Verso l’assegno di inclusione: un passo indietro di 5 anni. di Massimo Aprea, Giovanni Gallo, Michele Raitano

Era il lontano gennaio 2018, le pandemie globali del III millennio erano ancora confinate a qualche sceneggiatura cinematografica e l’Italia si apprestava – guidata in quel momento dal Governo Gentiloni – a introdurre il Reddito di Inclusione (o REI). Come noto, il REI consisteva di una misura di contrasto alla povertà che prevedeva l’erogazione, subordinata all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa, di un sussidio alle famiglie in condizioni economiche disagiate. 

Nella prima fase della sua attuazione il Rei non si rivolgeva a tutte le famiglie, ma solo a quelle con almeno un minore, una persona con disabilità, una donna in gravidanza o un disoccupato ultra55enne. Non realizzava, quindi, il principio dell’universalismo selettivo che richiede di offrire un sostegno economico a tutti i nuclei che soddisfano determinati requisiti monetari, indipendentemente dalla categoria (ad esempio, le caratteristiche dei componenti o il loro status occupazionale). Tale limite fu rimosso solo a partire dal 1° luglio 2018, e così, per la prima volta nella sua storia, l’Italia si è allineata agli altri paesi dell’Unione Europea dotandosi di uno schema di reddito minimo “universale”. 

Il passaggio dal REI al Reddito di Cittadinanza (RDC) nel marzo 2019, seppur coi cambiamenti significativi – nella governance, nel disegno della misura, nella platea degli aventi diritto e, soprattutto, nell’entità del beneficio economico – non ha  rinunciato, pur con il limite dei requisiti di residenza per l’accesso alla misura – a quell’universalismo selettivo che sembrava ormai un punto fermo nel nostro paese. Come argomentano Franzini e Raitano in questo numero del Menabò, il decreto del 4 maggio 2023, con la conseguente prossima introduzione dell’Assegno di Inclusione (ADI) e del Supporto per la formazione e il lavoro (SFL) in sostituzione del RDC, appare invece  in contrasto con l’universalismo selettivo e  rischia di portare indietro di cinque anni  il nostro sistema di welfare.

In questo articolo indaghiamo i cambiamenti più rilevanti che potrebbero aversi con il passaggio da RDC a ADI e SFL sulla platea dei beneficiari e  sugli importi considerando anche gli impatti distributivi e quello sul bilancio pubblico. A questo fine, utilizziamo lo stesso modello di micro-simulazione statico basato sui dati dell’indagine IT-SILC adottato di recente da Franzini, Gallo e Raitano, allineando però la popolazione di minori nel campione con quella rilevata da Istat al gennaio 2023 per tenere conto della denatalità degli ultimi anni. Per il dettaglio su requisiti e caratteristiche delle misure si rimanda al contributo di Franzini e Raitano in questo numero del Menabò.

Come sempre, le simulazioni si basano su numerose assunzioni. Le più importanti da ricordare qui sono due: i) si ipotizza che tutte le famiglie italiane presentino la DSU-ISEE; ii) si ipotizza che tutte le misure di interesse (RDC, ADI e SFL) abbiano un take-up completo, ossia che tutti gli aventi diritto facciano domanda e ricevano il beneficio. Seppure il take-up delle misure selettive di welfare sia sempre, e ovunque, inferiore al 100%, questa ipotesi appare utile per confrontare le platee potenziali di beneficiari delle varie misure e, quindi, l’impatto massimo potenziale su bilancio pubblico, povertà e disuguaglianza.

Si specifica inoltre che i numeri delle simulazioni fanno riferimento per tutte le misure a un periodo che corrisponde ai loro primi 12 mesi di attività “a regime”, così da favorire un confronto chiaro nell’impatto di breve periodo e nella spesa pubblica prevista. Questo porta chiaramente a sovrastimare l’impatto “a regime” del SFL che non rappresenta una misura di reddito minimo, concessa quindi finché le condizioni di bisogno economico persistono, ma un sussidio monetario non rinnovabile e per 12 mesi al massimo, concesso a chi partecipa a progetti di formazione, di orientamento o altra misura di attivazione al lavoro. Per evitare complesse ipotesi sulla probabilità che si partecipi a tali progetti – e sulla loro durata –, considereremo soltanto i due scenari estremi: i) nessun avente diritto riceve il SFL (quindi il confronto sarà solo tra RDC e ADI); ii) tutti gli aventi diritto al SFL lo ricevono per tutte e 12 le mensilità (partecipano, dunque, tutti a attività di formazione di durata esattamente pari a 12 mesi).

