L’epidemia delle malattie croniche, la cura. di Gavino Maciocco

Nel 2005 la rivista The Lancet dedicò una serie di articoli alle malattie croniche, dal titolo provocatorio: “The Neglected Epidemic of Chronic Disease” [1]. La provocazione stava in primo luogo nella scelta del termine “epidemia”, abitualmente utilizzato per le malattie infettive quando il tasso d’incidenza osservato è di gran lunga superiore a quello atteso. Anche per le malattie croniche si è arrivati ad applicare questo concetto: fino a certo punto della storia, infatti, l’evoluzione delle malattie croniche (malattie cardiovascolari, tumori, malattie respiratorie, diabete, ecc.) era strettamente legata all’aumento della longevità delle popolazioni, in altre parole l’insorgenza delle malattie croniche era la “naturale”, perfino “attesa”, conseguenza dell’invecchiamento delle persone. Da almeno tre decenni invece l’incremento delle malattie croniche è di gran lunga superiore al tasso di crescita della longevità. Longevità che paradossalmente mostra – è il caso degli USA – una fase di stasi proprio a causa dell’eccesso di prevalenza di malattie croniche. In secondo luogo la provocazione sta nella scelta dell’aggettivo “neglected” (“trascurata”) riferito a un fenomeno, quello delle malattie croniche, che è causa dei due terzi delle morti nel mondo.

È stato un Direttore Generale dell’OMS, Margaret Chan, a spiegare il motivo, tutto politico, della sottovalutazione delle malattie croniche [2,3]. Questa la sostanza del suo pensiero: quando si trattava di affrontare la prevenzione delle malattie infettive la sanità pubblica aveva al suo fianco diversi settori “amici” come istruzione, casa, nutrizione, acqua e igiene; amministrazioni locali e governi nazionali intervenivano, programmavano, emanavano norme e leggi. Di fronte alle malattie croniche, di settori “amici” intorno se ne vedono pochi, anzi nessuno, mentre la scena globale è occupata da attori che traggono dal commercio di tabacco e di unhealthy food products enormi profitti, nel silenzio e nell’inerzia spesso complice dei governi.

Fino a oggi il sistema sanitario si è organizzato e ha investito quasi esclusivamente nel settore delle malattie acute, secondo il paradigma dell’attesa e del modello biomedico di sanità. Questo paradigma si è inevitabilmente riflesso sulle modalità di assistenza ai pazienti con malattie croniche, come osservano i geriatri R. Rozzini e M. Trabucchi (2013): “Nonostante si viva in un mondo dominato dalle patologie croniche, nei luoghi di cura si pratica una medicina quasi esclusivamente per acuti: all’alba del XXI secolo persistono i modelli del XIX secolo”. Questo clamoroso ritardo è legato a vari fattori che abbiamo in precedenza segnalato (vedi neglected epidemic), ma è anche il frutto del tipo di formazione dei medici e degli infermieri, come scrive Dagmar Rinnenburger, autrice del libro recentemente pubblicato dal Pensiero Scientifico Editore – “La cronicità. Come prendersene cura, come viverla – : “Gli operatori sanitari – non solo il medico, ma anche gli altri professionisti della cura – sono orientati verso un modello di medicina acuta, dove sono competenti e gratificati, rispettati nei loro ruoli, utili, perché portano alla salute; le risposte sono veloci e di univoca interpretazione e l’azione svolta è chiara e visibile. Il contrario, dunque, di ciò che avviene nella cronicità. Questa esaurisce e, ciò che è peggio, annoia. La cronicità significa sempre lo stesso problema, nessuna sfida diagnostica o intellettuale, nessun brivido da emergency room, nessuna sfida per l’intelletto brillante di un Dr. House, spesso nessuna riconoscenza da parte di un paziente salvato e dei suoi familiari. Sembra anche che non ci sia nessuna frontiera scientifica da far avanzare con conoscenze e terapie innovative. L’esaurimento dell’operatore avviene più che altro per monotonia, perché l’operatore ha la sensazione di dare molto di più di quanto riceve. Di fronte alla cronicità, i sogni di essere un salvatore efficace inevitabilmente si frantumano. La lenta emorragia ha anche un versante emotivo: lo slancio che ha indotto ad abbracciare una professione terapeutica tende a spegnersi. Benché la cronicità coinvolga la stragrande maggioranza delle richieste fatte alla medicina, la formazione che ricevono i medici sembra non tenerne conto. Anche la formazione infermieristica va in questa direzione”.

