitivo, si sarebbero, seppur parzialmente, ammorbidite.

Sicuramente sarebbe stata un’occasione per aggredire con argomenti culturali, sociali, medici, politici, giuridici e penitenziari quella zona grigia che non ha posizioni nette e che naviga tra la tolleranza e l’intolleranza a seconda delle circostanze o dell’influencer di turno. È questo il compito che si sono assunte le organizzazioni che hanno promosso la tredicesima edizione del Libro bianco sulle droghe: mettere a disposizione dell’opinione pubblica indistinta analisi, argomenti critici, numeri e storie per spostare da un estremità all’altra coloro i quali navigano all’interno della zona grigia.

Vorremmo che questo Libro bianco, senza pregiudizi o posizioni stereotipate, diventasse strumento di studio e approfondimento per chiunque non sa se è meglio, proibire, punire, incarcerare oppure limitarsi a informare, spiegare, educare ogniqualvolta ci si occupi di sostanze stupefacenti. Vuole essere dunque una sorta di manuale del buon senso che aiuti anche a portare avanti un’operazione di igiene di linguaggio in una società dove ancora si usa indistintamente e volgarmente la parola ‘drogato’ per parlare del consumatore di sostanze. La questione delle droghe è multi-dimensionale. Nonostante racchiuda mille storie diverse, la gran parte delle quali ben lontane da una razionale esigenza punitiva, viene trattata con il manicheismo poliziesco, come i dati evidenziano tragicamente.

Le pene, in un sistema giuridico liberale, dovrebbero essere fermamente ancorate al principio di legalità in senso stretto che porta con sé i principi di materialità dell’azione e di offensività. Il diritto penale nasce per proteggere le libertà dagli arbitrii del potere di punire e non per negarle inutilmente. Ogni compressione della libertà individuale deve avere una giustificazione
razionale. Quest’ultima risiede nella necessità di andare a proteggere beni o interessi che potrebbero essere potenzialmente lesi dal comportamento di chi commette un delitto. In una parte significativa delle fattispecie di reato previste dall’attuale legislazione in materia di sostanze stupefacenti è difficile determinare chi è la vittima e quale sia il bene materiale lesionato. Si pensi alle condotte consistenti nella coltivazione di canapa ai fini del consumo personale. Quale è in questo caso il bene protetto dalla norma? C’è chi afferma, in modo paternalistico, che esso sia la salute della persona che ne avrebbe voluto fare uso. Se così fosse, dovremmo altresì punire colui che mette in atto un tentativo di suicidio o tutti coloro che hanno uno stile di vita insano, ad esempio i mangiatori seriali di fast food. Non è questo il compito del diritto penale nella modernità.

La normativa sulle droghe non ha alcuna efficacia preventiva, speciale o generale. I numeri dei consumi e della repressione ci dicono che le scelte del singolo o della generalità dei consociati non sono state minimamente condizionate dalla severità della reazione penale. Dunque le pene alte e il proibizionismo si spiegano alla luce di una sotto-cultura penale meramente retributiva e afflittiva, con venature moralistiche. La legge Fini-Giovanardi è un manifesto di cultura illiberale. E ciò accade nel paese dove è nato Cesare Beccaria. A questa conclusione, così come ci arriviamo noi con le nostre analisi e le nostre riflessioni circostanziate, ben avrebbero potuto giungerci anche coloro che hanno responsabilità a livello politico e governativo. Non c’è ancora nel nostro Paese la tensione verso un cambio di paradigma.

Non è un caso che abbiamo scelto il colore bianco per il nostro racconto sulle droghe. Vorremmo che esso fosse usato per scrivere un’altra storia, che ci riporti alla razionalità normativa. Il bianco è il colore dell’innocenza, come sostanzialmente innocenti sono tantissimi di quei giovani che vengono imprigionati, sanzionati per avere con sé una certa quantità di sostanze. Innocenti non perché non fosse vero che la possedevano (o quanto meno è irrilevante ai fini del nostro discorso), ma innocenti in quanto non hanno offeso alcun bene o interesse meritevole di tutela. Li stiamo condannando nel nome di una morale che ha permeato il diritto.

Il 2022 è l’anno della guerra. Forte è tornato nel dibattito politico il filo-atlantismo. Gli Stati Uniti hanno trascinato tutto l’occidente, Italia compresa, nel sostegno all’Ucraina, dopo che è stata aggredita dalla Russia. Sul tema delle droghe, invece, l’Italia non si è messa nel solco americano. Quando negli Usa si aprono spiragli di libertà, come quelli che hanno prodotto leggi statali anti-proibizioniste, non si intravede l’effetto domino nel nostro Paese. La nostra dipendenza dagli alleati americani è selettiva. È per ora mancato il dibattito pubblico intorno a quello che è accaduto nella società, nelle carceri, nei tribunali dopo la legalizzazione della cannabis in Colorado oppure in California.

Speriamo che la quattordicesima edizione del Libro bianco sia quella in cui potremo raccontare che tutte le guerre sono state messe al bando, compresa quella alla droga.

Fonte: XIII Libro Bianco sulle droghe: “La sfida democratica” – Conclusioni

l’Autore: Patrizio Gonnella è Presidente di Antigone

 

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