La Tabella 1 mostra che nel passaggio all’ADI poco più della metà degli aventi diritto al RDC (circa 910mila nuclei, il 53,1%) resterà escluso dal beneficio, a fronte di soli 68mila nuovi accessi, per una platea potenziale della nuova misura nazionale di sostegno al reddito di circa 872mila famiglie. 

Tabella 1: Famiglie beneficiarie (in migliaia di unità) di RDC e ADI a confronto

La maggior parte dei 68mila casi prima esclusi da RDC rientrano nella platea ADI grazie alla riduzione del requisito della residenza minima in Italia (da 10 a 5 anni), mentre una minoranza accede grazie al cambiamento del requisito familiare e, in particolare, della scala di equivalenza. Queste tipologie familiari sono comunque piuttosto rare e composte per lo più da nuclei in cui vivono persone con disabilità. 

Come sottolineato da Franzini e Raitano, il passaggio da RDC a ADI complica ulteriormente la formula della scala di equivalenza, avvantaggiando alcuni nuclei (quelli con disabili e con figli di età inferiore a 3 anni, che beneficiano ora della piena cumulabilità fra ADI e AUUF), ma penalizzando altri (in primis, quelli con adulti senza responsabilità di carico). Questo effetto contraddittorio  viene confermato dalle nostre stime da cui emerge che fra le circa 800mila famiglie che erano beneficiarie RDC e continueranno a esserlo dell’ADI, soltanto il 10% beneficerà di un miglioramento nella scala di equivalenza nel passaggio da RDC a ADI, mentre il 43% ne risulterà penalizzata. 

Non a caso, facendo riferimento alle 910mila famiglie uscenti, il 49% verrà esclusa dall’ADI proprio a causa del cambiamento nel requisito del reddito familiare (connessa anche alla scomparsa della soglia maggiorata di accesso per le famiglie in locazione). Facendo sempre riferimento alle famiglie uscenti però è la nuova “categorialità” dell’ADI a determinare la più frequente causa di esclusione: il 65% di queste famiglie, infatti, non ha non al proprio interno un minorenne, una persona con disabilità o un over 60. Si comprende, quindi, perché i più  penalizzati sono i nuclei con un componente:  solo il 41,4% di essi mantiene il diritto all’accesso alla prestazione (quelli composti da un disabile o una persona di almeno 60 anni di età). La quota di esclusi è comunque, molto alta per ogni dimensione familiare, ma soprattutto nel caso in cui i componenti siano  almeno 4  (il 51,6% degli attuali beneficiari RDC è escluso), fortemente penalizzati dalla nuova scala di equivalenza che non considera gli adulti senza carichi di cura  e quindi comporta un aumento del reddito equivalente.

All’interno delle 872mila famiglie che avranno diritto all’ADI vivono circa 2,04 milioni di individui che sono per il 37%  over 60 o con disabilità, per il 27% minorenni, per il 14% prestatori di cura (come definiti ai sensi del decreto) e per il 13% esclusi dalla scala di equivalenza e quindi potenzialmente eleggibili per il beneficio SFL.

Per chi rimane incluso, l’importo delle prestazioni in media aumenta, in particolare per i nuclei con almeno 3 componenti, grazie alla decisione di rendere pienamente cumulabile l’ADI con l’AUUF (Tabella 2). Nonostante questo incremento medio degli importi unitari, la forte riduzione del numero dei beneficiari comporta un minore esborso di entità rilevante per il bilancio pubblico. Assumendo take-up pieno di RDC e ADI, la spesa annua si ridurrebbe, infatti, di circa 3,5 miliardi di euro e, come atteso, il risparmio più consistente riguarda i nuclei con un unico componente. Un significativo risparmio di spesa si verifica, ad ogni modo, per ogni dimensione familiare.

