LEA/LEP: panacea per l’autonomia? di Cesare Cislaghi

La necessità di definire il contenuto dei servizi sanitari a cui i cittadini hanno diritto di accesso è stata considerata sin dal decreto 30 dicembre 1992, n. 502, (Governo Amato, Ministro della Sanità De Lorenzo), che all’art. 1.2 poneva la definizione dei livelli di assistenza, e che così originariamente recitava:

Il Piano sanitario nazionale indica: a) le aree prioritarie di intervento anche ai fini del riequilibrio territoriale delle condizioni sanitarie della popolazione; b) i livelli uniformi di assistenza sanitaria da individuare sulla base anche di dati epidemiologici e clinici, con la specificazione delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini, rapportati al volume delle risorse a disposizione.

Si noti che nel testo originale del decreto si parla di “livelli uniformi”, e solo il decreto 18 settembre 2001, n.347, (Governo Berlusconi, Ministro della Sanità Sirchia) l’articolo 1.2 viene così modificato:

Il Servizio sanitario nazionale assicura […] i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse.

Al concetto di uniformi viene associato quello di essenziali che già ne limita concettualmente l’estensione ma ne garantisce la necessità, ma poco dopo nel decreto che definisce i livelli questi vengono chiamati esclusivamente essenziali, e si perde definitivamente il concetto di uniformi:

DPCM 29 novembre 2001 – Definizione dei livelli essenziali di assistenza, e nell’allegato 1 viene proposta la Classificazione dei livelli, precisando che le prestazioni di assistenza sanitaria garantite del servizio sanitario nazionale sono quelle riconducibili ai seguenti macro livelli essenziali di assistenza: 1) Assistenza sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro, 2) Assistenza distrettuale, 3) Assistenza ospedaliera. Seguono poi delle tabelle che articolano i micro livelli, le prestazioni in essi contenuti e gli eventuali costi a carico dell’utente o del Comune. Nell’ allegato 2 vengono invece elencate le prestazioni totalmente escluse dai LEA, e nell’allegato 3 quelle parzialmente escluse dai LEA in quanto erogabili solo secondo specifiche indicazioni cliniche, ed infine nell’allegato 4 le prestazioni incluse nei LEA che presentano un profilo organizzativo potenzialmente inappropriato e per le quali occorre comunque individuare modalità più appropriate di erogazione.

Insomma, l’obiettivo del DPCM è quello di definire con precisione quello che il SSN può (più che deve) erogare, ma non si definiscono le modalità di erogazione, come invece sembrerebbe voler indicare la legge 340 dicembre 2004, n.311 al comma 169:

169. Al  fine  di  garantire  che  l’obiettivo  del  raggiungimento dell’equilibrio economico finanziario  da  parte  delle  regioni  sia conseguito nel rispetto della garanzia  della  tutela  della  salute,[…], anche  al  fine  di garantire che le modalità  di erogazione delle stesse siano  uniformi sul territorio nazionale, coerentemente con  le  risorse  programmate per il Servizio sanitario  nazionale,  con  regolamento  […] sono fissati gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici, di processo e possibilmente  di  esito,  e  quantitativi  di  cui  ai livelli essenziali di assistenza, […]. In fase di prima applicazione gli standard sono fissati entro il 30 giugno 2005.

Questo regolamento per definire gli standard in realtà non è mai stato pubblicato anche perché realmente sarebbe molto difficile e complesso prepararlo. E questo è il punto in cui emerge il lato utopico della definizione dei LEA soprattutto verso la possibilità reale di garantire che le modalità di erogazione siano uniformi sul territorio nazionale: sono passarti b en vent’anni da questa norma e la realtà è tutt’altro che uniforme sul territorio, perché non è con una norma che si possa raggiungere questo obiettivo.

Nel 2017 è stato infine emanato il DPCM 12 gennaio 2017 per la definizione e l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza che ribadisce che:

2. I livelli essenziali di assistenza di cui al comma 1 si articolano nelle attività, servizi e prestazioni individuati dal presente decreto e dagli allegati che ne costituiscono parte integrante.

Il nuovo decreto definisce anche delle modalità di erogazione e dei criteri di appropriatezza ma non gli standard di qualità, operazione troppo complessa per essere codificata rigidamente. E questo è il vero tallone d’Achille dei LEA: si può fare un menu delle pietanze ma tra due trattorie diverse che hanno lo stesso menu può capitare di mangiare bene in una e male nell’altra.

Ci si dovrebbe anche chiedere cosa significhi il termine “essenziali” e quindi quali siano invece le prestazioni “superflue”. In realtà il termine da usarsi più corrispondente al testo dei decreti sarebbe quello di “livelli garantiti”.

