Partorire in America. di Claudia Cosma

Negli USA la mortalità materna è cresciuta negli ultimi anni per arrivare a 33 donne decedute per gravidanza e parto ogni 100 mila nascite. Un livello record da quasi settant’anni. Il divario è stratosferico rispetto ai Paesi del G7: Francia, Regno Unito e Germania, ad esempio, si fermano a 10-11 decessi per 100 mila nascite.

Problema annoso, ma non per questo trattato con adeguatezza. È notizia di pochi giorni fa del Wall Street Journal che gli Stati Uniti, un po’ per la pandemia, un po’ per i fattori di rischio trascurati, nel 2021 sono tornati ai livelli massimi di mortalità materna del 1965 (1). Un picco negativo legato a problemi irrisolti di salute nella popolazione generale, ma anche alla brusca interruzione di cure e visite nelle fasi di lockdown di inizio pandemia. A rendere la spirale inesorabilmente discendente, inoltre, è l’allarmante trend di chiusure di unità di ostetricia nelle aree rurali a causa di costi proibitivi e di profitti svaniti per i provider ospedalieri. A soffrirne sono soprattutto le donne delle minoranze, in particolare afroamericane e native.

Le cifre del dramma americano sono condensante nell’ultimo rapporto del National Center for Health Statistics, l’agenzia del governo federale specializzata in analisi dei grandi temi di public health (2).

Nel 2021 negli U.S. sono morte 1.205 donne in gravidanza, nel 2020 erano state 861, l’anno precedente 754.

Un aumento secco su base annua del 40%, che porta il maternal-mortality rate a 33 ogni 100 mila nascite, un livello record da quasi settant’anni. Il divario è stratosferico rispetto ai Paesi del G7: Francia, Regno Unito e Germania, ad esempio, si fermano a 10-11 decessi per 100 mila nascite. Il COVID-19, grande amplificatore di ogni dinamica sociale che tende alla disfunzione, ha offerto un poderoso quanto indesiderato contributo. Tuttavia, ben lungi dal manifestarsi sotto le sembianze di un inatteso cigno nero, la pandemia anche in questo caso si è limitata a dare una spinta e un’accelerazione a un fenomeno che era in rampa di lancio per quanto trascurato dal decisore pubblico. L’interruzione delle cure in fase di restrizioni è stata significativa, le donne incinta da parte loro si sono trovate esposte a conseguenze severe una volta contratto il virus, specie quando non vaccinate.

Ad ogni modo il ventennio precedente era stato implacabile. Basti pensare che fra il 2000 e il 2020 i decessi di donne in gravidanza sono aumentati del 78%. Un dato che, probabilmente, desta meno meraviglia una volta associato alle fragilità della salute degli statunitensi: si scopre, quindi, che il 42% è obeso, quasi il 50% soffre di ipertensione, l’11% di diabete, il 38% galleggia in una condizione di prediabete. Diventa allora triste, ma non sorprendente, prendere atto di questa impennata di decessi, come constata proprio al Wall Street Journal Veronica Gillispie-Bell, ginecologa e docente associata all’Oschner Health nel New Orleans. E malgrado non sia un inedito, rappresenta anche lo specchio delle disuguaglianze che solcano la società americana: il 30% di tutte le morti in gravidanza riguarda, infatti, donne nere, malgrado gli afroamericani siano soltanto il 14% della popolazione. Fra le afroamericane, di conseguenza, l’incidenza è superiore di 2,6 volte rispetto alle donne bianche. I casi infausti sono maggiormente frequenti nella fascia delle donne over 40, ma anche fra le ispaniche.

Numeri che dovrebbero caricare di inquietudine chi si occupa di public health in America, tanto più se si considera che oltre l’80% dei decessi cosiddetti pregnancy-relate sono evitabili. Un esempio illustre sono le embolie polmonari, fattore di rischio importante specie se non trattate in maniera tempestiva. Un problema che riporta più che all’immagine di un’area rurale del 2023, il retaggio di una medicina settecentesca, quando l’anatomo-patologo Giovanni Morgagni imbattendosi nei coaguli di sangue nelle arterie polmonari si chiedeva “da dove parte la malattia?” (3). Ma ciò che mancava allora in termini di deficit di conoscenza scientifica, e che in realtà venne già colmato nel tardo ottocento coi primi interventi di rimozione di emboli messi a punto dal chirurgo tedesco Trendelenburg, si è trasformato oggi in un problema non meno insidioso di carente cultura della prevenzione e di organizzazione dei servizi sanitari. Un mix di disparità sociali e di assistenza che impediscono di affrontare i problemi di salute di una donna in gestazione alla radice, cioè prima della gravidanza stessa.

