Guarire dalla pandemia ritornando a una sanità più informata. Scenari di sviluppo dell’epidemiologia in Italia. di Giuseppe Costa

Questa discussione sul ruolo dell’epidemiologia nel futuro della sanità italiana capita in una fase quasi post pandemica, dove si prospettano diverse possibilità. Estremizzando si potrebbero immaginare due scenari.

Lo scenario più favorevole potrebbe essere descritto come segue:

  1. si è creato un clima collettivo di speranza e fiducia nella ripresa economica simbolizzata dalle finali sportive della domenica appena trascorsa;
  2. in questo clima si rafforza una cultura e un sentimento di maggiore responsabilità verso le conseguenze delle nostre azioni per le future generazioni e per noi stessi;
  3. il PNRR offre condizioni inedite di investimento condizionate alla introduzione di riforme e innovazioni di sistema, che spingono gli attori ad una maggiore lungimiranza nelle scelte e a una responsabilità di cui dar conto al pubblico;
  4. la missione 6 del PNRR sulla sanità ha concentrato una parte significativa degli investimenti sulla innovazione dell’assistenza territoriale, sia investimenti materiali (“case e ospedali di comunità”) sia innovazioni immateriali (“centrale operativa”, orientamento alla sanità di iniziativa, prossimità al bisogno, attenzione ai vulnerabili) che sono aperti alla prevenzione;
  5. la pandemia ha fatto sì che tutti prendessero confidenza con i concetti di rischio-beneficio e con le loro implicazioni quotidiane (ogni settimana le decisioni prese sul confinamento dipendevano da un bilanciamento dei rischi di infezione rispetto ai costi per il sistema produttivo e sociale):
  6. le innovazioni e gli investimenti del PNRR sono vincolati a meccanismi di rendicontazione ex ante (in sede di progettazione e quindi di scelta di priorità) ed ex post (come piani di monitoraggio) che devono usare metriche condivise di risultato intermedio e finale coerenti con le valutazioni rischio e costo beneficio;
  7. le innovazioni di digitalizzazione permetteranno lo sviluppo di sistemi di monitoraggio e indagine che faciliteranno la misura;
  8. tra le innovazioni previste nel mix professionale ci sono nuove figure professionali delegate alla ricerca attiva dei rischi e bisogni da prendere in carico e alla attivazione di reti di aiuto nella comunità integrate al funzionamento sanitario e sociale, come gli infermieri di famiglia e comunità e nuove figure per la prevenzione;
  9. in questo contesto la politica trova motivi di convergenza di intenti per chiamare tutti gli attori a diventare attori del cambiamento ognuno per la sua parte, compresi i cambiamenti delle regole del gioco e la determinazione di target condivisi.

Al contrario lo scenario più sfavorevole sarebbe quello in cui tutte le circostanze prima descritte vengono interpretate in modo riduzionistico ed opportunistico:

  1. la ripresa è intesa come ritorno a prima senza nessun genuino impulso di cambiamento;
  2. la politica lascia che capitino le scelte che i vari attori scelgono di perseguire, senza una funzione di guida e indirizzo;
  3. il PNRR più facile da cantierare è quello materiale, dove contano di più i mattoni dei contenitori che non il contenuto; d) le condizionalità introdotte dalla programmazione europea sia ex ante sia ex post si possono sempre aggirare con un gran girar di carte, tipo ISO… Ognuno può proseguire con fantasia l’elenco pessimistico.

In questi due scenari contrapposti si intravvedono già i contorni di due possibili strategie per l’epidemiologia.

Nel secondo scenario, quello sfavorevole, rimane tutto come prima, cioè l’epidemiologia di qualità nei SSR può svilupparsi solo nei contesti locali o regionali che sono più volenterosi verso il valore della disciplina, con investimenti che in genere non sono necessariamente proporzionali al fabbisogno ma rimangono affidati alle preferenze e alle committenze che prevalgono nelle diverse situazioni, vedi l’attuale disordinata distribuzione di strutture e competenze confinate in alcune regioni/ASL con assetti organizzativi e istituzionali variabili. Rimarrebbe l’epidemiologia dell’ISS a presidiare un ruolo di indirizzo e guida nazionale. L’epidemiologia accademica sarebbe a disposizione per coprire lacune su richiesta, oltre che naturalmente ad esprimere liberamente la sua vocazione di ricerca.

Nello scenario favorevole, proprio per le circostanze prima menzionate, ci sarebbe la possibilità di sviluppare un vero e proprio piano di investimento e innovazione, che renda esigibile il diritto a quel minimo di conoscenza epidemiologica che sarebbe adeguata per analizzare e monitorare rischi e bisogni e per valutare le azioni a livello locale, regionale e nazionale (fatti che chiamerò per semplicità diritto all’epidemiologia). Questo diritto è stato stabilito, seppur in modo un po’ disordinato, dal decreto e dalla legge sui registri e dal decreto sui LEA, ora occorre renderlo esigibile. Ma come? Almeno in due modi, da un lato costruendo consenso intorno a un documento sugli standard di epidemiologia, dall’altro approfittando delle finestre di opportunità aperte dalla pandemia e dal PNRR per disciplinare e finanziare questi standard.

