Carcere, due scioperi della fame nel silenzio generale. di Patrizio Gonnella

Il carcere è sofferenza, solitudine, disperazione. È un grande rimosso sociale. Quando se ne parla ci si affida a stereotipi e banalizzazioni. Non possiamo comprendere cosa sia il carcere per chi lo subisce e per chi lo vive solo attraverso le categorie della politica criminale. Il carcere è afflizione. A volte il carcere è morte. Così è stato nel caso dei due detenuti morti nell’istituto di Augusta. A seguito di un lungo sciopero della fame durato 40 e 60 giorni.

Non possiamo che ringraziare Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, per avere sottratto le loro storie all’oblio dove erano state confinate. Poco sappiamo di loro, nulla sapevamo della loro protesta e delle loro rivendicazioni. Sono morti nel silenzio e in silenzio. Sono morti senza avere l’opportunità di essere ascoltati. Non è importante se le loro richieste fossero o meno legittime.

Nel loro caso non si è creato alcun dibattito. Ogni giorno sono alcune decine i detenuti che dichiarano di fare lo sciopero della fame. A volte aggiungono anche lo sciopero della terapia, così mettendo a rischio le loro vite. Capita che lo facciano per piccole questioni di vita penitenziaria o per grandi rivendicazioni di giustizia. Nell’uno o nell’altro caso, nel giusto o nello sbagliato, meritano ascolto. Sempre.

Lo Stato non deve sentirsi ricattato da chi volontariamente mette a rischio la propria salute o addirittura la propria vita. Chiunque deve essere libero di farlo e deve essere ascoltato. La sofferenza di ogni persona deve essere presa in carico. Invece ogni protesta, anche quando è pacifica, viene trattata come se fosse una minaccia alla tranquillità e all’ordine interno.

E così viene non di rado privata di dignità. Rimossa. Tenuta nascosta. Se ne sa poco, così come poco si sa dei morti in carcere. Siamo a quasi ottanta decessi dall’inizio dell’anno. Diciassette di questi sono suicidi. Allo Stato affidiamo l’esercizio della pena legale. Allo Stato affidiamo i corpi dei reclusi. Allo Stato chiediamo trasparenza nell’esercizio del suo potere di custodia. Così come la pretendiamo dalle scuole a cui affidiamo i nostri figli e dagli ospedali a cui affidiamo i nostri malati.

Quando la Costituzione afferma che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità si rivolge a ogni attore della scena pubblica, ricordandogli che non è proprietario della vita delle persone. La tragica storia delle due morti nel carcere di Augusta ci racconta che c’è bisogno di riflettori sul carcere. Riflettori non alla ricerca di capri espiatori ma capaci di illuminare la sofferenza.

Dunque che fare per immunizzarsi dal rischio di nuove morti e nuove tragedie? Nella consapevolezza che il carcere porta sempre con sé un tasso di dolore, questo dolore va però minimizzato. Ad esempio moltiplicando le figure di intermediazione sociale che possano prendersi cura dei detenuti e ascoltare le loro richieste, proteste, proposte.

Proteggendo e valorizzando tutti quei direttori, operatori e comandanti di reparto che lavorano per ridurre la sofferenza e dare un senso alla pena. Non vanno lasciati soli o sanzionati al primo evento critico, come vengono chiamate le tragedie in carcere. Vanno accresciuti i contatti con l’esterno anche con le telefonate. Non si deve tornare alla triste epoca pre-covid, con quei risicati 10 minuti a settimana. Una telefonata può salvare la vita.

Una vita è sempre una vita. E come tale va sempre protetta. Il carcere ti toglie la libertà. Non deve toglierti né la vita né la dignità, compresa quella di protestare pacificamente con il proprio corpo. Negare ascolto, togliere la voce a chi protesta significa negare la dignità.

fonte: il manifesto Antigone

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