A tal proposito, per una comprensione del quadro d’insieme, ci viene in soccorso un articolo di approfondimento pubblicato alcune settimane fa dal New York Times sullo smantellamento annunciato tre giorni prima dello scorso Natale della maternity unita Toppenish, nello Stato di Washington, punto di riferimento per la locale comunità delle donne native (4). Una struttura apprezzata sia in termini di outcome, che per l’attenzione alle pazienti e alle loro tradizioni ancestrali: le native chiedono di partorire rivolgendosi verso oriente. La chiusura è stata vissuta come una calamità: solo a gennaio 35 donne avrebbero dato alla luce un figlio. Lo sgomento della cittadinanza era ben fondato, se non altro perché il provider, Astria, aveva acquistato l’ospedale appena tre anni prima facendosi forte della promessa di mantenere i servizi essenziali nei dieci anni successivi: sono subentrati costi imprevisti e un generale periodo di strettezza, anche demografica. La riserva indiana Yakama di Toppenish, in effetti, non è l’unica vittima dell’arretramento delle cure ospedaliere “labor and delivery”: fra il 2015 e il 2019 ben 89 unit di maternità sono state smantellate in aree rurali. In tutti gli Stati Uniti emerge così che sono sette milioni le donne americane in età fertile che abitano in contee prive di punto nascite, unità ospedaliere di ostetricia, ostetriche e ginecologi o che per raggiungerli devono mettere in preventivo almeno mezz’ora di viaggio. Ambulanze e veicoli d’emergenza, a loro volta, scarseggiano. Trovarsi a ragguardevole distanza da un presidio ospedaliero, abitando in una riserva sparsa per milioni di ettari, diventa dunque garanzia di una lunga attesa e di guai.

Il triste riscontro si ha nuovamente nel tasso di mortalità, che fra le native in gravidanza si presenta superiore di tre volte rispetto alle donne bianche. Destini così diseguali sono spiegabili alla luce di stili di vita scorretti, dal basso reddito e da malattie croniche che si mescolano nella comunità nativa di Toppenish con storie d’abuso di sostanze. A privarla di un orizzonte di miglioramento, però, è la sensazione di abbandono che può derivare da una sterzata improvvisa quale la chiusura di unit ospedaliere. Servizi, che presentano un nodo irrisolto legato ai costi. È l’altro spicchio di realtà che affiora proprio a Toppenish, dove il problema di sostenibilità finanziaria ha avuto il sopravvento.

La labor and delibery unit dell’Astria hospital nel 2022 ha accumulato perdite pari a 3,2 milioni di dollari. Quanto basta a mettere a repentaglio l’erogazione di cure e assistenza. Purtroppo il principale pagatore, nel caso di un ospedale in un’area a basso reddito, è Medicaid (l’assicurazione pubblica che assiste i poveri)  che liquida per ogni parto 6.344 dollari contro i 18.193 dollari di un piano assicurativo privato. È un dettaglio che racconta molto dello squilibrio dell’intero sistema. Nelle contee più ricche le assicurazioni private hanno gioco facile nel compensare i magri indennizzi del programma d’assistenza sanitaria del governo, peccato che fuori dalle grandi città il discorso cambi radicalmente. Lasciando esposte le native della riserva Yakama e le donne di molte aree non urbane a basso reddito.

A una possibile soluzione, per quanto parziale, sta lavorando Jordann Loher, una delle quattro ostetriche rimaste nella riserva indiana: chiedere l’apertura di un ospedale pubblico di distretto finanziato con tasse e addizionali locali, in modo da ristabilire una maternity unit. Non un’impresa facile, considerato che i reparti di ostetricia e ginecologia implicano una disponibilità di personale 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 e che la recente carenza di staff spinge gli ospedali a rivolgersi a specialiste a contratto, pagandole tre volte tanto… un po’ quanto sta accadendo anche alle nostre latitudini, in particolare nei pronto soccorso.

Risolvere il caso della paziente America resta un rompicapo e, come d’abitudine, esige sempre più soldi di quanto un ospedale o un decisore pubblico possa preventivare.

l’Aurtrice: Claudia Cosma, medico in formazione specialistica, Igiene e Medicina Preventiva, Università degli Studi di Firenze

Bibliografia

1) Sarah Toy, “U.S. maternal mortality hits highest level since 1965”, https://www.wsj.com/articles/u-s-maternal-mortality-hits-highest-level-since-1965-f9829776

2) Donna L. Hoyert, “Maternal Mortality Rates in the United States, 2021”, https://www.cdc.gov/nchs/data/hestat/maternal-mortality/2021/maternal-mortality-rates-2021.htm

3) P. Michael McFadden and John L. Ochsner, “A history of the diagnosis and treatment of venus thrombosis and pulmonary embolism”, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3399235/

4) Roni Caryn Rabin, “Rural hospitals are shuttering their maternity units”, https://www.nytimes.com/2023/02/26/health/rural-hospitals-pregnancy-childbirth.html

fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2023/04/partorire-in-america/

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