Gli standard di epidemiologia

A proposito di standard, di solito nel SSN un diritto diventa esigibile nel momento in cui si organizza una struttura competente per fare le attività che danno risposte a questo diritto, seguendo standard regolamentati, come è accaduto col Decreto 70/2015 sugli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera. Il fatto è per questi LEA è relativamente facile determinare il fabbisogno di strutture, personale, competenze, strumentazione, perché si può contare su adeguate conoscenze su cosa servirebbe per unità di popolazione. Nel caso del diritto all’epidemiologia, è meno facile, perché qualcuno potrebbe addirittura sostenere che se proprio l’epidemiologia fosse necessaria si potrebbe acquisire in outsourcing, magari dall’università, e anche che non esisterebbero stime affidabili sul fabbisogno di epidemiologia per unità di popolazione o unità organizzativa. Siamo in buona compagnia perché nella stessa situazione, o ancora più defilate, sono le altre discipline della “policy analysis” in sanità, come l’economia sanitaria, l’analisi organizzativa e il management… La proposta è che le esperienze italiane di maggiore impatto e longevità vengano revisionate retrospettivamente per desumerne idee sugli standard minimi regionali, ad esempio sulle seguenti grandi funzioni, a loro volta articolabili in una o più strutture:

  1. Ogni regione deve organizzare una infrastruttura informativa minima, che acquisisce periodicamente, interconnette a livello individuale e documenta gli archivi regionali di NSIS, di Istat e di altri enti centrali riportanti le variabili demografiche, sociali e sanitarie necessarie per costruire registri di patologia, sorveglianze e monitoraggio. È ragionevole pensare che questa responsabilità sia assegnata a una struttura regionale che la garantisce per tutti gli utenti.
  2. A partire da questa infrastruttura ogni regione deve organizzare un data warehouse epidemiologico che permetta a diversi utenti di accedere ai principali indicatori rilevanti per la salute. Anche questa responsabilità potrebbe essere delegata alla stessa struttura di cui al punto a).
  3. Ogni regione deve organizzare i registri e le sorveglianze che non sono già desumibili dall’infrastruttura informativa minima e che sono richiesti da leggi o da rilevanti progetti di innovazione. Questa responsabilità, oltre che da una struttura centrale, potrebbe essere svolta da una o più strutture specialistiche decentrate, in funzione della specializzazione coinvolta
  4. Con i dati di cui ai punti a) e c) ogni regione deve poter organizzare osservatori specialistici (permanenti o on demand) su ogni campo di osservazione che sia rilevante per la programmazione preventiva e sanitaria; in genere si tratta di osservatori che accompagnano con adeguate conoscenze epidemiologiche le iniziative di innovazione (vedi il piano cronicità, il programma screening, il piano vaccini, il piano salute mentale, il piano dipendenze e gioco d’azzardo, i programmi di prevenzione del nuovo Piano Nazionale Prevenzione…). Anche questa responsabilità oltre che da una struttura centrale potrebbe essere svolta da una o più strutture specialistiche decentrate, in funzione della specializzazione coinvolta.
  5. Con i dati di cui ai punti a) e c) ogni regione deve poter guidare e valutare le principali azioni di programmazione regionale (ad esempio vedi il piano regionale di sviluppo del PNRR, riparto del fondo sanitario regionale, garanzia deli LEA, valutazione degli esiti…). Questa funzione dovrebbe essere svolta da una struttura centrale strettamente integrata con la programmazione regionale.
  6. Tutte le attività di cui ai punti a-e) dovrebbero trovare riscontro a livello aziendale in una struttura aziendale che accompagna con dati regionali e aziendali la direzione nella programmazione aziendale e che fa riferimento al coordinamento della struttura centrale regionale; le strutture aziendali possono assumere compiti specialistici di cui ai punti c) e d) nell’ambito della rete regionale delle strutture di epidemiologia.

Sarebbe possibile stimare il fabbisogno di personale relativo alle responsabilità appena citate rivalutando le esperienze storiche più solide in Italia (ad esempio DepLazio o la rete piemontese di epidemiologia) assumendo che al netto di alcune specificità esse rappresentino un esempio di risposta soddisfacente al diritto di epidemiologia in una regione, a parità di popolazione servita. Questo esercizio sarebbe incompleto se non comprendesse anche la necessità di un investimento di capacity building rivolto a tutti gli interlocutori aziendali e regionali rilevanti per una programmazione preventiva e sanitaria evidence-based.

Le finestre di opportunità e da dove cominciare

Mentre si elaborano gli standard, è opportuno trovare i punti di minore resistenza dove le idee di sviluppo degli standard dell’epidemiologia potrebbero avere più probabilità di venire accolte.

