Aborto, un diritto negato. di Marina Della Giusta, Maria Laura Di Tommaso, Caterina Muratori

In Italia l’aborto è un diritto riconosciuto dalla legge. Ma l’obiezione di coscienza e più in generale l’atteggiamento dei medici rendono l’accesso alla procedura inutilmente lungo, complicato e traumatico per le donne.

Il diritto all’aborto

La sentenza della Corte Suprema Usa ha riportato in primo piano il dibattito sull’aborto. La scienza economica ha qualcosa da dire in proposito? Il premio Nobel per l’economia Alvin Roth ha inserito l’aborto in una lista di eventi che sono o sono stati considerati “ripugnanti”, ovvero quegli eventi rispetto ai quali si prova o si è provato un disagio morale. La ripugnanza morale cambia a seconda dei contesti istituzionali e dipende da un “prezzo” implicito associato alla propria moralità. Una delle implicazioni di questi studi è che sia possibile migliorare il dibattito pubblico fornendo informazioni concrete circa i vantaggi in termini di efficienza di scelte considerate moralmente problematiche. Di converso, la strategia perseguita dall’ala più reazionaria del conservatorismo americano (e non solo) è stata quella di innalzare il costo morale associato alle interruzioni di gravidanza con ampie campagne, che sono culminate, una volta raggiunta la necessaria maggioranza alla Corte Suprema, nella decisione di ribaltare la sentenza Roe vs. Wade che garantiva il diritto di accesso all’aborto in tutto il paese, di fatto rendendo illegale la procedura in diversi stati americani e aprendo le porte a nuove restrizioni in tanti altri.

In Italia il diritto all’aborto è garantito dal 1978, ma ai medici è concesso di obiettare alla fornitura della prestazione sulla base, per l’appunto, di motivazioni morali (anche se, come vedremo, sono in pratica legate alla carriera), negando di fatto l’accesso all’aborto a molte donne – specialmente alle più povere. I metodi utilizzati per l’intervento sono poi spessi arretrati, ingiustificatamente invasivi e colpevolizzanti.

Aborto farmacologico e aborto chirurgico

Sono due i metodi utilizzati per effettuare l’Ivg: l’aborto chirurgico e l’aborto farmacologico. Nell’ambito dell’aborto chirurgico, la metodologia dipende dal periodo di gestazione. Entro le prime otto settimane, viene utilizzata l’isterosuzione che consiste nell’aspirazione dell’embrione e dell’endometrio attraverso una cannula introdotta nell’utero. Dall’ottava alla dodicesima settimana, si eseguono la dilatazione e la revisione della cavità uterina (in questo caso è prevista la dilatazione della cervice per poter utilizzare una cannula di diametro maggiore). L’aborto farmacologico non richiede invece il ricorso all’intervento chirurgico: viene indotto da un farmaco, il Mifepristone- la cosiddetta pillola RU486 o pillola abortiva. Il farmaco abortivo è solitamente associato al Misoprostolo, che viene assunto due giorni dopo, inducendo le contrazioni uterine per favorire l’espulsione dell’embrione.

Anche se l’aborto farmacologico è legale in Italia dal 2009, nel 2020 è stato utilizzato solo nel 31,9 per cento delle Ivg. Rispetto agli altri paesi europei, l’Italia si classifica quindi fra le ultime posizioni per utilizzo di questa procedura (Figura 1).

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L’aborto farmacologico è sicuro, semplice e funzionante, e offre maggior privacy di quello chirurgico. Dal punto di vista fisico, l’uso della pillola RU486 permette alle donne di non dover affrontare un intervento chirurgico invasivo e non necessario; dal punto di vista psicologico, l’aborto farmacologico rende l’Ivg meno traumatica. Perché dunque insistere con altre procedure?

La letteratura scientifica stima un’associazione statisticamente significativa a livello di singoli paesi fra l’uso dell’aborto farmacologico e il livello di uguaglianza di genere. In quest’ottica, il ricorso a metodi complessi e non necessari appare nella sua funzione disincentivante e punitiva: l’aborto deve restare una procedura complicata, dolorosa e psicologicamente traumatica per scoraggiarne l’utilizzo e lasciare un marchio indelebile nella memoria di quelle donne che hanno deciso di non portare a termine la propria gravidanza. La ripugnanza morale che alcuni medici (o i loro superiori) provano rispetto all’aborto influenza così anche la procedura scelta.

La piaga dell’obiezione

L’utilizzo diffuso della pillola abortiva potrebbe inoltre facilitare l’accesso all’Ivg, reso complicato dalla mancanza di personale ospedaliero, per l’alta percentuale di medici che dichiarano obiezione di coscienza (Figura 2).

Ginecologi
Anestesisti

Questa situazione costringe molte delle donne che risiedono in regioni con un elevato numero di obiettori a dover uscire dalla propria regione di residenza per poter ottenere un aborto e aumenta notevolmente i tempi di attesa necessari per un’Ivg, esponendole a maggiori rischi di complicazioni.

Ma se l’obiezione di coscienza nasce per concedere ai medici la possibilità di non dover intraprendere una transazione moralmente ripugnante, oggi le ragioni dietro tale scelta hanno spesso poco a che fare con la moralità individuale. Al di là di quest’ultima, le motivazioni più citate riguardano le minori possibilità di carriera (dovute al fatto che la maggioranza dei primari sono obiettori) e la corrispondente stigmatizzazione dei non obiettori all’interno degli ospedali. A ciò si aggiungono la mancanza di incentivi economici, l’eccessivo carico di lavoro e l’inadeguato training medico.

Il riemergere degli aborti clandestini

I problemi di accesso, uniti allo scarso utilizzo dell’aborto farmacologico, spingono molte donne ad auto-amministrare illegalmente la procedura. Da un lato, limitare il diritto all’aborto non riduce il numero effettivo degli aborti, ma spinge solo le donne nell’illegalità; dall’altro, molte donne preferiscono utilizzare la pillola abortiva all’interno delle proprie mura domestiche, sia perché molto meno invasiva di un intervento chirurgico, che per avere maggior privacy ed evitare giudizi e umiliazioni da parte del personale medico. Le ormai numerose testimonianze riguardo il pessimo trattamento riservato in ospedale alle donne che vogliono abortire, si ricollegano alla funzione punitiva e disincentivante della metodologia, e adesso anche del contesto, in cui praticare le Ivg.

Per concludere, il quadro che emerge è quello di un paese in cui il diritto all’aborto è garantito dalla legge, ma il modo in cui la legge viene applicata rende l’accesso alla procedura spesso lungo e complicato, a causa dell’alto numero di obiettori. E la procedura stessa è ingiustificatamente dolorosa e traumatica, come conseguenza del ricorso alla chirurgia e dell’atteggiamento scortese e giudicante che molti medici riservano alle donne che vogliono abortire. Come Alvin Roth ha ben illustrato, la ripugnanza morale di alcuni porta a risultati pessimi (e inefficienti) per molti. Nel caso dell’aborto, in nome di un supporto (tutto sommato facile dato che non genera obblighi specifici in chi lo sostiene) per vite che non ci sono ancora si compromettono quelle di coloro che già ci sono.

fonte: lavoce.info

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