Le evidenze in medicina: dal dire al fare. di Giovanni Baglio, Erica Eugeni

Le evidenze acquisite per via sperimentale possono non essere sufficienti per realizzare interventi efficaci. È necessario un mutamento di approccio: dall’evidence-based intervention (EBI) all’evidence-making intervention (EMI).

Ricordate la partita di croquet descritta da Lewis Carroll in Alice nel Paese delle Meraviglie[1]? “Alice pensò che in tutta la sua vita non aveva mai visto un campo da croquet più strano: era pieno di solchi e di buche: le palle erano dei porcospini vivi, le mazze erano dei fenicotteri e i soldati, piegati ad arco e con mani e piedi poggiati a terra, formavano le porte”. Nella lettura che ne offre Gregory Bateson – intellettuale poliedrico e teorico ante litteram della complessità –, il campo della regina diventa teatro di una partita inattesa e impensabile, in cui non è più solo l’incertezza dell’esito a dominare la scena, ma sono le condizioni stesse del gioco a cambiare imprevedibilmente: i fenicotteri possono piegare il collo, e così il giocatore non saprà mai se la sua mazza colpirà la palla né come; d’altronde, la palla stessa potrà andarsene per conto suo, perché è un porcospino. Nulla è esattamente predicibile, chiosa Bateson, quando entrano a far parte del gioco cose vive[2].

Ora, proviamo ad applicare questa semplice ma potente idea filosofica all’evidence-based medicine, e in particolare al dominio della scienza emergente dell’implementazione, che attinge sempre di più alle discipline socio-antropologiche per colmare il ben noto divario tra i risultati dei trial randomizzati e il loro trasferimento nella pratica. Ci renderemo conto che le evidenze acquisite per via sperimentale (le regole del croquet) possono non essere sufficienti per giocare, né tanto meno per vincere al gioco; e che gli interventi “situati”, ossia calati nei contesti particolari, producono nuove evidenze, a loro volta provvisorie e non necessariamente trasferibili.

È questa la conclusione a cui pervengono Tim Rhodes e Kari Lancaster in un recente articolo apparso su Social Science & Medicine[3], che tiene a battesimo un nuovo frame concettuale, definito nei termini di un mutamento di approccio: dall’evidence-based intervention (EBI) all’evidence-making intervention (EMI). L’attenzione degli Autori, dunque, si sposta dal contesto della sperimentazione, in cui le evidenze spesso si costruiscono in condizioni ideali all’interno di studi epidemiologici di tipo quantitativo e indipendentemente dalle dinamiche del mondo reale, al contesto dell’implementazione, in cui non si può fare a meno di misurarsi con tali dinamiche, che inevitabilmente sfidano e rimettono in discussione i risultati raggiunti.

Secondo l’approccio tradizionale dell’EBI, il riferimento all’evidence è essenzialmente una questione di metodo, che riguarda l’epistemologia, ossia il modo attraverso cui noi giudichiamo come appropriati e ottimali certi interventi sanitari e i loro effetti. La gerarchia dei diversi modi di conoscere e valutare gli interventi, che vede al vertice della piramide gli studi controllati randomizzati, si fonda sulla presupposizione che le prove di efficacia siano, entro certi limiti, libere da pre-giudizi di valore e quindi, in questo senso, rappresentino verità obiettive e attendibili sugli interventi, indipendentemente dai metodi di ricerca e dai contesti di sperimentazione. È proprio questa presunzione di “causalità isolata” a legittimare gli Studi controllati randomizzati come dispositivi di produzione della conoscenza.

Nel contesto della scienza dell’implementazione, invece, è la vita reale, con la sua molteplicità e imprevedibilità, a limitare la generalizzabilità, quando non la stessa validità interna, dei risultati. L’EMI enfatizza come gli interventi, attuati in specifici setting, interagiscano con le peculiarità dei contesti locali (storie, valori, aspettative, strategie individuali, dinamiche sociali), modificando gli equilibri e gli assetti dei contesti medesimi e, al tempo stesso, risultandone modificati. Tutto questo, sottolineano gli Autori, genera qualcosa di “ontologicamente” nuovo, che non riguarda più solo il nostro modo di conoscere il mondo, ma richiama le proprietà dei sistemi adattativi complessi, in cui un fitto intreccio di relazioni fa emergere proprietà nuove e inattese, non desumibili dalle caratteristiche dei singoli elementi costitutivi. Ogni intervento è, dunque, un unicum che si definisce solo in quanto intervento situato e l’implementazione si presenta come la sperimentazione incessante di un modello che risponde a una logica pratica[4], in cui si lavora “con quel che c’è”, e in cui ogni contatto diventa occasione per costruire alleanze particolare su situazioni specifiche. Cosa resta, dunque, delle evidenze quando, per riprendere Bateson, le regole devono essere scoperte mentre si gioca e non possono mai essere conosciute una volta per tutte?