Al di là dell’importo medio, considerando  quanti ricevevano il RDC e rimangono incluso nell’ADI, l’importo della prestazione rimane invariato per  il 46,7% di essi cresce per il 31,3%  e diminuisce per il restante 22%. 

Tabella 2: Prestazioni medie annue e impatto previsto sul bilancio pubblico per RDC e ADI

Gli adulti nelle famiglie ADI esclusi dal calcolo della scala di equivalenza (tutti quelli di età 18-59, tranne il primo componente, senza carichi di cura) possono potenzialmente ricevere il SFL, così come tutti i componenti dei nuclei che soddisfano i requisiti ADI (incluso un requisito ISEE più stringente) ma non hanno al loro interno minori, disabili o over-60enni.

La Tabella 3 mostra, quindi, la distribuzione – per nuclei e individui – del rispetto o meno dei requisiti RDC, ADI e SFL. Complessivamente, fra chi viene escluso dal RDC circa 235mila nuclei (il 25,8% degli esclusi) possono ora avere diritto all’integrazione temporanea legata alle politiche attive.  Il 20,9% (182mila) dei nuclei inclusi nell’ADI ha almeno 1 componente eleggibile per il SFL. Complessivamente, l’integrazione monetaria temporanea per i partecipanti alle politiche attive può interessare fino a circa 582mila individui (386mila in famiglie che non percepiscono l’ADI e 196mila in famiglie che invece lo percepisocno).

Tabella 3: Famiglie e individui beneficiari (in migliaia di unità) di RDC, ADI, SFL

Nell’ipotesi estrema – e allo stato  attuale delle politiche attive in Italia del tutto implausibile – che tutti ricevano il SFL (di importo, si ricordi, pari a 350 euro al mese) per 12 mesi, nel primo anno di vigenza della misura si avrebbe una spesa complessiva per SFL di circa 2,5 miliardi e il risparmio per le casse pubbliche scenderebbe a circa 1 miliardo. In quest’ipotesi l’importo medio riferito alla somma fra SFL e ADI crescerebbe significativamente per tutti i nuclei con più di 1 componente, ma vi sarebbe comunque un risparmio per il bilancio pubblico di circa 1 miliardo di euro a causa della forte contrazione del numero di nuclei beneficiari potenziali di ADI e/o SFL (1.118mila) rispetto al RDC (1.714 mila). Assumendo – forse in termini ottimistici – che solo il 50% degli individui eleggibili riesca a seguire un corso di formazione di 6 mesi di durata media, la spesa per il primo anno di SFL ammonterebbe invece a circa 1 miliardo e, dunque, il risparmio per il bilancio pubblico rispetto allo scenario con RDC ammonterebbe a circa 2,5 miliardi.

Sempre in quest’ipotesi estrema – che varrebbe comunque per il solo 2024, non essendo il SFL rinnovabile – le due misure congiuntamente considerate avrebbero gli stessi distributivi del RDC – in termini di riduzione di disuguaglianza e povertà rispetto allo scenario senza redditi minimi (Tabella 4). Limitandoci, come appare più ragionevole, al confronto fra RDC e ADI, la forte caduta del numero di beneficiari risulta peggiorativa sia della povertà che della disuguaglianza, rispetto alla situazione pre-riforma. In particolare, guardando a un indicatore di incidenza della povertà grave – come la soglia di individui in nuclei con redditi equivalenti inferiori al 40% di quello mediano – mentre il RDC aveva consentito una riduzione del valore dal 9,2% al 7,2%, l’introduzione dell’ADI riporterà l’incidenza della povertà grave all’8.0%.

Tabella 4: Effetti distributivi della riforma

Concludendo, le nostre stime mostrano chiaramente come la riforma – rendendo fortemente categoriale l’accesso alla misura di reddito minimo, e in ragione di una distinzione basata sulla composizione familiare che nulla ha a che fare con l’effettiva occupabilità degli individui – riduce in misura molto consistente la platea di potenziali beneficiari. Questo genera sia per l’anno a venire sia, soprattutto, per gli anni successivi – data la non rinnovabilità del SFL – un notevole risparmio di risorse per il bilancio pubblico, con conseguenze chiaramente peggiorative per la disuguaglianza e la povertà.

fonte: https://eticaeconomia.it/verso-lassegno-di-inclusione-un-passo-indietro-di-5-anni/

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