Dagmar Rinnenburger, pneumologa e allergologa, trasferitasi da una clinica della Foresta Nera in Italia, tratta il tema della cronicità con grande sensibilità e delicatezza, insieme alla competenza che gli deriva da una qualificata pratica clinica. E affronta la questione da varie angolature e prospettive, per lo più mettendosi dalla parte dei pazienti.  Al riguardo, una domanda viene spesso spontanea: cosa servirebbe per migliorare la qualità della vita dei pazienti cronici, e cosa può fare l’organizzazione sanitaria per aiutare le persone ad adattarsi alle nuove condizioni? Le risposte sono disseminate in quasi tutti i capitoli, in particolare in quelli dedicati all’educazione all’autogestione e alle cure primarie (la medicina incrementale e la medicina d’iniziativa). Una risposta la offre, ad esempio, Atul Gawande, chirurgo statunitense, professore alla Harvard medical school, citato per l’ultimo suo libro pubblicato in Italia è “Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo” e per un lungo articolo comparso sulla rivista Salute Internazionale nel novembre 2017 dal titolo “Il medico che ti salva la vita”.

Chi conosce l’autore (e la sua specializzazione) avrebbe anticipato la risposta, sarà un chirurgo, magari un chirurgo d’urgenza. Invece no. Sorprendentemente il profilo del medico dotato di un tale straordinario potere risiede, secondo Gawande, nella figura che nell’immaginario collettivo ne è la più lontana, quella del medico di famiglia, del medico generalista che ha nella sua cassetta degli attrezzi pochi strumenti e poca tecnologia: quel medico che nella gerarchia delle specializzazioni mediche, almeno in USA, occupa il gradino più basso (anche in termini di remunerazione). Eppure, a dispetto di tutto ciò, è proprio lui che – in un team ben organizzato – riesce a garantire la continuità delle cure e a gestire meglio di altri la cronicità.

L’autrice traccia un percorso che partendo dal nostro immaginario, nutrito da serie televisive di grande successo, descrive il peso della cronicità per la persona e le difficoltà del clinico nella cura di pazienti affetti da problemi cronici. Analizza quindi gli ostacoli incontrati nell’aderire alle terapie e le soluzioni che possono venire dall’educazione terapeutica e dalla robotica. Rivolge poi un’attenzione particolare alle cure palliative, che debbono riguardare la totalità delle patologie d’organo e non solo la malattia oncologica. Ma, soprattutto, denuncia le risorse inadeguate messe a disposizione da un sistema sanitario più attento all’acuzie che alla cronicità e descrive nel concreto le strategie per affrontare il problema.  “Le riflessioni che siamo andati sviluppando vogliono essere un aiuto per guardare dietro le quinte di una salute immaginata e una provocazione per iniziare a pensare seriamente a esistenze umane nelle quali in misura crescente la salute si coniuga con le cronicità” scrive Dagmar Rinnenburger nel capitolo dedicato alle conclusioni e alle proposte (“se fossi un politico potente….”), tra cui compare questa: “Rivoluzionerei la medicina di base, facendone il perno centrale del cambiamento; farei dei team di medicina di famiglia con medico, infermiere, fisioterapisti e forse anche psicologi, piccoli centri nei quartieri, accessibili a tutti”.

Bibliografia

  1. Horton R. The Neglected Epidemic of Chronic Disease. Lancet 2005; 366: 9496: 1514
  2. Chan M. The Rise of Chronic Noncommunicable Diseases: an Impending Disaster – Opening Remarks at the who Global Forum: Addressing the Challenge of Noncommunicable Diseases. Geneva: WHO, 2011.
  3. Chan M. Opening Address at the 8th Global Conference on Health Promotion in Helsinki, Finland. Geneva: WHO, 2013.

fonte: SALUTEINTERNAZIONALE

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