L’EMI propone all’interno delle pratiche implementative un ribaltamento di prospettiva. Non ricusa l’evidence-based medicine, ma invita la sanità pubblica a ridefinire i suoi rapporti con l’evidence, in termini nuovi e costruttivi: più dinamici, pragmatici, e basati su approcci valutativi che prediligono i processi agli esiti, le esperienze real-life alle ricostruzioni idealizzate della realtà, la triangolazione dei metodi quali-quantitativi alle rigide determinazioni numeriche.

Anche guardando alle esperienze di casa nostra, ci rendiamo conto di come l’analisi di singoli casi studio possa rappresentare un approccio metodologicamente valido per la costruzione di evidenze fondate sulla pratica.

Prendiamo, ad esempio, la cosiddetta Sanità Pubblica di Prossimità (SPP), framework implementativo che si è andato costruendo in questi anni in risposta alla delicata quanto complessa questione dell’accesso ai servizi sociosanitari da parte delle frange più marginali della popolazione (tra cui gli immigrati e altri gruppi hard-to-reach)[5,6]. Nell’ambito della SPP, particolare attenzione viene riservata al modello basato sui promotori di salute, ossia persone individuate all’interno di minoranze etniche o comunità svantaggiate per supportare gli interventi sanitari e più in generale i processi di coinvolgimento ed empowerment dei gruppi di appartenenza. Il modello, ben descritto in letteratura, è stato utilizzato con successo ad esempio negli Stati Uniti tra gli immigrati ispanici, dove ha portato a un complessivo miglioramento nell’accesso ai servizi e nella fruibilità delle prestazioni[7]. Quando però un esperimento simile è stato tentato a Roma con le comunità di Rom, Sinti e Caminanti (RSC), i risultati sono stati inaspettatamente diversi[8].

Il fallimento dell’intervento di formazione dei promotori RSC in due campi della Capitale ha condotto, in primo luogo, a una riflessione sulle specificità dei gruppi target, e sulla storia e le peculiarità del contesto. In particolare, si è preso atto della difficoltà di far emergere una rappresentanza su cui vi fosse accordo, nonché di realizzare un’attività che non avesse un ritorno immediato per gli stessi gruppi RSC. È emersa, inoltre, la necessità di rilevare prima i bisogni della popolazione, in modo da fare leva su eventi sentinella che siano percepiti dai gruppi target come rilevanti nell’immediato. Dal punto di vista operativo, nel corso del progetto l’evidenza del fallimento iniziale ha portato a una rimodulazione delle attività e alla creazione di uno sportello sociosanitario in grado di farsi carico delle situazioni critiche ed avviare azioni appropriate, in risposta ai bisogni emergenti che la presenza stabile all’interno del setting di intervento aveva permesso di rilevare.

Questa esperienza ha mostrato in modo evidente come solo attraverso un’analisi approfondita dei contesti, e dei processi che l’intervento mette in moto nell’interazione con i contesti stessi, è possibile realizzare attività efficaci e individuare i punti di forza e le debolezze per una migliore programmazione di iniziative future. Nella prospettiva suggerita dall’EMI, le evidenze sono allora una sorta di manuale di istruzioni, abbinato alla “cassetta degli attrezzi” della sanità pubblica, da utilizzare e arricchire ogni volta di nuove indicazioni. Mentre il framework implementativo diventa la cornice teorico-pratica nell’ambito della quale individuare le strategie più adeguate e i metodi che devono guidare l’azione, sulla scia di quanto è stato fatto e ha funzionato, e a partire dalla conoscenza dei contesti di intervento, con un occhio vigile ai processi e la flessibilità necessaria a rimodulare le attività, ed eventualmente correggere il tiro. Una mappa, appunto, da costruire e adattare al territorio.

“Le erano successe tante di quelle cose, che Alice cominciò sul serio a credere che per lei non ci fossero più cose impossibili”.

Giovanni Baglio* ed Erica Eugeni**

*Società Italiana di Medicina delle Migrazioni
**Società Italiana di Antropologia Medica

Bibliografia

  • Carroll L. Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. Roma: Newton Compton editori, 2016.
  • Bateson G. Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi Edizioni, 1976.
  • Rhodes T, Lancaster K. Evidence-making interventions in health: A conceptual framing. Social Science & Medicine 2019; 238: 112488.
  • Bourdieu P. 1980, Le sens pratique, Paris, Minuit.
  • Baglio G, Eugeni E. Medicina di prossimità: un modello di sanità pubblica per i gruppi hard-to-reach. In: Maciocco G (a cura di). Cure primarie e servizi territoriali. Roma: Carocci editore 2019.
  • Baglio G, Eugeni E, Geraci S. Salute globale e prossimità: un framework per le strategie di acceso all’assistenza sanitaria da parte dei gruppi hard-to-reach. Recenti Prog Med 2019; 110(4): 159-64.
  • Perez-Escamilla R, Garcia J, et al. Health care access among Hispanic immigrants: ¿alguien está escuchando? [is anybody listening?]. NAPA Bull 2010; 34(1):47-67.
  • Ricordy A, Trevisani C, Motta F, Casagrande S, Geraci S, Baglio G. La Salute per i rom – Tra mediazione e partecipazione. Bologna: Pendragon 2012.

fonte: saluteinternazionale.info

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