La coda della pandemia con la risorgenza da variante Delta riporta alla ribalta la centralità della sorveglianza epidemiologica, ad esempio con gli screening nelle scuole e con la ricerca e il controllo dei focolai. In quelle occasioni, ora che non c’è più l’affanno dello scompenso dell’assistenza ospedaliera è l’ora di fare i conti con quanto non ha funzionato nella sorveglianza a livello aziendale e regionale, soprattutto con la povertà nella capacità di investigazione dei nostri dipartimenti di prevenzione (DP). Infatti i DP sono rimasti vittime di un protocollo di Contact Tracing (CT) troppo rigido e facilmente saturato e presto affondato dal troppo alto numero dei contagi, che costringeva i servizi a inseguire soltanto i contatti famigliari, lasciando la prevenzione impotente e incapace di indagare retrospettivamente sui meccanismi di contagio, di lavorare con gli stakeholder locali per studiare le reti di mobilità e modulare le misure di confinamento, di igiene ambientale e di comunicazione, come anche di lavorare con i laboratori di virologia per cercare virus e varianti, ad esempio in acque reflue. Questo è anche il risultato dello smantellamento dei laboratori di sanità pubblica a favore delle ARPA. Questo sarebbe il momento di revisionare il piano di preparazione pandemica come occasione per revisionare il modo di funzionare e organizzarsi dei DP, anche sotto i suggerimenti dell’epidemiologia. Del resto anche l’imponente operazione di arruolamento nei Servizi di Igiene Pubblica di nuovi medici e tecnici, a fronte di un imminente turnover delle coorti di più anziani in età di pensionamento, dovrebbe essere accompagnata da un’adeguata formazione e tutoraggio da parte dell’epidemiologia regionale, altrimenti rischia di prendere i vizi e i difetti di quello che non ha funzionato nei vecchi DP. Un discorso simile si potrebbe fare per l’assistenza e l’organizzazione ospedaliera dove le direzioni sanitarie avrebbero tanto da imparare da un buon audit retrospettivo sul loro funzionamento in corso di pandemia, e sulle lacune nella capacità di investigazione che hanno manifestato nei processi organizzativi e clinici, e su cosa si potrebbe correggere.

Gli investimenti materiali sull’assistenza territoriale (Case di Comunità, Ospedali di Comunità, Centrali operative) sarebbero altrettanti punti di ingresso di innovazioni immateriali sui processi, metodi, strumenti e competenze per colmare le lacune di una sanità territoriale ancora troppo di attesa e poco di iniziativa e scarsamente integrata con le politiche sociali e del territorio e con le altre risorse della comunità. Il quadro di riferimento del Piano Nazionale Cronicità (stratificazione del rischio, PDTA, monitoraggio) e del Piano Nazionale di Prevenzione (prevenzione basata sulle prove, profili di salute ed equità) assicura all’epidemiologia un’investitura importante nel guidare questi percorsi di innovazione della prevenzione e della sanità territoriale. Bisogna conquistarsi un posto di prima fila in queste iniziative, per affermare il ruolo di un’epidemiologia organizzata in modo adeguato a livello regionale.

Anche gli investimenti sulla digitalizzazione sono un’occasione importante per l’epidemiologia. Presidiare gli sviluppi sul fascicolo elettronico e sull’architettura di interconnessione dei dati è fondamentale per alimentare la piattaforma informativa sulle storie di salute e uso dei servizi degli assistiti che sta alla base di una vera esigibilità dell’epidemiologia. Guidare l’esplorazione e la valorizzazione dei big data sanitari con strategie predittive e valutative permette di potenziare le capacità di osservazione epidemiologica. Così come è fondamentale per l’epidemiologia valutativa e clinica controllare che la telemedicina sia indirizzata da una corretta revisione dei processi operativi e clinici (service design) mirata all’efficacia e appropriatezza.

Inoltre l’esigente meccanismo di rendicontazione di impatto messo in piedi dalla Commissione Europea per la valutazione ex ante ed ex post dei progetti offre numerose opportunità per affermare l’importanza delle metriche epidemiologiche e quindi di chi le sa misurare, oltre che di chi sa maneggiare i metodi e strumenti della Valutazione di Impatto Sanitario che permette di allargare la capacità di valutazione anche oltre le politiche sanitarie.

Queste quattro finestre di opportunità mostrano che l’epidemiologia può e deve mobilitarsi in modo più energico e corale, entrando in questi contesti con la disponibilità a sporcarsi le mani in processi di programmazione che saranno anche troppo brevi e concitati rispetto al nostro stile, ma sono i tempi imposti da Next Generation EU, in compagnia di attori non sempre uguali a quelli che ci saremmo scelti, ma con la voglia di contribuire all’innovazione perché le nostre capacità di policy analysis fattuale servono in queste circostanze, e avendo sempre in tasca il nostro documento sugli standard organizzativi e di personale della epidemiologia, per sfruttare ogni circostanza per promuoverne l’affermazione.

Giuseppe Costa: Servizio di epidemiologia ASL TO3, Uni TO

Fonte: E&P

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