L’adeguatezza delle prestazioni ai bisogni di assistenza e la loro uniformità sul territorio può essere solo il risultato di un governo e di una gestione ben coordinata. È per questo che un sistema complesso come la sanità non potrà mai essere ne totalmente codificato ne completamente omogeneizzato, ma se ben governato potrà tendere verso una equità delle modalità di erogazione. C’è allora da chiedersi se una autonomia differenziata potrà portare maggiori diversità o maggiore uguaglianza tra i sistemi regionali, e il timore è che diminuendo l’unità di governo aumentino le diversità di gestione.

Non tutte le diversità possono essere inopportune, ci sono situazioni sociali, economiche, territoriali che possono giustificare modalità differenti di assistenza, ma per la maggior parte dei servizi sarebbe necessario che i cittadini potessero trovare sul territorio uguali risposte ai loro bisogni di assistenza. I servizi in un’area metropolitana spesso è giusto che abbiano caratteristiche differenti dai servizi in aree rurali, e talvolta anche delle componenti culturali della popolazione necessitano risposte differenti seppur di pari efficacia.

Il sistema di monitoraggio dei LEA, secondo la griglia LEA usata sino al 2019, seppur ha rappresentato un necessario strumento di valutazione dei servizi regionali, non è stato ha in grado di entrare realmente nella misura delle modalità e delle qualità dei servizi, e comunque già così evidenziato delle elevate diversità nell’adempienza ai LEA da parte delle Regioni. Se ne è peraltro già parlato su E&P da parte di Claudio Maffei.

Dalla tabella seguente, elaborata da GIMBE relativa agli anni 2010-2018 si può vedere come le Regioni negli anni abbiano avuto livelli di adempienza molto differenti e rispetto ai criteri del sistema di monitoraggio l’Emilia Romagna, ad esempio, ha adempiuto per il 92,8% mentre la Campania per il 56,3%.

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Il “Nuovo Sistema di Garanzia” (NSG) operativo dal 2020 è sicuramente un passo avanti e i macro indicatori che lo compongono (file PDF)  portano ad evidenziare delle importanti differenze tra le Regioni e comunque anche loro non riescono di certo a valutare l’uniformità delle modalità di erogazione quantitativa e qualitativa delle prestazioni. Per ottenerla serve una programmazione coordinata ed una continua valutazione reciproca tra i diversi sistemi locali, magari con l’intervento di una autority indipendente nominata dalle Regioni stesse e vigilata dal Ministero. Anche la relazione sui dati del 2021, e il calcolo indicativo del punteggio complessivo, evidenziano molte disparità tra le Regioni, sia in termini di accessi sia in termini di salute.

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Entrando nello specifico, solo a titolo di esempio: che ci dice l’indicatore D12C del NSG (Consumo pro capite di prestazioni di laboratorio)? Ci dice che c’è una grande variabilità nei consumi di prestazioni, che appare ingiustificabile: 13,18 pro capite in Umbria e 6,65 a Bolzano nel 2021 e addirittura 3,29 in Molise. Saranno dati corretti e completi? parleranno delle stesse prestazioni? avranno la stessa appropriatezza? È giusto cercare di valutare, ma per capire bisogna andare oltre!

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Nel nuovo sistema di garanzia sono stati inseriti anche indicatori che evidenziano le situazioni di criticità e di bisogno delle popolazioni regionali. Anche questi indicatori evidenziano quante ampie siano attualmente le differenze territoriali.

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La rinuncia alle prestazioni sanitarie è un indicatore prevalentemente di carenza dell’offerta e risulta più elevato nelle Regioni con meno servizi e con meno ricorsi alla sanità privata integrativa.

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L’indice di cronicità, standardizzato per età e genere, è invece un indicatore di bisogno delle popolazioni e risulta più frequente purtroppo proprio dove sembra ci sia minor adempienza nella erogazione del LEA.

In conclusione, non sono i LEA, definiti come menù da una norma, che possono garantire che l’autonomia differenziata non spezzi l’unità del servizio sanitario nazionale. È solo una unità di governo ed un coordinamento della gestione che può cercare di ottenerla pur con molta difficoltà. Non spacciamo quindi i LEA come fossero la completa garanzia perché l’autonomia differenziata non produca una disgregazione del sistema sanitario e un livello che può diventare anche elevato di disequità nella soddisfazione dei bisogni sanitari della popolazione. I LEA, quindi, sono una base di partenza necessaria come lo è un buon libro di ricette quando si cucina, ma poi se non ci sono gli ingredienti giusti e se il cuoco non sa cucinare la pietanza non sarà molto gradevole!

Ottenere l’equilibrio in un sistema è operazione molto complessa: ci sono talvolta regole inutili che soffocano la responsabilità necessaria per trovare le soluzioni migliori, e invece regole indispensabili che evitano di giustificare le diseguaglianze e le disequità. Ma le regole non bastano e non basta una valutazione a posteriori; serve una reale unità organizzativa, programmatoria e di governo. È su questo che si dovrebbe lavorare perché l’autonomia differenziata non sgretoli l’unitarietà del Servizio Sanitario Nazionale.

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